L’Italia è il Paese dove a Bologna, nel 1088, è sorta la prima università al mondo; dove, qualche secolo dopo, è nato il padre del metodo scientifico Galileo Galilei; dove si è costituito il primo nucleo del sapere biomedico moderno, con Francesco Redi, Marcello Malpighi e Giovanni Battista Morgagni. Primati che dovrebbero inorgoglire ogni italiano, ma che spesso si fatica a ricordare, dal momento che siamo anche uno degli Stati europei che oggi vivono con più difficoltà il rapporto tra scienza, politica e società.

Secondo i dati diffusi dalla Commissione UE nella Relazione del 2020 relativa all’Italia (1), rispetto all’obiettivo stabilito nel PNR (Programma Nazionale per la Ricerca) 2015-2020 che puntava all’1,53 % del PIL in ricerca e sviluppo, l’Italia ha compiuto progressi limitati negli ultimi anni. Nel 2018 gli investimenti nel settore erano fermi all’1,39 % del PIL. In particolare, per la ricerca pubblica la percentuale era appena dello 0,5%, contro l’1% della Germania e lo 0,75% della Francia.

La debolezza del sistema-Italia deriva anche dai pochi studiosi attivi: su mille occupati, secondo i dati OECD 2019, i ricercatori pubblici e privati impegnati in progetti di ricerca e sviluppo sono appena 6,3 in Italia, rispetto agli 11 della Francia e ai 9,9 della Germania. E se guardiamo ai dottorati di ricerca, il numero annuo in Germania è addirittura il triplo del nostro: 28mila contro 9mila.

Andando a ritroso nel percorso di formazione, la “Relazione (2) della Commissione europea sul monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione 2020” evidenziava un tasso a doppia cifra di abbandono precoce degli studi e della forma- zione nei ragazzi tra i 18 e i 24 anni (il 13% risultava non diplomato e non iscritto ad alcun corso di studi nel 2019, dato da immaginare in peggioramento in relazione agli effetti della pandemia da Covid-19).

Numeri “freddi”, ma molto significativi. Cui fanno da contraltare i traguardi, da ricordare e valorizzare, raggiunti dal nostro Paese a livello internazionale nel campo della ricerca. Basti ricordare i successi di tanti studiosi italiani nei prestigiosi e ambitissimi bandi competitivi che, ogni anno, il Consiglio europeo della ricerca (ERC) propone per finanziare progetti innovativi rivolti a ricercatori agli inizi della carriera (Starting Grant), a studiosi che chiedono di potenziare una direzione di ricerca solida  e importante (Consolidator  Grant) o a quelli che, con curriculum già consolidato, propongono un’idea dirompente su un fronte inesplorato (Advanced Grant). Ebbene, nel 2020 ben 53 Starting Grant sono stati assegnati a progetti di ricercatori italiani, secondi solo ai 102 dei tedeschi; nei Consolidator Grant conquistiamo il gradino più alto con 47 progetti; sugli Advanced Grant  gli italiani sono quinti, con 14 progetti vincitori. Ma le statistiche sui Paesi che ospiteranno i progetti finanziati rivelano una verità sconfortante: in Italia si svolgeranno appena 20 dei 53 studi finanziati dagli Starting (facendoci precipitare al decimo posto della graduatoria), 17 dei 47 finanziati  dai  Consolidator  (nono  posto), 11 dei 14 Advanced (settimo posto). In sintesi: anche grazie ai ricercatori italiani – che formiamo evidentemente molto bene nelle nostre università – la ricerca degli altri Paesi procede a gonfie vele.

Dalla lettura dei numeri, mi pare emerga che se il nostro “potenziale umano” fosse messo in grado di lavorare con fondi e strutture adeguati, l’Italia potrebbe avere un ruolo maggiore nello sviluppo scientifico mondiale. I ritardi e le debolezze sopra accennate riguardano, evidentemente, il rapporto tra la scienza e quello che potremmo, per comodità, definire il binomio politica-istituzioni. Per analizzarlo nel suo insieme manca però un tassello molto importante: i cittadini. Anche in questo caso il quadro è fatto di luci e ombre.

Dallo scorso anno, inevitabilmente, la scienza è “esplosa” nell’immaginario collettivo e mediatico. Ma c’è il forte rischio che questo “innamoramento collettivo” si riveli un fuoco effimero, destinato a spegnersi quando passerà la paura del contagio. Mentre da più parti piovevano richieste di certezze e soluzioni per l’attuale emergenza, la scienza ha dovuto spiegare come di fronte a un problema nuovo, che nessuno al mondo ha mai affrontato prima, siano necessari tempo e pazienza per studiare, approfondire e verificare ogni aspetto prima di condividerlo con la comunità. Di fronte alla pretesa di “semplificazione” da parte di un’opinione pubblica abituata a un dibattito polarizzato, appiattito su posizioni binarie, la scienza ha risposto con la “complessità” del proprio metodo e – spesso – anche con le sue contraddizioni interne. Elementi entrambi necessari a indagare la realtà fino a ottenere dati e prove verificate e affidabili. Di fronte alla richiesta di soluzioni “a rischio zero” (si pensi ad esempio al dibattito su alcuni vaccini anti-Covid degli ultimi mesi) la scienza ha spiegato come nella nostra vita il “rischio zero” non possa esistere. Queste incomprensioni hanno trasformato in molti casi quell’amore iniziale in rigetto e in critica, anche aggressiva, nei confronti degli esperti.

Far sì che in cittadini e istituzioni si confermi la percezione dell’importanza della scienza anche oltre l’emergenza è la sfida cui siamo chiamati oggi. Per aspirare a un cambio di prospettiva è fondamentale capire quali sono gli elementi e le cause che hanno impedito alla conoscenza, ai fatti, alle evidenze di affermarsi presso l’opinione pubblica e di diventare la base di politiche per la collettività.

Scienza e antiintellettualismo

Da un punto di vista storico, l’antiintellettualismo non ha padri nobili e, a noi italiani, per avere un esempio eclatante di questo atteggiamento, basta analizzare il Ventennio fascista. In quel periodo le parole d’ordine erano impulsività, fedeltà al partito, giovanilismo, azione. Parole che volevano segnare un insanabile contrasto con il pensiero critico, la pacata riflessione delle diverse istanze democratiche, delle scelte condivise e anche un rifiuto dell’ironia e autoironia che il lavoro intellettuale inevitabilmente produce, conscio tanto delle proprie alte priorità e responsabilità sociali quanto, soprattutto, dei propri limiti. Nello stesso periodo, anche in Germania si scatenò un sentimento simile contro gli intellettuali, specie se ebrei, ben riassunto dal terrificante motto del capo della gioventù hitleriana, Baldur von Schirach: «quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola».

Nel Novecento l’antiintellettualismo si è dunque inesorabilmente accompagnato al totalitarismo. Dal punto di vista delle dittature (o di gruppi che amano il potere per il potere), questi timori verso gli intellettuali o comunque la parte colta e istruita della popolazione sono comprensibili. Una cittadinanza partecipativa, una classe dirigente, politica e amministrativa ben preparata e un solido corpo accademico rappresentano da sempre un potente argine alle ingerenze di qualsivoglia spinta autoritaria. Ecco perché, ieri come oggi, ogni folata di «antiintellettualismo», ogni sberleffo al sapere accademico, è un brutto segno, un indicatore di una crisi culturale e civile del sistema liberaldemocratico. Al fine di capire il substrato psicologico ed evolutivo che sta dietro i molti atteggiamenti antiscientisti – e, più in generale, antintellettuali – psicologi e filosofi cognitivi hanno ritenuto utile analizzare anche alcuni processi mentali, ovvero quelli che oggi la scienza chiama i processi della “razionalità   limitata”   e   “bias   cognitivi”.   Questi,   legati   all’interpretazione   delle informazioni basate su pregiudizi e credenze, portano a errori di valutazione o mancanza di oggettività quando si esprime un giudizio. Su queste basi, è probabile che la diffidenza mostrata, in alcune situazioni particolari, da parte della popola- zione nei confronti della scienza, oltre ad avere ragioni storiche recenti (quelle appena accennate), abbia anche una spiegazione evolutiva.

Negli ultimi decenni diversi studiosi, tra cui il Premio Nobel Daniel Kahneman, hanno dimostrato che alcuni processi decisionali dell’agire umano, e in modo esemplare quelli economici, non sono affatto logici e razionali. Il nostro cervello può elaborare informazioni limitate, in un tempo limitato. Scelte, modi di ragionare, deduzioni e aspettative appartengono, ricordiamocelo, a un cervello che si è adattato per sopravvivere nel Pleistocene, dove le scelte decisionali erano tutt’altre. I nostri antenati vivevano nella savana in un contesto di risorse scarse, dove era assai più adattativo avere un atteggiamento conservativo e limitato al «qui e ora» che non di investimento sul medio e lungo termine. Queste distorsioni nella capacità di giudizio, questi vincoli cognitivi alla razionalità, si chiamano, appunto, bias cognitivi. Un bias molto comune, detto “bias di conferma”, consiste per esempio nel selezionare le informazioni possedute in modo da dare maggiore credibilità a quelle che confermano le proprie convinzioni e, viceversa, ignorare o sminuire quelle che le contraddicono. Un altro esempio è il cosiddetto bias del “ritorno di fiamma” (backfire), che spiega perché coloro che hanno idee profondamente radicate su un determinato tema (come per esempio l’erronea convinzione che i vaccini pro- vochino l’autismo), anche di fronte a una serie di dati incontrovertibili che dimostrano l’inesistenza di quella relazione, non solo non cambiano idea ma addirittura, come nei ritorni di fiamma, la loro convinzione subisce una nuova vampata di adesione e rinforzo.

I concetti e il metodo della scienza, insomma, risultano quasi innaturali per il nostro cervello: per questo parte della popolazione – ivi compresi alcuni colleghi parlamentari – finisce per rifiutarli, ritenendoli inutili o addirittura dannosi.

Sapere che questi processi mentali, frutto appunto di lontani retaggi evolutivi, esistono, e conoscerne i meccanismi, è utile non solo per chi si accinge a fare una buona divulgazione scientifica ma anche per chiunque si trovi a dover mediare tra il mondo della scienza e quello della società, della politica e delle istituzioni. Possono essere tra gli elementi di conoscenza e consapevolezza adatti per capire perché ci sia questa resistenza a inserire nel contesto legislativo le competenze tecnico-scientifiche, ma anche per comprendere come il Parlamento abbia potuto considerare attendibile, e materia su cui legiferare, il cosiddetto “metodo Stamina” con un voto quasi unanime in Senato, nell’aprile 2013 (ci furono solo quattro astenuti; il decreto legge fu poi modificato alla Camera), oppure come, nel maggio 2021, lo stesso Senato abbia votato compatto per il disegno di legge denominato “Agricoltura con metodo biologico” (ddl 988) che, fra l’altro, prevede l’equiparazione dell’agricoltura “biodinamica” a quella biologica, di fatto acconsentendo al- l’introduzione del pensiero magico nelle leggi dello Stato. Infatti, l’agricoltura “biodinamica”, ideata dal filosofo esoterista Rudolf Steiner a inizio ‘900, segue dei disciplinari (certificati da una multinazionale privata) che prevedono l’uso di preparati a base di letame infilato nel cavo di un corno di una vacca primipara, in grado di intercettare i “raggi cosmici”, vesciche di cervo riempite di fiori di achillea e pelli di topi scuoiati ecc.

Mentre scrivo, il ddl attende il voto in terza lettura della Camera dei deputati, dove, confido, potrà esserci – come vi fu per il decreto-legge su Stamina – una correzione nel senso di eliminare l’equiparazione esplicita della biodinamica al biologico, ben potendo questa forma di agricoltura, se lo desidera, certificarsi come biologica, senza ulteriore specificazione.

Ovviamente, anche gli scienziati sono vittime di questi limiti cognitivi, ma il metodo proprio della loro professione li porta a esserne più consapevoli, al punto da avere escogitato degli strumenti e delle metodologie per ridurre al minimo gli effetti di distorsione nella valutazione della realtà oggettiva – ad esempio, negli studi sull’efficacia dei farmaci, l’introduzione del placebo, ovvero di un finto trattamento farmacologico (una pastiglia di zucchero) indistinguibile da un trattamento farmacologico vero. Come è noto, il placebo si usa per eliminare gli effetti dovuti ai condizionamenti tanto dei pazienti – che desiderano guarire e accentuano i sintomi positivi sminuendo quelli negativi – quanto dei ricercatori, i quali tendono a isolare i dati che confermano le loro ipotesi ed eliminare quelli in contrasto.

Ecco perché sono convinta che utilizzare parte della metodologia della scienza nelle decisioni politiche – ciò che oggi nei paesi anglosassoni viene chiamata “politica basata sulle prove d’efficacia” (evidence-based policy making) – possa essere di aiuto alla società. Il metodo scientifico è un forte argine contro decisioni irrazionali e dannose, e anche verso scelte frutto del pregiudizio ideologico; è una procedura che ci permette di avvicinarci a quello che non capiamo, distinguendo gli errori di ragionamento, evitando o correggendo le contraddizioni e le fallacie. Ma bisogna imparare a praticarlo con consapevolezza.

Le responsabilità della comunità scientifica

Quando ho cominciato a osservare dal Senato il mio ambito professionale (che amo così tanto), quello della comunità scientifica italiana, non è stato difficile rilevarne le fragilità. Credevo rappresentasse un fronte saldo e unanime nella essenziale rivendicazione del metodo scientifico come strumento di crescita sociale e di rispetto verso il cittadino-contribuente, e invece ho cominciato a vederne tutte le debolezze. Molti colleghi, in questi anni, hanno preferito chiudersi nei propri laboratori, restare silenti nelle retrovie, rinunciare al proprio ruolo pubblico, in quello che potrei definire un “eccesso di prudenza”.

Troppe volte gli studiosi italiani hanno sbagliato le modalità con cui accreditarsi presso i diversi riferimenti istituzionali e la società. Forse anche perché maltrattata per anni, buona parte della comunità scientifica si è proposta alla società quasi chiedendo un religioso ascolto di ogni sua parola e istanza, rivendicando una autorevolezza che in realtà è da riconquistare ogni giorno. A volte qualcuno si è mosso solo in vista dei privilegi personali che poteva ricavare. Raramente si è portato avanti il vero obiettivo che con la politica troverebbe, forse, ampia condivisione, cioè la tensione verso l’interesse pubblico.

Troppo spesso le società scientifiche e le accademie hanno rinunciato a svolgere il loro prezioso ruolo di controllore della fondatezza scientifica delle diverse posizioni, tacendo, o intervenendo troppo tardi, quando un’idiozia veniva portata all’attenzione pubblica, in particolare se a sostenere quell’idiozia era il ministro di turno, magari per guadagnarsi effimere premialità. Troppe volte la comunità scientifica ha rinunciato a intervenire quando si dovevano contrastare i “cattivi scienziati”, quelli che è meglio chiamare “non-scienziati”, che manipolano coscientemente significato e valori della scienza, responsabili di un danno sociale enorme.

Troppo poche volte ho visto colleghi studiosi andare in piazza a presidiare gli spazi di libertà conoscitiva di tutti o contrastare i flussi di cattive informazioni. Ammettiamolo, che colpe si possono addossare alla politica, quando gli scienziati agiscono in modo condizionato da giochi e veti invece che essere una libera risorsa per i cittadini e le istituzioni? Eppure, su tante partite, si discute della credibilità degli scienziati, della loro moralità. Si discute cioè se le scelte dei cittadini debbano essere guidate dai numeri, dai fatti, dalle prove, dalla ricerca della verità, dal dubbio, oppure dall’istinto e dalle emozioni.

Tutto questo ha comportato e comporta gravi costi sociali, tra cui lasciare carta bianca a insensatezze che inquinano ogni possibile dibattito serio, oltre a impedire alla scienza di affermarsi e di partecipare, come dovrebbe sempre, alla costruzione delle decisioni politiche e, infine, determinando involuzioni continue.

Jacques Monod era un biologo francese, premio Nobel per la medicina nel 1965. Nel libro Per un’etica della conoscenza – Ediz. Bollati Boringhieri – che già nel titolo annuncia un monito e una raccomandazione, Monod ricordava che, «quando nei nostri laboratori facciamo ricerca e scopriamo le cose che nessuno conosce, lo facciamo sulla base di un impegno tacito, ma non negoziabile, a essere sinceri, a dire come stanno le cose, a riportare i fatti, a mettere in atto ogni comportamento affinché si aprano spazi di libertà che permettano a ogni idea razionale di essere messa a confronto con le altre e valutata. Solo così avremo la certezza che ogni risorsa sarà spesa nell’interesse dei cittadini. Queste parole riguardano ogni scienziato e ogni persona che, a vario titolo, ha a che fare con la scienza (istituzioni comprese) e spiegano, in maniera inequivocabile, che il suo metodo non deve es- sere condizionato da interferenze o interessi di alcun genere. Altrimenti non è di scienza o di scienziati che stiamo parlando».

Un nuovo ruolo per la scienza nella società a partire dal metodo

L’inedita situazione di una vita condizionata dalla convivenza con una pandemia ci ha fatto sperimentare un senso di vulnerabilità al contagio e alla malattia di cui da decenni, come singoli e come comunità, avevamo perso memoria. Di fronte alla riscoperta di quella sensazione di impotenza, i cittadini hanno reagito cercando nella scienza e nei tanti esperti interpellati quotidianamente in tv e sui giornali tutte le risposte alle incertezze di un futuro improvvisamente cupo. Come già accennato, proprio questa paura ha comportato un generale trasporto verso la scienza, è importante cogliere l’occasione per comprendere innanzitutto cosa la scienza non è, per meglio capire cosa effettivamente sia. Per capire, cioè, che la scienza non è fatta per dare certezze a comando, previsioni da oracolo, prescrizioni infallibili, che non è una sfera di cristallo da interrogare al bisogno per ottenere la soluzione immediata a un problema. La scienza è un metodo che ipotizza, indaga, prova, verifica, smentisce, riprova, conferma, spingendo sempre più avanti verso la conquista di nuovi pezzi di conoscenza su quello che ci circonda. La scienza è da 400 anni il più grande alleato dell’umanità, contribuendo in modo sostanziale al suo benessere, almeno nella nostra fortunata parte del mondo.

La sfida comunicativa del post-Covid sarà quella di continuare a raccontare  la scienza e a condividere gli strumenti che permettono ogni giorno ai laboratori di tutto il mondo di compiere quel passo in più che potrebbe rivelarsi determinante per la prossima grande conquista conoscitiva; solo alimentando quella prima attrazione di “pancia” verso la scienza che hanno provato molti cittadini, potremo con- solidare la fiducia e la familiarità con il metodo scientifico, trasformando una “passione” momentanea in una “relazione” solida e duratura.

Se, quindi, rispettare il metodo scientifico – tanto al bancone del laboratorio quanto nel dibattito pubblico – è la regola imprescindibile per ogni scienziato che voglia avere un ruolo nella società e contribuire alla sua crescita, avvicinare ogni cittadino ai suoi principi è essenziale per vivere la scienza non come reazione alla paura ma come “abito” mentale per capire le piccole e grandi scoperte di cui beneficiamo ogni giorno. Il metodo è quindi lo strumento che, consegnato a cittadini e istituzioni, permetterà di affrontare il futuro e gli eventi avversi con capacità, realismo e fiducia. E da cui partire per ritrovare l’orgoglio e l’interesse per la scienza di ieri, di oggi e di domani.

Elena Cattaneo – Professoressa, Senatrice a vita.

(*) Il presente scritto riprende, rielabora e integra riflessioni già formulate dalla Senatrice Cattaneo su organi di stampa, discorsi pronunciati nell’ambito del dibattito parlamentare e in occasione di eventi pubblici. Tra le fonti principali, il libro “Ogni Giorno tra scienza e politica” pubblicato dalla Prof.ssa per i tipi di Monda- dori in collaborazione con José De Falco e Andrea Grignolio. Alcune delle considerazioni presenti nello scritto sono approfondite nel volume che la Senatrice Cattaneo ha pubblicato nel maggio del 2021 (“Armati di  Scienza”,  Cortina  editore)  in  cui  tratteggia  i  contenuti  essenziali  della  dimensione  etica  della  scienza, del coltivarne il metodo, del rapporto tra scienza e politica e tra scienza e informazione.

1 https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1105338.pdf?_1591284462151

2 https://op.europa.eu/webpub/eac/education-and-training-monitor-2020/countries/italy_it.html

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aidlr