Tra i compiti dei mezzi di comunicazione, dovremmo sempre attribuire la massima importanza alla promozione del dialogo tra le persone, i gruppi sociali e quindi anche le diverse comunità religiose. Dopo decenni di dominio dei broadcast media, in cui il messaggio pioveva dall’alto e i fruitori avevano un ruolo esclusivamente passivo, con il sorgere di internet, una piattaforma di comunicazione globale a due vie, molte speranze furono riposte proprio nell’opportunità di condividere e contaminare culture diverse, (1) con l’obiettivo di abbattere muri e favorire una maggiore fratellanza tra le comunità.

Quello che invece abbiamo potuto riscontrare negli ultimi anni, purtroppo, è stato quanto fossero ingenuamente ottimistiche queste previsioni. Ma nel compiere questa constatazione non dobbiamo commettere un errore fatale. Quando parliamo del dilagare dell’odio nel dibattito pubblico – e accade sempre più spesso in convegni, incontri, seminari, libri, articoli, ecc. – diamo spesso per scontate alcune premesse, che invece dovrebbero essere oggetto stesso della discussione. Una delle più consolidate, per esempio, è quella secondo cui l’odio di cui dovremmo preoccuparci è quello veicolato dalle piattaforme online. Secondo questa visione, è la Rete a diffondere i contenuti ostili, che solo dopo inquinano la società, la politica, il linguaggio sempre più sguaiato dei media tradizionali.

Questa tendenza nel vedere la transizione tecnologica come causa del degrado del discorso pubblico è non solo fuorviante, ma persino autoassolutoria: perché proviene proprio da quel mondo dei media precedenti (giornali, radio, tv) che intenderebbe così da un lato descrivere il problema come “neonato”, dall’altro chiamarsi fuori da qualsiasi responsabilità nell’aver avviato il processo da molti decenni. Senza scomodare le opere di Popper, Chomsky e McLuhan, il momento in cui i media hanno smesso di fornire alle persone degli strumenti interpretativi della realtà, ha coinciso con il frangente in cui hanno rinunciato a svolgere una funzione pubblica, e sono diventati a tutti gli effetti un’industria. Ma attenzione: non è il fatto in sé ad avere determinato l’inizio del degrado. Semmai tale degrado è stato avviato dallo scivolamento da un modello economico fondato sulla qualità del contenuto a un nuovo modello basato sull’infotainment, sulle leve identitarie e sul presidio dell’attenzione.

Non a caso molti identificano il frangente della “perdita dell’innocenza” del sistema mediatico con l’inchiesta del Watergate, considerato l’ultimo reale e disinteressato vagito del giornalismo d’inchiesta classico. Beninteso, il giornalismo d’inchiesta (quello che scopre fatti che servono alle persone per costruirsi una propria opinione informata, orientando con il rigore del racconto il consenso politico) esiste ancora, anche se è in via d’estinzione.

Il problema è che ai tempi del Watergate era ancora determinante la preferenza di un giornale rispetto a un altro, essa stessa era un elemento chiave del modello di business e quindi di sostentamento dell’impresa editoriale. Oggi, al massimo, è una foglia di fico da sbandierare quando è necessario, per esempio quando i decani del nostro giornalismo sfilano sui palchi dei festival per difendere l’etica dell’informazione “vera”, inesorabimente analogica, rispetto a quella online, tutta fondata sulle fake news, sul gossip, sul sensazionalismo. Ma purtroppo non è certo il lavoro dei pochi, veri giornalisti rimasti nelle redazioni dei grandi giornali a salvarli dalla bancarotta: ciò che li tiene in piedi è ancora, soprattutto, la difesa del controllo della catena distributiva da un lato, che va incontro ai lettori più anziani e tradizionalisti, e della raccolta pubblicitaria dall’altro, all’interno di ecosistemi informativi sempre più digitali, ma molto restii a un vero cambiamento. Del resto, parlando di raccolta pubblicitaria, tipicamente oligopolistica, anche il passaggio alla distribuzione online non ha determinato quello stravolgimento del modello di ricavi che qualcuno individua nell’apparizione del famoso “mercato dei dati”. Così come il sensazionalismo (spesso foraggiato proprio dall’odio) spostava l’attenzione delle persone vicino alle inserzioni negli anni ’90, oggi l’infotainment (ancora fondato sulla polarizzazione e quindi sull’odio) serve ad aumentare le interazioni sulle piattaforme digitali e a liberare maggiori quantità di dati nelle discussioni. Ho provato a confrontare vecchi e nuovi modelli in una tabella.

Occorre a questo punto aggiungere che entrambi i modelli (quello del 1990 e quello del 2020) si fondano ancora sulla capacità di chiudere i fruitori in recinti, che se una volta si fondavano sul controllo della distribuzione (“se non vieni sul mio canale distributivo, non avrai il prodotto editoriale”) oggi si fondano sul controllo dell’agenda della discussione (“se ne parla sulla mia piattaforma, perché sono tutti qui”). Da ciò discende la nuova alleanza tra media tradizionali e piattaforme digitali, che sono in guerra sul fronte del copyright, mentre invece su quello del presidio della dieta mediatica del pubblico sanno bene di essere largamente interdipendenti. Non solo infatti sui social si parla quasi solo di ciò che raccontano giornali e TV (si pensi alle interazioni-record generate dal Festival di Sanremo), ma su giornali e TV rimbalzano, come accade puntualmente nei talk show serali, le discussioni più violente scatenate su Facebook e Twitter nelle ultime ore, è il circuito dell’odio che alimentava i media commerciali a partire dagli anni ’80, ed è ancora il circuito della polarizzazione, delle leve identitarie, dello scontro verbale ad animare le piattaforme digitali del terzo millennio.

Come spezzare, allora, questo cortocircuito?

Rispetto al dibattito su questo tema che risale ai primi seminari organizzati da Laura Boldrini (2) quando era Presidente della Camera, circa sette anni fa, sono stati fatti alcuni passi avanti. Da alcuni anni partecipo ai lavori di Parole Ostili, (3) un’iniziativa partita a Trieste nel 2016 e che ha avuto il grande merito di “far scalare” l’importanza del tema dai tavoli degli addetti ai lavori al grande pubblico. Uno dei principi di Parole Ostili è che l’odio sia del tutto trasversale alla tecnologia. Non si tratta solo di chiarire che “dipende da come la usi”, ma anche, come ho accennato nel mio intervento nell’ultima edizione dell’evento triestino, (4) da “come ci fai i soldi”. Per cambiare la natura profonda del modello di business dei media, sia quelli tradizionali, sia quelli nuovi, occorre iniziare a smettere di girare intorno al problema centrale: come sostiene Emily Bell5, direttrice del Tow Center for Digital Journalism, o come sostiene da anni Jeff Jarvis, uno dei giornalisti americani più preparati sul tema, se si fonda sulla raccolta pubblicitaria, non sarà mai vera, libera informazione. Bisogna quindi trovare nuovi modelli, sia di ricavi, sia di riforma della struttura dei costi. Come prevedibile, è nel mondo anglosassone che si trovano le storie di successo più interessanti e innovative in materia.

Se da un lato il paywall del New York Times, un giornale interamente fondato sulla qualità dei contenuti, completamente a pagamento (esaurita la fase di trial gratuita) viene considerato il modello di riferimento, non credo proprio si possa considerare un esempio imitabile. Intanto, perché in quel tipo di proposizione “c’è spazio per uno solo”: una volta che ti abboni a quel giornale, difficilmente ti abboni a un altro per ascoltare l’altra campana. Inoltre, gli investimenti che può permettersi una organizzazione di quella dimensione sono completamente fuori dalla portata della stragrande maggioranza degli editori, e non è mai una buona notizia per la funzione pubblica dell’informazione quando solo gli editori ricchi hanno una chance di raccontarti la loro verità.

Per questo è opportuno che vi sia non solo concorrenza tra giornali di alto livello che adottano il modello di “remunerazione dalle qualità”, ma che vi sia anche concorrenza tra modelli diversi. Per esempio, è molto utile che a far concorrenza al paywall del NYT vi sia un giornale come il Guardian (anch’esso di indubbia qualità editoriale), completamente remunerato non solo dai contributi economici volontari dei lettori, ma anche dalle donazioni trasparenti di veri e propri mecenati. (6)

Così come è un bene che l’informazione “autosaturante”, quella cioè che si fonda su una sorta di patto tra chi scrive e chi legge secondo cui “ciò che troverai da me ti racconterà tutto ciò che è davvero rilevante per la tua informazione” trovi concorrenza nell’offerta di aggregatori (come Google News o Flipboard, per citare i più noti) che fondano la loro proposizione di valore nella capacità di pescare tra varie fonti informative affidabili, secondo gli interessi autentici del lettore. Per chiudere, tutto ciò che è informazione di qualità è il miglior antidoto al di- scorso d’odio, e la premessa più efficace per promuovere il dialogo tra popoli, culture e comunità diverse. Se il dibattito politico, come accaduto in italia di recente, era scaduto a livelli infimi era anche una questione di contesto. è bastato riportare la discussione nelle sedi istituzionali, e al netto dei mille retroscenismi su cui si fondano certe maratone televisive, gli italiani sembrano tornati a vederci più chiaro, e magari – forse – a tornare a guardarsi negli occhi. Restituire dignità, attraverso i giusti contesti, a tutto il dibattito pubblico è la premessa fondamentale per tornare a mettere in comunicazione le diverse visioni del mondo, e anche le diverse fedi religiose, con le diversità dei rispettivi retroterra culturali che possono tornare a costituire un patrimonio di ricchezza e non una minaccia alla fratellanza tra i popoli. Una rete aperta, con nuovi modelli remunerativi, libera dalla schiavitù della contrapposizione e dell’estremizzazione in circuiti chiusi (come di fatto sono oggi le piattaforme di social networking) può tornare a costituire un fattore decisivo per riallacciare il dialogo, permettendoci di tornare a percepire la nostra appartenenza alla comune famiglia umana.

Antonio Pavolini – Business Analyst, Digital Media.

NOTE

1  Free Culture” Lawrence Lessig, 2006

2  https://www.lauraboldrini.it/news/prevenzione-della-violenza-on-line/

3  https://paroleostili.it/

4  https://medium.com/@antoniopavolini/parole-ostili-a-che-punto-siamo-3148792884a4

5  https://www.theguardian.com/media/2019/feb/02/what-2000-job-cuts-tell-us-the-free- market-kills-digital-journalism

6  https://patrons.theguardian.com/

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