L’analisi prevalente circa l’attuale stato d’animo che serpeggia nella società italiana e di molta parte dell’Europa e del mondo – da ultimo abbiamo assistito alle elezioni brasiliane e a quelle di mid-term americane – e che sarebbe all’origine degli esiti allarmanti di numerose tornate elettorali nelle quali vengono premiate forze politiche e manifesti elettorali sempre più aggressivi e radicali, è a mio giudizio sovente un po’ pigra, in taluni casi forse cialtronesca. Su molti Quotidiani, anche di sicura fede borghese, sulle piattaforme di informazione, peculiarmente nei talk show televisivi, imperano dotti esegeti del nostro tempo che squadernano il triste elenco delle cose che non vanno nelle nostre società occidentali, per poi concludere che le élite liberali hanno sbagliato tutto o quasi negli ultimi anni e giustificare per questa via l’avvento inevitabile della nuova era.

Le democrazie liberali sarebbero dunque così imperfette, così ingiuste, da meritare un ricostituente populista che finalmente le purifichi e le riconduca ai sani valori del popolo?

Naturalmente chi scrive non avverte la vocazione ad incarnare la rassicurante veste di mastro Pangloss del Candide di Voltaire: ovvero lo stereotipo del buontempone, inguaribile sostenitore di una banale visione teleologica della storia, pronto a giurare che viviamo nel migliore dei mondi possibili…

Ci viene però il sospetto che, per criticabili e perfettibili che siano, oggi, le democrazie liberali paghino un conto salato anche per aver mantenuto ciò che avevano promesso. Sono cioè in buona parte vittime del loro successo.

In fondo le democrazie nate da questo lato dell’atlantico, nel mezzo delle macerie del secolo scorso avevano promesso, a mezza bocca, si intende, le famose quattro libertà di F. D. Roosevelt, ovvero: libertà di pensiero e di parola, libertà di religione, libertà dalla paura, libertà dal bisogno.

È fuor di dubbio che negli ultimi settant’anni, in Europa, ma anche negli USA, sia stata prodotta una quantità di benessere, di libertà e di pace durevole che non ha eguali nella storia.

Solo questa evidenza spiega la corsa negli anni ’90 del secolo scorso, delle ex nazioni satellite dell’URSS ad entrare in Europa, come spiega bene, ad esempio, l’articolo di Micol Flammini con riferimento alla Polonia

Ma andando oltre il progetto europeo, la globalizzazione, da molti deprecata, frutto delle politiche di apertura economica nate con il WTO alla metà degli anni ‘90 ha reso possibile il superamento delle dogane e delle frontiere commerciali, consentendo una maggiore integrazione economica tra gli stati e un  ingresso nella storia economica di nuovi ceti produttivi che un tempo erano alieni da ogni possibile aspirazione al benessere. Cionondimeno non ignoriamo le tante distorsioni che il sistema del commercio internazionale ha avuto in ragione della scarsa capacità di governo politico della finanza. Non ignoriamo che una massiccia delocalizzazione delle produzioni, ad esempio, ha prodotto uno spostamento di benessere dai Paesi occidentali a quelli asiatici, come la Cina. Ciò ha prodotto la crisi di interi comparti produttivi in molto Paesi del cosiddetto primo mondo e, per contro, i vantaggi della competizione globale sembrano essersi concentrati soprattutto sul versante del capitale.

Ogni cosa va sempre ripensata e corretta e, soprattutto in un’ottica intergovernativa, nuove regole vanno introdotte per arginare il potere che la finanza internazionale ha sull’economia e sulla politica.

Ma nessuno dovrebbe immaginare un frettoloso ripiego al tempo dei confini nazionali, del primato degli interessi nazionali su ogni visione cooperativa e multi- laterale; nessuno dovrebbe auspicare un ritorno alle società chiuse, omogenee, senza mettere onestamente in conto nuove guerre, nuove brutali discriminazioni umane, come il secolo scorso si è incaricato, suo malgrado, di dimostrare abbondantemente e definitivamente…

Davide Romano – Direttore di Coscienza e Libertà

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