Introduzione

«Attraverso la storia possono cambiare le lingue, i volti, i nomi ma non gli eterni antagonisti» (1). I due antagonisti di cui parliamo sono Platone e Aristotele. Per il primo la politica è l’argomento centrale di tutta la speculazione filosofica; l’obiettivo di Platone, infatti, è quello di fondare una società di uomini giusti che possano vivere felici all’interno di quest’ultima. Proprio per queste ragioni l’anelito, la via di fuga del platonismo è sicuramente la politica.

Per il secondo invece, la politica risulta essere un argomento centrale perché connessa con il governo della πόλις (polis) (2) e con la possibilità di essere felici, in quanto solo dove vi è giustizia, vi è possibilità di realizzare la felicità.

Il perno della politica aristotelica è proprio la socievolezza dell’uomo, la sua felicità; secondo Aristotele l’uomo è un animale politico, un animale sociale; l’uomo per natura tende a unirsi con altri uomini. Proprio per natura, l’uomo produce comunità politica ed è quindi distante da quel futuro paradigma hobbesiano dell’uomo lupo (3), dell’uomo solitario che solo se costretto si unisce ad altri uomini. Se Platone ci rimanda ai principi metafisici, assunti poi anche dal cristianesimo, sia in politica sia per quanto concerne la morale, Aristotele, la cui politica è rivolta principalmente alla realizzazione di una vita piena, felice, completa, ci indica che occorre farsi carico del proprio spazio vitale, iniziando dai bisogni fisici realizzati nella casa, passando poi a quelli sociali, espressi nei villaggi ed infine giungendo alla realizzazione della felicità dell’esistenza umana nella πόλις.

Aristotele è un’anti-utopista e in questa scelta vi è una netta divaricazione con le idee di Platone, il quale teorizza il luogo migliore, il luogo della  giustizia, del governo dei sapienti, dei cittadini e dei guerrieri che uniti armoniosamente stanno insieme. Lo Stato utopico di Platone invece viene destrutturato da Aristotele, perché egli pensa che la politica non deve occuparsi del migliore Stato possibile, della società perfetta o della società migliore ma di quella «realizzabile».

La società giusta per Aristotele – il quale può agevolmente darci delle lezioni ancora oggi – sottolinea che non è il numero dei governanti (uno, pochi, i migliori) (4)   a determinare il fondamento di uno Stato, ma lo è un principio, che potremmo definire come «il buon governo».

É lo scopo delle azioni del governo quello che va analizzato e, se esso si riduce a un proprio tornaconto, si avranno dei tiranni, oppure degli oligarchi (che oggi potremmo definire come il dominio di classe) o infine dei democratici, come li definiva, intendendo però ciò che oggi tradurremmo con produttori di demagogia.  La lezione aristotelica, che oggi nessuno dei nostri governanti e parlamentari vuol accettare, invita a una rotazione e a un’alternanza dell’incarico politico.

Se è aristotelica l’ammissione che tutti possono ricoprire cariche politiche, è altrettanto sua la proposta di far rientrare nei ranghi lavorativi i singoli politici dopo una tornata governativa (che egli pensava di un anno).

Oggi purtroppo si è più vicini al mondo sofistico che a quello aristotelico, per cui i governanti, o coloro che vorrebbero esserlo, siedono su dei troni non solo per una tornata, ma a volte per tutta la «vita».

Il presente lavoro si propone di analizzare l’unica forma di governo direttoriale esistente al mondo, e cioè in Svizzera, nonché ricercare le varie similitudini con il pensiero aristotelico.

La genesi del sistema direttoriale

Il sistema direttoriale è attualmente presente solo in Svizzera e risulta avere radici molto profonde.

Il primo tentativo di governo direttoriale fu quello dell’Inghilterra durante il XVII secolo. Nel periodo illuminista di fine Settecento, come descritto da Babeuf nel Manifesto degli Eguali del 1795, Robespierre esce di scena ed evapora con lui anche il«Terrore».

Lo stesso terrore inaccettabile nelle lezioni dell’opera Politica di Aristotele, in quanto la monarchia come forma di governo non dovrebbe mai – secondo il filosofo – degenerare nella tirannide. Quest’ultima, ben diversa dalla dittatura di esperienza romanistica (5), nasce dal monarca tiranno il quale viene descritto dall’ateniese come «il monarca mediocre colui che non governa in maniera giusta e che non governa in base alle leggi universali uguali per tutti, ma governa attraverso il privilegio e i vantaggi» (6).

Furono, infatti, gli orientamenti moderati della Francia di fine Settecento a dare vita a una nuova Costituzione.

Questa fu una Costituzione consapevolmente attenta a evitare i rischi di una dittatura che purtroppo venne «stracciata» con l’insorgere della dittatura napoleonica. La Costituzione del 1795 va comunque storicamente ricordata come il tentativo fallito di individuare delle soluzioni che conciliassero la pretesa delle assemblee di essere l’organo titolare della sovranità nazionale con l’esigenza di una qualche stabilità di governo (7).

Occorre, inoltre, ricordare che l’esperienza direttoriale francese prese le mosse  dalla volontà di espungere ogni possibile riproposizione delle esperienze di concentrazione del potere come avvenuto nel caso di Robespierre (8).

Sulla scia delle due precedenti esperienze di governo direttoriale, nasce la più salda: quella Svizzera.

Dal 1848, difatti, la piccola «Heimat» (9) adotta il sistema di governo direttoriale  che, come fra breve vedremo, la porta ad essere il miglior Paese al mondo.

La Svizzera, una rarità nel panorama mondiale

La Svizzera appare descritta, secondo alcune ricerche (10), come il Paese più felice  del mondo e, per l’effetto, un Paese sempre alla moda e sulla cresta dell’onda. Un «piccolo mondo antico» a un passo da tutti, a un passo da quella che Aristotele chiama la εὐδαιμονία (eudaimonia) (11) che sembra provenire proprio dalla democrazia diretta che in Svizzera funziona benissimo (12).

Un altro grande tema svizzero è quello della libertà, un tema che, nonostante le guerre mondiali novecentesche, è riuscito ad affermarsi. Un tema che, dunque, non ha come sole radici i diritti individuali del singolo ma, nel contempo, è riuscito a diventare una sorta di simbolo totemaico che evidenzia, chiaramente, che la Svizzera è un Paese unico e, sotto certi aspetti, sui generis.

Il grande appassionato dell’ethica aristotelica, Canetti – Nobel per la letteratura nel 1981 – descrive perfettamente le terre elvetiche nel suo libro autobiografico La lingua salvata.

Ci racconta il suo arrivare da profugo nel 1916 a Zurigo durante il primo conflitto mondiale e ci regala, nelle pagine del suo libro, la stima per la terra svizzera, sostenendo che: «La libertà degli svizzeri si mescolò nella mia mente con quella dei greci […]. La libertà degli svizzeri la vivevo nella realtà e la sperimentavo io stesso: per essersi mantenuti padroni del proprio destino, per non aver accettato alcuna autorità imperiale, gli svizzeri erano riusciti a non farsi coinvolgere nella guerra mondiale».

Per comprendere ancora meglio quanto la Svizzera fosse ed è una perla in mezzo al panorama europeo, Canetti, nel libro La lingua salvata, scrive anche: «Libertà era diventata a quel tempo una parola importante. In questo un ruolo importante spettava alle montagne. Non pensavo mai ai greci senza vedermi davanti le montagne, e queste erano – ecco la stranezza – le stesse montagne che avevo quotidianamente sotto gli occhi. Gran parte della vita si svolgeva vicino ai laghi,  proprio lì erano successe le cose più esaltanti; questi laghi io li sognavo e li desideravo come il mare greco, e quando cominciai ad abitare sulle sponde del lago di Zurigo essi si fusero per me in un unico lago. Nel sogno tutto era sempre e soltanto “il lago”, ciò che era accaduto in riva a un lago era accaduto anche in riva agli altri. La Confederazione nella quale si erano uniti gli svizzeri con sacro
giuramento era per me un vincolo tra laghi. Questa dunque era per me la storia:  la federazione dei laghi, prima della quale non si dava storia».

Uno scenario idilliaco viene descritto da un giovane Canetti, giovane sì ma non troppo, per aver saputo rendere giustizia a quelle atmosfere paradisiache elvetiche che ritroviamo solo nelle cartoline.

Panorami che ci fanno sospirare, in un connubio con la sacra e intoccabile democrazia diretta che rendono la Svizzera un Paese fiabesco, un castello inespugnabile. Dopo un elogio alla Montagna Incantata come descritta nel libro di Mann, vi è la necessità di delineare il sistema politico elvetico e le sue caratteristiche.

Prima di tutto, occorre partire da codesti spunti per ricordare che, proprio la struttura morfologica e le limitazioni generate dalla presenza di valli intervallate da ampie zone montuose, ha per lungo tempo prodotto una forte difficoltà nelle comunicazioni fra le varie comunità svizzere.

Ragion per cui è venuto a generarsi un fenomeno alquanto pittoresco: la nascita delle comunità di vallata, nel cui alveo si è potuto, così, sviluppare un insolito spirito civico e comunitario che, successivamente, ha contagiato positivamente tutta l’esperienza politica della nazione.

L’altro importante fattore di amalgamazione sociale, benché come è chiaro la Svizzera sia composta da una società multilingua, multireligiosa e multiculturale, è stata la capacità di conservare uno spirito libertario e societario. Elemento che  si è messo in luce soprattutto nel periodo feudale quando le tre prime comunità svizzere strinsero un patto di mutuo soccorso militare per garantirsi l’indipendenza dall’Impero.

Il sistema politico della Svizzera

Prima del 1848, la Svizzera non era uno Stato vero e proprio ma una Confederazione di Stati; è a partire dalla Costituzione del 1848 che la Confoederatio Helvetica si configura come una Repubblica federale dotata di una particolarissima forma di governo, definita direttoriale, adottata sia per lo Stato federale, che per i vari Stati-membri detti Cantoni.

Tutti e 26 i Cantoni (di cui sei semi Cantoni o mezzi Cantoni) godono di eguali diritti, avendo ognuno una sua Costituzione, un proprio tribunale e una loro carta costituzionale.

Con la nuova Carta fondamentale, la Confederazione si vide attribuire nuovi compiti che fino ad allora erano di responsabilità cantonale.

Nei decenni successivi, la Svizzera fu caratterizzata da un governo composto di esponenti di un unico partito, il Partito liberale radicale (Plr).

L’impianto federale della nuova Confederazione si manifestò nella regola secondo la quale almeno due membri del Consiglio dovevano essere di fede cattolica e altrettanti non dovevano essere di lingua madre tedesca (13).

Soltanto nel 1891 i liberali-radicali cedettero un seggio a favore del partito cattolico-conservatore e, in seguito, un secondo mandato fu attribuito ai predecessori del Partito popolare democratico (Ppd) per il loro atteggiamento patriottico durante la Prima guerra mondiale.

Anche il partito dei contadini, degli artigiani e dei borghesi, precursore dell’attuale Unione democratica di centro (Udc), ebbe il suo primo ministero nel 1929. Con l’accesso al governo del secondo rappresentante socialista (il primo vi entrò nel 1943), nel 1959 nasceva una composizione politica  del  Consiglio  federale che rimase invariata per più di quarant’anni: due esponenti a testa per Plr, Ppd e socialisti, uno per l’Udc. Per molti anni questa struttura, comunemente denominata «formula magica» (Zauberformel/Formule magique) del 1959, rispecchiò più o meno fedelmente il peso politico dei diversi partiti. Questa regola assicurò per circa cinquant’anni un governo trasversale, a cui partecipavano tutti i maggiori partiti, rispecchiando al contempo la forza numerica delle singole formazioni politiche (14). Solo a fine 2003, con un mutato quadro degli equilibri, il Parlamento decise di eleggere un secondo rappresentante Udc nel governo a spese di uno dei seggi del Ppd, creando così la cosiddetta nuova formula magica.

I tre organi che costituiscono il sistema direttoriale sono: l’Assemblea federale, il Consiglio federale e il Corpo elettorale. Ma vediamo nel dettaglio.

Il Direttorio svizzero ha da sempre costituito una sorta di rebus dal punto di vista comparativo, proprio per aspetti altamente peculiari e intimamente connessi alla sua unicità. La principale proprietà di questa forma di governo, infatti, risiede nella separazione inequivocabile dei tre ruoli d’autorità che la costituiscono. Il Parlamento è articolato in due Camere,  il  Consiglio nazionale (200 seggi),  che rappresenta la popolazione, e il Consiglio degli Stati (46 seggi), che rappresenta i Cantoni. L’esecutivo, denominato Consiglio federale, è costituito da sette membri, che non sono disposti secondo alcun ordine gerarchico. Infine, i due rami del Parlamento eleggono un Presidente, che guida il Consiglio federale per un anno, senza peraltro occupare al suo interno una posizione di preminenza. L’ufficio del Presidente svolge la funzione di segretariato del Consiglio federale e il Presidente, che come detto non ha poteri sul Consiglio, svolge funzioni rappresentative e cerimoniali.

Il Consiglio federale è anch’esso eletto in seduta comune dalle Camere del Parlamento svizzero, dopo nuove elezioni, e i sette consiglieri al suo interno restano in carica per quattro anni. Tuttavia, è diventata consuetudine rinnovare le cariche anche per ripetute volte consecutivamente, cosicché il Consiglio federale si può ritenere un organo sostanzialmente stabile, nonostante duri in carica formalmente un solo anno, se si considera il rinnovo della carica presidenziale come il criterio  di identificazione degli esecutivi. Data la sostanziale irrilevanza politica del Presidente del Consiglio federale e la relativa stabilità della sua composizione, il Consiglio tende ad agire collettivamente su molte questioni generali. Nei suoi quattro anni di vita costituzionalmente previsti, il Consiglio federale non deve ottenere alcun voto di fiducia da parte del Parlamento e il suo Presidente resta in carica per tutta la durata annuale del mandato, anche in caso di sconfitta in Parlamento su questioni politiche importanti.

Parlamento, governo e presidenza sono quindi nettamente separati, giacché la sopravvivenza di ciascuno di questi organi è indipendente (15). Il governo svizzero è, pertanto, concepito formalmente come un vero e proprio «esecutore amministrativo delle decisioni dell’assemblea rappresentativa», ma «la continua espansione delle funzioni federali e dell’autorità amministrativa federale ha dato ai membri del Consiglio Federale una posizione talmente sicura che il Consiglio è diventato sempre più indipendente dall’assemblea e ha esteso la sua influenza su di essa» (16). Non essendo vincolato al sostegno del Parlamento, l’unica azione di controllo che questi esercita sul Consiglio federale è limitata alla discussione che segue la presentazione delle relazioni periodiche sulle attività esecutive del Consiglio stesso. Queste relazioni suscitano un dibattito parlamentare molto acceso, a seguito delle quali il Parlamento può rivolgere specifiche richieste ai consiglieri federali. Qualora queste richieste siano sostenute da una risoluzione del Parlamento, esse diventano vincolanti per il Consiglio federale.

Possiamo quindi sostenere che la forma di governo direttoriale, tuttavia, è senza dubbio la forma più democratica che si possa immaginare.

In particolare, si segnala che una caratteristica particolare dell’ordinamento svizzero è connessa a un forte collegamento alla sovranità popolare, intesa quale vettore imprescindibile dell’integrità nazionale. Sicché si riscontra una notevole  estensione e importanza degli istituti di democrazia diretta. In primo luogo, si deve rammentare il «Landesgemeinden» ovvero l’assemblea tradizionale formata da tutti i cittadini afferenti a un dato cantone.

Codeste assemblee vengono tenute annualmente e vertono sulla decisione delle questioni più rilevanti per la vita della comunità. Essendo, tali assemblee, rappresentative dell’organo supremo dello stato-membro della Confederazione, riescono a rappresentare la forma più perfetta di democrazia che si possa immaginare.

Questo sistema, tuttavia, sembra ormai limitato alle strutture sociali più minute e trova attuazione nei due cantoni più piccoli, quali Appenzello Interno (che in realtà è un semicantone) e Glarona.

Trattiamo ora il corpo elettorale che garantisce al sistema direttoriale un intervento diretto del popolo – nell’attività legislativa – dove i cittadini partecipano alle elezioni federali e hanno il diritto di promuovere referendum e iniziative popolari. Il referendum popolare moderno appartiene ai diritti politici e ai diritti popolari che costituiscono il fulcro della democrazia diretta. Con questa procedura, sul piano federale e cantonale, il corpo elettorale può opporsi esclusivamente a decisioni parlamentari (il Cantone di Vaud e il Semicantone di Nidvaldo costituiscono un’eccezione al riguardo).

Il referendum può riguardare il livello costituzionale o legislativo e anche altri piani (misure finanziarie, ordinanze, regolamenti, progetti concreti, ecc.).

Dal 1848 vige il referendum obbligatorio per tutte le revisioni parziali o totali  della Costituzione federale. Nell’elenco della Cancelleria federale, le iniziative popolari figurano insieme ai referendum obbligatori e risultano anche largamente prevalenti sul piano numerico.

Dal 1874 il referendum facoltativo può essere impugnato contro tutte le leggi
federali e contro determinati decreti federali da un numero definito di aventi diritto al voto o di cantoni. Dal 1874 al 1977, a livello federale, era necessario raccogliere 30 mila firme (pari al 5 per cento del corpo elettorale attorno al 1874) entro tre mesi e, dal 1978, 50 mila firme (1,3 per cento del corpo elettorale in quell’anno); accanto ai cittadini, anche otto cantoni possono richiedere una votazione popolare. Nella storia elvetica sono noti cinque casi di quest’ultimo tipo, di cui quattro non centrarono l’obiettivo (legge federale sull’emissione e il rimborso dei biglietti di banca, 1876; revisione del Codice penale svizzero, 1982; legge federale sul diritto internazionale privato, 1988; legge federale sulla protezione delle acque, 1992), mentre ha avuto successo il referendum indetto nel 2003 da11 cantoni contro il cosiddetto pacchetto fiscale.

Il Parlamento può anche sottoporre volontariamente dei temi al voto popolare. Spesso viene rilevato che una partecipazione costruttiva al processo decisionale del Paese presuppone un grado di informazione adeguato; per i critici, infatti, il referendum popolare rappresenta uno strumento di difesa contro tutti i provvedimenti politici non più corrispondenti alle posizioni degli elettori.

Infine si segnala l’istituto dell’«Abberufungsrecht», ovvero del diritto di revoca (17). Esso, benché attualmente in fase di evidentissima riduzione sino a diventare una vera e propria eccezione, sembra riproporre il modello USA del «recall» (18) permettendo cioè, su richiesta di una determinata percentuale di elettori, dopo apposita votazione popolare, di revocare l’organo legislativo.

Ricapitolando, per la modifica del testo sottoposto al voto popolare (referendum facoltativo) è sufficiente la maggioranza del popolo, la metà più  uno  dei  votanti; per le modifiche costituzionali invece (referendum obbligatorio) è richiesta una doppia maggioranza, la maggioranza di popolo e cantoni. Non è quindi sufficiente la maggioranza dei voti espressi, ma si valuta anche il risultato della votazione a livello cantonale.

Come possiamo notare, la forma di governo direttoriale è presente unicamente in Svizzera, rappresentando una straordinarietà.

Le democrazie moderne e contemporanee non discendono per via diretta dalla democrazia ateniese del V secolo, esse sono derivate infatti dal sistema «misto», come lo definì Polibio, che vigeva nella Roma repubblicana (grande  e  spesso unica vera fonte di ispirazione per le Repubbliche rivoluzionarie americane e francesi). Erano e sono sistemi basati sulla rappresentanza, ovvero sul voto di delegati eletti dal popolo per prendere decisioni.

Nulla di tutto questo esisteva nell’Atene del V secolo, dove il corpo elettorale, ovvero il δῆμος (demos), si riuniva ogni periodo predeterminato e votava tutti i provvedimenti: ciascuno aveva il diritto di proporre leggi o di proporre emendamenti all’ordine del giorno stilato da una commissione più ristretta, anch’essa formata da persone qualsiasi scelte per sorteggio.

C’è in tutto questo qualche filo rosso o analogia con il sistema direttoriale svizzero. Per Platone la parola «giusta» era isonomia cioè l’uguaglianza davanti alle leggi, mentre la democrazia per il filosofo veniva considerata come uno scadimento di quest’ultima.

Resta, però, il fatto che da Erodoto in poi la democrazia diretta prende un’altra accezione: «E fu così che gli Ateniesi si trovarono improvvisamente tra le mani un grandissimo potere […]. Hanno dato una forte prova di ciò che si può raggiungere con l’uguaglianza e la libertà di parola».

Nella Costituzione degli Ateniesi, Aristotele mostra chiaramente il suo pensiero riguardo l’argomento trattato in questa tesi.

Nella Grecia antica, ogni cittadino aveva il diritto di recarsi nell’ἀγορά (agorà) per contribuire alla cosa pubblica, ma aveva l’obbligo di sostenere attivamente la gestione e il governo. Pesava sul cittadino l’etica della responsabilità, l’obbligo di dare risposte e l’assoluto dovere di farsi carico del proprio ufficio.

Quest’ultima descrizione, ci riconduce alle singolari terre elvetiche, uniche per avere questo sistema direttoriale. Ma ci sono stati tentativi nel passato di trapianto di tale modello al di fuori dai confini elvetici, in particolare in Uruguay negli anni Venti e Cinquanta del Novecento: purtroppo però sono sostanzialmente falliti.

L’Uruguay, «il Paese dell’utopia»

La metafora coniata dal Martinelli descrive l’Uruguay come una terra lontana dell’America latina.19 Indipendente dal 1825, l’Uruguay è una Repubblica  unitaria. In forza  della  Costituzione,  promulgata nel 1967 ed  emendata nel 1989 e 1997, il potere esecutivo è affidato al Presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale con mandato quinquennale e affiancato dal Consiglio dei Ministri, di nomina presidenziale dietro approvazione del Parlamento. Il potere legislativo è esercitato dall’Assemblea Generale bicamerale composta da due Camere elette ogni cinque anni: il Senato (31 membri), e la Camera dei deputati (99 membri).

Fino agli inizi del XIX  secolo, la storia del nuovo Stato fu contrassegnata  da  un susseguirsi ininterrotto di lotte interne, tra le opposte fazioni dei «colorados», liberali, e dei «blancos», conservatori, appoggiati rispettivamente dal Brasile e dall’Argentina (20).

Tra il 1839 e il 1852 infuriò un conflitto civile, la cosiddetta «grande guerra» – cui partecipò un corpo di volontari guidati da Garibaldi – che ebbe termine soltanto con la cacciata del dittatore Rosas dall’Argentina. Seguì la guerra contro il Paraguay (la cosiddetta guerra di López, del 1864-‘70),  che  vide ancora una volta il Paese diviso tra i colorados, schierati a fianco dell’Argentina e del Brasile, e i blancos, a fianco del Paraguay. La sconfitta di quest’ultimo segnò l’inizio di una lunga fase di predominio dei colorados, ma non la fine della conflittualità interna. La svolta decisiva si ebbe con l’ascesa al potere di un colorado dissidente, José Batlle y Ordóñez, eminente figura di statista, il vero fondatore del moderno Uruguay, che dominò la scena politica dal 1903 al 1929.

Sotto la sua guida il Paese, che aveva conosciuto negli ultimi decenni del XIX secolo importanti trasformazioni economiche e sociali, si diede un sistema politico fondato su istituzioni liberali relativamente avanzate e una politica sociale progressista, divenendo una delle nazioni più democratiche e stabili dell’America Latina, mentre l’emigrazione europea, in primis spagnola e italiana, accresceva la popolazione del Paese attratta dal prodigioso sviluppo di quelle terre. Non a caso si ricorda che alte cariche partitiche nello stesso Stato uruguayano sono state occupate nei secoli da discendenti di immigrati italiani (21).

Segue: i tentativi falliti del Direttorio uruguayano

Il primo mandato di Batlle y Ordoñez lo vide impegnato a reprimere l’opposizione dei blancos, culminata in una ennesima guerra civile, e nell’opera di pacificazione nazionale. Durante il secondo mandato (1911-1915), egli attuò un programma di riforme che prevedeva una legislazione sociale a tutela dei lavoratori e degli strati meno abbienti, l’istruzione elementare obbligatoria, misure di protezione per l’industria nazionale, la nazionalizzazione delle banche, delle ferrovie e il controllo degli investimenti stranieri, la libertà di organizzazione per i partiti politici e un suffragio allargato, la separazione tra Stato e Chiesa. Sotto la sua influenza, fu varata nel 1919 una Costituzione (il cosiddetto Colegiado), modellata su quella svizzera, che stabilì limiti precisi ai poteri del Presidente affiancandogli un Consiglio nazionale quale organo esecutivo. Questo modello, tuttavia, aveva delle differenze con il modello elvetico, soprattutto nella figura del Presidente. Difatti, la Costituzione svizzera non prevede la figura del Capo di Stato, mentre con il primo Colegiado permane la figura del Presidente detentore del potere esecutivo, pur essendo affiancato da un altro organo di natura collegiale.

La crisi del 1929 ebbe riflessi pesantemente negativi sull’ancor fragile economia uruguaiana e sugli equilibri politici interni. Si ebbe quindi il ritorno a una sorta di«caudillismo» (22) moderato con la presidenza di Gabriel Terra (1931-‘38), il quale sospese la Costituzione del 1919 e instaurò un regime di tipo personalistico, sciogliendo il Congresso e il Consiglio nazionale.

Ma i suoi successori ripresero la politica di Batlle y Ordoñez (deceduto  nel  1929), ristabilendo le istituzioni democratiche, schierandosi a favore degli Alleati nella Seconda guerra mondiale, ampliando lo stato sociale e l’intervento pubblico nell’economia.

Per evitare che il Paese potesse di nuovo cadere nelle mani di un dittatore, il presidente Andrés Martínez Trueba propose nel 1951 l’abolizione della carica presidenziale e la creazione di un esecutivo collegiale formato da nove membri, sei del partito di maggioranza e tre dell’opposizione, con la sostanziale differenza dell’abolizione della figura del Presidente.

Il modello di Colegiado di Martínez Trueba aveva delle grandi similitudini con il modello svizzero: la Presidenza del Consiglio era a rotazione annuale tra i sei membri del gruppo di maggioranza. La Costituzione prevedeva inoltre la co-partecipazione tra le parti nella direzione dei ministeri e di altre entità autonome, utilizzando il modello «three-and-two system»: tre membri nominati dal partito di maggioranza e due da quello di opposizione. Stabilità politica, sociale e forma di governo puramente collegiale hanno concorso ad attribuire all’Uruguay il titolo di «Svizzera del Sudamerica».

Ma questo sogno durò poco, fu infatti con la crisi economica del 1958 che iniziò il declino del sistema colegiado, arrivando nel 1966 al definitivo declino e alla successiva reintroduzione del sistema presidenziale con tratti parlamentaristici.

Conclusioni

La breve trattazione di cui sopra ha cercato di rispondere all’interrogativo se la Svizzera sia davvero una perla rara nel panorama europeo.

A tal fine, è stata ricercata un’analogia con il pensatore della Grecia antica Aristotele, attraverso gli studi precedentemente condotti sulle sue opere la Politica e la Costituzione degli ateniesi.

Il confronto tra il pensiero aristotelico e il sistema direttoriale svizzero nasce però dall’invito ai nostri politici alla riflessione per cui i nostri rappresentanti non hanno più parole perché non hanno idee: sfoglino l’Odissea, farebbe bene a tutti!

Ricercando nelle opere di Aristotele le sue intuizioni sulle forme di governo, «attraversando» insieme a lui l’άγορά, leggendo i suoi pensieri sulla democrazia diretta (come unico modo per garantire l’uguaglianza), nasce questo contributo.

Successivamente, il confronto con l’Uruguay, un Paese che sembra aver avuto delle idee, degli slanci ma che non sono stati abbastanza forti da mantenere in piedi un sistema cosi unico. Certamente la struttura sociale, culturale e storica dell’Uruguay è notevolmente diversa da quella Svizzera. Sembra pregnante ricordare che lo sviluppo del modello direttoriale svizzero si è dispiegato, fra evoluzioni e momenti di crisi, nel corso di vari secoli, probabilmente l’Uruguay  non ha ancora avuto il tempo di metabolizzare una sì imponente ristrutturazione dell’organizzazione della sua forma di governo. Inoltre, da ultimo, ma forse non meno importante, appare degna di menzione la circostanza  che  l’Uruguay  ha una storia pervasa, analogamente ad altri Stati sudamericani, da rocambolesche ascese di figure carismatiche legate, in qualche modo, ad ascese militari.

Importante, a mio avviso, trattare l’argomento con gli studi precedentemente svolti, sotto un profilo antropologico, sociologico e statistico ma che tenga, soprattutto, in evidenza gli aspetti giuridici connessi allo sviluppo di un concetto peculiare di sovranità popolare.

Infatti, non si può dimenticare che lo Stato, nella sua accezione più generale, è sempre formato da tre elementi costitutivi imprescindibili: il territorio, il popolo e la sovranità. Mentre altre esperienze europee hanno sedimentato la loro unità su aspetti squisitamente correlati a una lingua unitaria, ovvero a una religione unitaria, la Svizzera dimostra che può realizzare, fra l’altro con eccelsi risultati, un’aggregazione saldata sulla prevalenza della sovranità popolare.

Non a caso la Svizzera, sul Report Best Countries 2018, è il miglior Paese al mondo, per tre anni di seguito. Ma vediamo le motivazioni: «Secondo  il CIA World Factbook, la Svizzera ha una bassa disoccupazione, una forza lavoro qualificata e uno dei più alti pro capite al mondo. La forte economia del Paese è alimentata da basse aliquote dell’imposta sulle società, un settore dei servizi altamente sviluppato, guidato da servizi finanziari, e un’industria manifatturiera ad alta tecnologia. Il Paese è orgoglioso della sua diversità e ospita Regioni con identità culturali distinte. I cittadini svizzeri hanno vinto più premi Nobel e registrato più brevetti pro capite rispetto alla maggior parte delle altre nazioni. E la sua neutralità durante i periodi di conflitto ha attratto alcune delle più grandi menti del mondo per immigrare, inclusi Joyce, Byron e Voltaire».

Nello stesso Report, l’Uruguay occupa la 58ª posizione ed è subito lampante che  la situazione non è delle migliori, rimane comunque il merito a questa calda terra di aver avuto due grandi presidenti come Batlle y Ordóñez e Martínez Trueba. Presidenti che hanno tentato, attraverso i due Colegiados, di avvicinarsi sempre di più al sistema politico direttoriale di quella che possiamo ironicamente chiamare la Babele in miniatura.

FABIO RATTO TRABUCCO – Professore a contratto in Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Venezia.


Nota del Direttore: L’autore ha già scritto nel 2012 una monografia per l’editore Aracne sul tema delle esperienze di governo direttoriale, svizzera ed uruguayana.

Note

1 Cfr. J.L. Borges, L’Aleph, Milano, Feltrinelli, 1990, 87.

2 Con il termine polis (in greco antico: πόλις, città; plurale πόλεις, póleis) non si indica solo una città-stato dell’antica Grecia, ma anche il modello politico tipico in quel periodo in Grecia.

3  Cfr. AA.VV., Dizionario biografico degli italiani, Roma, IEI, 1960. Homo homini lupus («l’uomo è lupo per l’uomo»): proverbio pessimistico, derivato dall’Asinaria di Plauto, II, 4, 88 (lupus est homo homini, non homo), che vuole alludere all’egoismo umano, e assunto dal filosofo Hobbes, nella sua opera De cive, per designare lo stato di natura in cui gli uomini, soggiogati dall’egoismo, si combattono l’un l’altro per sopravvivere.

4 Cfr. M. Volpi, Libertà e autorità: La classificazione delle forme dello Stato e delle forme di governo, Torino, Giappichelli, 2016, p. 15: «Le forme di governo per Aristotele sono tre: monarchia, aristocrazia democrazia; queste possono portare rispettivamente a tre degenerazioni di loro stesse: tirannide, oligarchia e demagogia».

5 Che possiamo definire come una magistratura straordinaria romana, fornita di imperium maximum, ovvero della pienezza di poteri civili e militari, attribuiti a un dictator, il cui incarico, generalmente circoscritto nel limite temporale di sei mesi e corrispondente al potere di un monarca temporaneo, serviva a ripristinare l’ordine e la continuità istituzionale in occasione di eventi straordinari. Quali, ad esempio, guerre civili, invasioni di eserciti stranieri, tumulti e rivolte. La figura del dictator rimase per tutta l’esperienza repubblicana romana ma, dopo l’assassinio di Cesare alle  Idi di marzo, il suo collega consolare Marco Antonio fece approvare una lex Antonia che abolì la dittatura e la espulse dalla Costituzione repubblicana. La carica fu successivamente offerta ad Augusto, che prudentemente rifiutò e optò invece per la potestà tribunizia e per l’imperium.

6 Cfr. AA.VV., Dizionario biografico degli italiani, cit.

7 Sia consentito rinviare a F. Ratto Trabucco, Il Direttorio di governo tra Svizzera ed Uruguay, Lecce, Libellula, 2017, p. 47.

8 Si ricorda che Calvi ha sostenuto come «raffrontando le due costituzioni, quella girondina di Condorcet e quella montagnarda di Hérault de Séchelles, non può non sottolinearsi l’enorme divario di ispirazione politica da cui sono separate. Al di là di notazioni formali, basti osservare  che i suggerimenti di Condorcet saranno ripresi sotto il Direttorio e il Consolato quando ormai la parabola rivoluzionaria va calando verso la dittatura napoleonica […] Condorcet designa un ordinamento, quindi, liberal-democratico cui manca però il pregio di essere adeguato ai tempi. Sarebbe stato l’ideale di Turgot  nel 1775 e sarà il modello cui si ispirerà poi la borghesia quando, consolidatasi al potere, vorrà assicurare il suo dominio, sia pure, e Condorcet non poteva prevederlo, a scapito della libertà», Introduzione, in J.-A.-N. CARITAT DI CONDORCET, Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 39.

9     Heimat  è un vocabolo tedesco. Spesso tradotto con casa, «piccola patria», o luogo natìo, indica il territorio in cui ci si sente a casa propria perché vi si è nati, vi si è trascorsa l’infanzia, o vi si  parla la lingua degli affetti.

10 Lo studio: la Svizzera è il miglior Paese al mondo, in http://www.repubblica.it, 23 gennaio 2018.

11 Concetto dell’antica filosofia greca indicante la condizione di felicità, considerata come fonda- mento dell’etica e come fine dell’esperienza umana.

12 Per completezza espositiva, nell’ambito dell’esperienza svizzera, giova ricordare il ruolo centrare dell’omogeneità della classe sociale che, in quanto poco variegata e fortemente restrittiva delle politiche di immigrazione, permette di ottenere una livellazione dei ceti sociali. Ragion per cui appare bastantemente pacifica la rappresentanza politica e, in definitiva, l’individuazione della classe sociale di riferimento. Per approfondimenti al riguardo, cfr.: C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1976, p. 349, dove evidenzia che: «In Svizzera invece la prevalenza dell’esecutivo si è potuta affermare progressivamente e senza scosse per ragioni di omogeneità sociale analoghe a quelle che hanno provocato la prevalenza del Premier in Inghilterra e del Presidente degli Stati Uniti (e l’analogia risulta più evidente se si considera come anche in tali due forme di governo l’evoluzione, senza il sussistere di quelle condizioni, sarebbe potuta esser diversa)».

13 Elementi chiaramente dettati da una pluralità religiosa e culturale che, benché fortemente attenuata da una omogeneità di condizione sociale, pone la Svizzera come uno dei pochissimi Stati che non sedimenta la sua unità nazionale su elementi tipici degli Stati contemporanei quali: unità di lingua; identità culturale, unità di credo religioso.

14 Cfr. A. Ineichen, Formula magica (voce), in AA.VV., Dizionario storico della Svizzera, 5, Locarno-Basel, Dadò-Schwabe, 2006, in: http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I10097.php.

15 P. Biscaretti, Di Ruffìa, Diritto costituzionale comparato, Milano, Giuffré, 1988; G. de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Padova, Cedam, 1993, 628-635; B. KnappP, Le fédéralisme, Basilea, Helbing & Lichtenhahn, 1984.

16 C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, Vicenza, Neri Pozza, 1950.

17 Per approfondimenti sul tema, cfr.:  R. Scarciglia, Il divieto di mandato  imperativo. Contributo a uno studio di diritto comparato, Padova, Cedam, 2005, p. 77 e segg.

18 Benché tuttavia, quest’ultimo appare strutturato a provocare la cessazione anticipata del singolo parlamentare mentre la variante svizzera sembra riconducibile a una interruzione dell’operato dell’intero organo legislativo. Per approfondimenti cfr. ancora R. Scarciglia, Il divieto di mandato imperativo, cit., p. 152 e segg.

19 Cfr. L. Martinelli, Il Paese dell’utopia. Viaggio nell’Uruguay di Pepe Mujica, Roma, Laterza, 2015.

20 Sulla storia politico-costituzionale uruguayana, cfr. J. A. Oddone, Tablas cronológicas. Poder ejecutivo – Poder Legislativo. 1830-1967, Montevideo, Universidad de la República Oriental del Uruguay, 1967.

21 Si ricordano i quattro Presidenti della Repubblica di origine italiana: Tomás Berreta Gandolfo (1947); José Serrato Bergeróo (1923-1927); Julio María Sanguinetti Coirolo (1985-1990 e 1995-2000); José Alberto Mujica Cordano (2010-2015); rispettivamente di origini comasche,  il primo, e genovesi i restanti tre. Nonché il Presidente del Consiglio Nazionale di Governo, Benito Nardone Cetrulo (1960-1961), il cui padre nacque a Gaeta (LT). Cfr.: R. Mansi, Storia dell’emigrazione italiana in Uruguay. Modelli, aree di ricerca ed esemplificazione (1875-1914), Acireale, Bonanno, 2014; G. Meo Zilio, El elemento italiano en el habla de Buenos Aires y Montevideo, Firenze, Valmartina, 1970; J.B. Ponss, «Vincoli storici fra l’Uruguay e l’Italia», in AA.VV., Uruguay, I, Milano, Sipec, 1964, pp. 5-21.

22 Cfr. AA.VV., Dizionario biografico degli italiani,  cit. Termine coniato  durante la lotta per l’indipendenza nell’America latina per indicare una forma di organizzazione in cui la direzione politica era affidata al capo militare (caudillo). Nel corso dei due secoli successivi ha indicato numerose realtà latinoamericane, dominate dagli stretti legami fra politica e forze armate.

Bibliografia

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