La costituzione repubblicana turca definisce il Paese come uno Stato secolare che, in quanto tale, riconosce formalmente libertà di coscienza, credo religioso, convinzione, espressione e culto a tutti i suoi cittadini; più chiaramente ancora, la costituzione vieta la discriminazione basata su motivi religiosi. Sono delle premesse sicuramente virtuose e del tutto singolari per un Paese i cui cittadini si definiscono al 95 per cento musulmani. La popolazione della Turchia è stimata a 81 milioni (luglio 2017), circa il 77,5 per cento dei musulmani è di obbedienza sunnita Hanafi. I rappresentanti di altri gruppi religiosi stimano che i loro membri rappresentano circa il 0,3 per cento della popolazione, mentre le più recenti indagini pubblicate suggeriscono che circa il 2 per cento della  popolazione è atea. Ma queste cifre diventano assai aleatorie quando consideriamo che i leader della Fondazione alevita stimano i membri della loro organizzazione tra il 25 e il 31 per cento della popolazione totale del paese (e per questo sono frequentemente discriminati nei loro diritti fondamentali). Per continuare nella rappresentazione del mosaico del cosiddetto “islam eterodosso”, la comunità sciita Jafari ha stimato i suoi membri al 4 per cento della popolazione. Alcuni osservatori, tra cui studiosi, giornalisti e funzionari della sicurezza, stimano che ci possono essere fino a quattro milioni di persone influenzate dal movimento guidato dal religioso musulmano Fethullah Gülen, che si identifica come un movimento civico, culturale ed educativo islamico, che il governo ha ritenuto essere il diretto responsabile dell’ultimo tentativo di colpo di stato, nel luglio 2016, bandendolo dalla vita pubblica come gruppo terrorista.

I gruppi religiosi non musulmani sono per lo più concentrati a Istanbul e in alcune altre grandi città del paese così come nel sud-est, attorno ad Antakya (l’antica Antiochia di Siria di biblica memoria), poco lontano dalla martoriata frontiera siriana. Le stime esatte non sono disponibili; tuttavia, il gruppo più importante è quello dei circa 90.000 armeni apostolici cristiani ortodossi (di cui circa 60.000 sono cittadini turchi e 30.000 sono migranti provenienti dall’Armenia senza residenza legale); 25.000 cattolici latini (tra cui un gran numero di recenti immigrati provenienti da Africa e Filippine); circa altrettanti cristiani ortodossi siriani (noti come siriaci Kadim); 15.000 russi ortodossi (per lo più recenti immigrati dalla Russia in possesso di un titolo di soggiorno). Poi un gruppuscolo di altre denominazioni cristiane: dalle recenti chiese domestiche protestanti turche, con non meno di 7.000 membri in totale, 3.000 cristiani cattolici di rito caldeo, un resto di circa 2.000 cristiani ortodossi greci (sopravvissuti allo scambio di popolazione tra Turchia e Grecia del 1924) e, ancora, qualche centinaio di ortodossi bulgari, georgiani, ucraini, dei siriaci cattolici, degli armeno-cattolici e qualche decina di cristiano-maroniti. Tra i piccoli gruppi non cristiani è doveroso menzionare ancora forse 10.000 bahà’ì, meno di 1.000 yezidi, 5.000  testimoni di Geova e circa 300 mormoni, senza dimenticare 16.000 ebrei, in realtà scarsamente praticanti. La presidenza degli affari religiosi (Diyanet) governa e coordina le questioni religiose legate all’Islam. Il suo mandato è di promuovere e abilitare la pratica dell’Islam sunnita. Di fatto, tutte le fedi al di fuori di questa obbedienza sono facilmente discriminate in modo più o meno palese, incontrando difficoltà nell’ottenere esenzioni dalle classi  di  religione,  obbligatoria  nelle  scuole  pubbliche,  nell’operare o nell’aprire case di culto e nell’affrontare le questioni legali concernenti le loro proprietà. Lo stesso governo, tuttavia, offre in genere un sostegno alla sicurezza alle comunità religiose stesse, in un clima di  ostilità  crescente,  alimentato  da una propaganda nazionalista etremamente aggressiva, spesso amplificata da mass-media asserviti al potere.

Alcune puntualizzazioni storiche

Anche se siamo in presenza di un innegabile aumento della propaganda  religiosa, o meglio, di un rivestimento religioso della propaganda politica, populista e autoritaria, la situazione della Turchia attuale non può essere equiparata a quella di un qualsiasi Stato islamico medio-orientale o della  Penisola arabica. La storia ha portato questo paese ad imboccare un percorso assai particolare fin dai tempi dell’Impero ottomano, sulle cui ceneri è nato quasi un secolo fa. Quando parliamo di questione religiosa, in Turchia, dobbiamo prima di tutto ricordare che la laicità “alla turca” non è mai stata la separazione della Chiesa (o piuttosto della moschea) dallo Stato. Sebbene dal 1928, nella nuova Repubblica turca, l’Islam non sia più definito religione di Stato, il secolarismo turco rappresenta il controllo della religione dominante da parte dello Stato. Se la laicità alla turca si è ispirata al modello francese, lo ha fatto in particolare nel suo desiderio di sopprimere ogni influenza della religione negli affari pubblici; ma siamo anche lontani da un’effettiva equidistanza che è alla base della libertà religiosa in Francia. In questo quadro giuridico, nessun aiuto, di alcun tipo, è concesso alle minoranze musulmane non sunnite, così come alle minoranze non musulmane. Quindi, la religione sunnita maggioritaria è posta sotto il controllo dello Stato e, come affermano alcuni costituzionalisti turchi, siamo più vicini al sistema del Concordato napoleonico, che alla legge francese di separazione tra Stato e Chiesa del 1905. L’obiettivo dei fondatori della Repubblica turca era duplice: impedire che la religione si erigesse in “contro potere”, ma anche utilizzare la religione musulmana dominante come strumento di legittimazione del nuovo potere. Quindi, fin dall’inizio della Repubblica turca, il discorso sulla laicità è indipendente da ogni preoccupazione di garantire la pluralità delle convinzioni religiose (1) (una diversità confessionale, in realtà molto reale anche all’interno dell’Islam turco) e diventa uno strumento di potere e, di fatto, con il nazionalismo, parte della doxa repubblicana (2). Il progetto è chiaro: legittimare la nazione come musulmana, quindi turca, in modo da integrare “l’islamità” come condizione di appartenenza alla “turcità”, per giustificare la gestione diretta del settore religioso da parte dello Stato, sopprimendo qualsiasi autorità interna propria alla sfera religiosa. Alcuni, commentando questo stato di cose, hanno potuto affermare che la Turchia moderna nasceva anticlericale ma non anti-religiosa.

In larga misura, l’Islam turco così definito è stato strumentalizzato, proprio come la storia o la lingua, a favore del progetto kemalista di creare uno stato-nazione territorializzato e unificato (3). L’élite kemalista mira pertanto a propagare un Islam etno-nazionale, sunnita e fondato sulla nozione di “turcità”, per prevenire l’implosione del paese a causa di possibili scontri tra laicisti e islamisti, tra nazionalisti turchi e nazionalisti curdi, tra sunniti e aleviti. Il problema più ovvio di questo progetto kemalista è l’imposizione di una modernità e di un secolarismo senza alcuna base sociale. È per questo motivo che l’eliminazione della religione dalla politica,  e in parte dal vincolo sociale, porterà inevitabilmente ad un suo successivo ritorno in forme diverse.

Quale futuro?

Questa è esattamente la situazione odierna, in un Paese in cui, gradualmente, le autorità hanno cercato di ridurre l’impatto del principio di laicità, senza tuttavia sopprimerlo. Non c’è dubbio che l’attuale governo ha perseguito e amplificato questa tendenza, ma da qui a dire che c’è un piano per abolire il principio  di laicità  nelle sue implicazioni giuridiche e politiche, c’è un abisso! Ciò implicherebbe, in primo luogo, un cambiamento fondamentale nella Costituzione secondo la quale il principio di laicità è intangibile. Sarebbe quindi necessario rivedere tutti i codici, e introdurre elementi della sharia (la legge religiosa islamica) nel diritto pubblico. In realtà, potremmo per certi versi dire che i turchi usano una religione “à la carte”. Le periferie della società sono state teatro della sopravvivenza di un’identità religiosa a forte connotazione comunitaria, mentre si infiltravano progressivamente le attrazioni del consumismo e si riproducevano i benefici, non respinti, della modernizzazione.  In una società traumatizzata dalla storia, ma anche dalle politiche governative (una dozzina di colpi di stato solo nell’era repubblicana …), per gli individui sfiduciati e permanentemente oppressi da un senso di minaccia e di precarietà, l’Islam, rielaborato dal potere, fornisce un’identità di difesa, reazionaria. In effetti, l’Islam non è più tanto una religione, ma piuttosto il nome di un’identità: un’ideologia difensivista al servizio del totalitarismo. È un Islam che si identifica con l’idea stessa di potere; non sfida più l’ordine stabilito ma diventa esso stesso l’ordine (ma dietro quest’idea c’è, appunto, un modo di concepire il potere politico) (4). È chiaro che si sviluppa, nei decenni, un progetto di nazione dove si tenta di assimilare i musulmani non turchi e, al contrario, di respingere i non musulmani, non riconoscendoli come membri reali o futuri di questa “comunità immaginata”.

La nostra breve incursione storica evidenzia come il sistema ottomano di gestione dei particolarismi religiosi, che era la forza dell’Impero nel suo periodo di massimo splendore, è stato all’origine della sua stessa debolezza contribuendo in modo decisivo alla creazione di Chiese nazionali  o  etniche  e,  analogamente,  alla reazione nazionalista xenofoba che caratterizza l’attitudine corrente di certe correnti di pensiero verso qualsiasi legittima rivendicazione della libertà di credo, confessione e di culto. Sullo sfondo l’irrealizzabile ma sempre  pericolosa idea di uno Stato-nazione idealmente composto solo da un’identità etnica. E poiché si è consapevoli che la realtà non corrisponde a questo desiderio, si è tentati        di applicare la discriminazione religiosa agli elementi che non possono essere assimilati (i non musulmani) e l’assimilazione etnica nei confronti di coloro che si era convinti di poter assimilare (cioè gruppi etnici musulmani). Ciò nonostante, se ci si riferisce correttamente al Trattato di Losanna del 1923, si potrà notare che esso parla di minoranze religiose e non di minoranze razziali e si fa della libertà religiosa la garanzia fondamentale del trattato. Purtroppo, tali garanzie rimarranno lettera morta in assenza dello status giuridico delle comunità religiose, ancora oggi non riconosciute come associazioni. Ad esempio, la mancanza di personalità giuridica della Chiesa cattolica latina in Turchia, genera innumerevoli problemi di diritti nella vita di tutti i giorni e non solo problemi finanziari, e ai beni mobili e immobili. Ma la rivendicazione di uno status giuridico deve essere scevra da connotazioni politiche e identitarie, per non diventare oggetto di strumentalizzazioni ideologiche.

A partire da questo sfondo, rimaniamo convinti che in Turchia si inizierà a costruire davvero un futuro quando tutte le comunità potranno liberamente esprimere la loro ricchezza confessionale, facendo passare allo stesso tempo i loro membri dallo statuto di “cittadini per forza” a quello di “cittadini per scelta” e poi, ancora più importante, diluendo i nazionalismi. Questo anche sfidando la concezione occidentale imperniata sulla falsa idea di un secolarismo che pretende di confinare le appartenenze e le espressioni religiose stesse alla sola sfera privata. In fondo, possiamo immaginare una società in cui le rappresentazioni del mondo, le convinzioni e le espressioni simboliche non siano più pubblicamente in un dialogo perpetuo? Pensiamo davvero che uomini e donne possano astenersi dal discutere su ciò che permette loro di dare o cercare un significato alle loro vite?

CLAUDIO MONGE – Sacerdote Domenicano e dottore in Teologia delle religioni, vive stabilmente a Istanbul da 16 anni. Professore inviato in diverse università europee e nord-americane. Dal 2014 è Consultore del consiglio Pontificio per il  Dialogo Interreligioso.

Note

1 Il Trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, è formalmente consacrato, nella sua sezione III, alla protezione delle minoranze non musulmane. Queste minoranze possono organizzarsi in fondazioni (vakif), avere le loro scuole, i loro ospedali. La ristrutturazione delle loro chiese e gli stipendi dei loro sacerdoti sono responsabilità della loro comunità. Ma le autorità amministrative e giudiziarie adottano un’interpretazione restrittiva del Trattato di Losanna con, ad esempio, la privazione progressiva alle fondazioni del diritto di acquistare, ereditare o recuperare dei beni immobiliari. In sostanza, le minoranze religiose non musulmane sono presto confrontate a seri ostacoli in termini di personalità giuridica, di diritti di proprietà e di gestione interna, ed è loro vietato formare il proprio clero. Ora, un’identità musulmana confusa con un’identità etnica e nazionale stretta (e non universale e cosmopolita come nell’Impero Ottomano) potrebbe generare una intolleranza mai veramente conosciuta al tempo dell’Impero Ottomano! Queste considerazioni sono importanti perché l’Unione europea spesso conduce l’analisi sulla tutela delle minoranze religiose non in quanto formazioni sociali ma in riferimento ad alcuni diritti particolari, individuali, ad esempio: la libertà di pensiero, la libertà di espressione e la libertà di coscienza. Ora, da sempre, il problema in Turchia è la tutela delle confessioni religiose che, per loro natura, implica- no un percorso di fede condiviso, una compartecipazione collettiva e non solo diritti individuali! Insomma, la libertà religiosa non può essere limitata a diritto individuale ma deve essere tutelata anche come diritto comunitario.

2 Cfr. O. Abel, « Que veut dire la laïcité ? », in CEMOTI, 10/1990, pp. 3-14.

3 Cfr. C. Monge, «Petite histoire de la genèse de l’islam turc et de son rapport au politique. S’agit-il d’un modèle compatible avec la démocratie?», in Revue des sciences religieuses 87 n° 2 (2013), pp. 219-237.

4 I giovani islamisti degli anni ‘80 si sono trasformati in uomini d’affari, membri di una classe media  di origine rurale e di tradizione conservatrice e pia, chiamata le “tigri anatoliche”, zoccolo duro del consenso AKP.

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