Nel corso dell’interessante giornata di studio che portava il titolo «Dio, Patria e Tradizione. Religione e nazionalismi nell’era globale» ho dialogato con studiosi mossi da notevole affinità culturale, in chiave di difesa della libertà di coscienza e di religione. Il mio apporto alla discussione è stato principalmente radicato nelle nozioni che in materia si ricavano dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla giurisprudenza sviluppata dalla Corte europea. Con la consapevolezza che vi è stretta consonanza con quanto si ricava dalla Costituzione.

La protezione della libertà religiosa su cui si fonda il valore del pluralismo è tra i principali aspetti di un movimento mondiale che ha riguardato il più ampio campo dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Esso si è manifestato nel secondo dopoguerra, nel contesto culturale e politico che reagiva alle tragedie che si erano consumate durante e tra le due guerre mondiali. La novità che trovava largo consenso era quella che vedeva un nesso stretto tra la protezione dei diritti e delle libertà delle persone e la garanzia della pace tra le nazioni e al loro interno. Da tale convinzione derivava quella che nel campo dei  diritti umani doveva dar corpo a una svolta strutturale. Il respiro universale della francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino o degli atti della rivoluzione americana, sul piano giuridico non si accompagnava al superamento dell’ambito nazionale, quanto ad applicabilità territoriale e a competenza delle istituzioni capaci di offrire tutela agli individui. Anche in tema di diritti fondamentali ha continuato a operare il principio del diritto internazionale del dominio riservato statale e del divieto di interferenza negli affari interni. Come frutto del movimento di cui le Nazioni Unite furono essenziali promotrici, proprio i principi del dominio riservato e della non interferenza negli affari interni sono stati messi in discussione e in vario modo superati.

Il riconoscimento e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali sono stati riportati nell’ambito della responsabilità della comunità internazionale. La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, anche se di carattere politico e giuridicamente non vincolante, riflette quella nuova impostazione. Essa è stata alla base di sviluppi importanti, questa volta di carattere strettamente giuridico vincolante, in varie regioni del mondo: in primo luogo in Europa.

Prima di darne conto e vederne le implicazioni sul terreno della libertà religiosa e di coscienza, conviene segnalare che l’impostazione che era venuta emergendo assegnava ai diritti umani e alle libertà fondamentali il carattere dell’universalità. è noto che quel carattere è contestato nella sua assolutezza e trova smentita non solo nella realtà mondiale, ma anche nel valore largamente riconosciuto del rispetto delle specificità culturali. Tuttavia, almeno una spiccata attitudine a promuovere progressive armonizzazioni nel contenuto dei diritti e delle libertà e nella relativa tutela, può essere riconosciuta come un dato di fatto d’importanza non minore. Merita di essere qui richiamato il preambolo della Convenzione europea dei diritti umani, che stabilisce che scopo del sistema europeo è il raggiungimento di una maggior unità tra gli Stati europei anche attraverso la protezione e lo sviluppo dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Universalità dei valori vs particolarismo nazionale

La valorizzazione di particolarità storiche, culturali e religiose offre però agli Stati argomento per resistere agli interventi di istituzioni sovranazionali, come quelli della Corte europea dei diritti umani. La nobiltà del richiamo a storia e cultura nazionale, copre talora nel tempo presente un risorgente atteggiamento nazionalistico, direttamente in contraddizione con le ragioni fondanti il movimento di internazionalizzazione del diritto dei diritti umani. Quando poi gli Stati e le opinioni pubbliche reagiscono e resistono agli orientamenti manifestati dagli organismi sovranazionali, essi si richiamano a caratteri culturali che sono propri della maggioranza dei loro cittadini (con la difficoltà di accertarli senza dar spazio a stereotipi senza fondamento). Ma quando si tratta di diritti e libertà fondamentali si discorre di ciò che appartiene a ciascun individuo, in particolare agli individui e ai gruppi minoritari. Ciò si rileva particolarmente in campo etico e religioso. La crescente resistenza degli Stati al processo di armonizzazione e generalizzazione del contenuto dei diritti e delle libertà fondamentali si manifesta sia a livello globale con la pretesa di mantenere in vita il principio della non interferenza negli affari interni, sia a livello europeo con la richiesta degli Stati di vedersi riconosciuto un sempre più largo margine di apprezzamento nazionale nella messa in opera della Convenzione. La giurisprudenza della Corte europea mi pare incline e non contrastare tale orientamento degli Stati. La conseguenza è che la gestione del delicato campo dei diritti fondamentali torna nelle mani degli Stati, cioè delle maggioranze che si creano nei parlamenti e nei governi, in contrasto con il carattere contro-maggioritario che è proprio della materia di cui discutiamo.

Storia e attualità politica e giuridica del fondamento dei diritti

Il fenomeno politico cui assistiamo ha potenziali gravi conseguenze sul terreno  del fenomeno religioso, e più in generale quando sono in campo temi etici. La storia ci indica che la sopraffazione religiosa e la pretesa di imporre credenze uniformi sono all’origine di tragedie. Voltaire scrisse a proposito dell’Inghilterra del suo tempo: «S’il n’y avait en Angleterre qu’une religion, son despotisme serait à craindre; s’il n’y en avait que deux, elles se couperaient la gorge; mais il y en a trente, et elles vivent en paix et heureuses» (Lettres Philosophiques, Lettre VI, Sur les presbytériens, 1733).

La Dichiarazione universale prevedendo la libertà religiosa, all’art. 18 contempla anche il diritto di ciascuno di cambiare religione. Analogamente la Convenzione europea dei diritti umani all’art. 9 e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE all’art. 10. Tale libertà è alla base del pluralismo che legittimamente si manifesta in ogni società. In proposito la Corte europea ha affermato che «non v’è democrazia senza pluralismo» e che «il pluralismo e la democrazia si fondano su di un compromesso che implica delle concessioni da parte degli individui o gruppi, i quali devono a volte, accettare di limitare alcune libertà di cui godono al fine di garantire una più forte stabilità del Paese nel suo insieme» (Refah Partisi c. Turchia,13 febbraio 2003).  La Corte ha inoltre detto che «pluralismo, tolleranza e spirito di apertura caratterizzano una società democratica (…). Per quanto a volte sia necessario sacrificare l’interesse del singolo a quello del gruppo, la democrazia non si piega alla supremazia costante dell’opinione della maggioranza; essa impone un equilibrio che serve ad assicurare alle minoranze un giusto trattamento evitando ogni forma di abuso derivante dal ricoprire una posizione dominante» (Young, James e Webster c. Regno Unito, 13 agosto 1981; Valsamis c. Grecia, 18 dicembre 1996). In Europa, come ha affermato la Corte europea, è acquisito che «Così com’è tutelata dall’art. 9, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione rappresenta uno dei fondamenti di una « società democratica » ai sensi di quanto previsto dalla Convenzione. Questa libertà figura, nella sua dimensione religiosa, tra i fattori più essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione di vita, ma essa è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici o gli indifferenti. Da essa dipende il pluralismo – faticosamente conquistato nel corso dei secoli – che non potrebbe essere scisso dal modello democratico di società. Questa libertà implica, di regola, la facoltà di aderire o non a una religione, e quella di praticarla o di non praticarla (…).

D’altronde, in una società democratica, dove più confessioni e convinzioni religiose convivono all’interno della stessa comunità politica, può risultare necessario sottoporre la libertà in oggetto a delle limitazioni proprio al fine di conciliare gli interessi dei differenti gruppi e di assicurare il rispetto delle convinzioni di ciascuno  (…). La Corte ha sovente evidenziato il ruolo dello Stato nella sua veste di organizzatore neutro e imparziale nel regolare l’azione dei differenti culti e  delle diverse fedi, sottolineando come tale ruolo sia funzionale ad assicurare l’ordine pubblico, la pace religiosa e la tolleranza in una società democratica. La Corte ritiene anche che il dovere di neutralità e di imparzialità dello Stato sia incompatibile con qualsiasi potere di apprezzamento da parte dello Stato in merito alle credenze religiose (…) e che ciò impone allo Stato il dovere di assicurare e garantire che gruppi religiosi fra loro divergenti si tollerino» (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993).

Tali principi sono messi in discussione quando emerge prepotente la pretesa di riportare una religione (sia pure quella che appare maggioritaria in uno Stato) a componente determinante dell’identità nazionale. Un’identità che implicitamente si intende monolitica, invece che plurale, con la conseguenza che le minoranze religiose o gli individui che non si riconoscono nella  religione  maggioritaria, sono al più tollerati e sempre sospetti di anti-patriottismo. La vecchia formula della religio instrumentum regni, forse mai tramontata, trova ora occasioni di manifestarsi in un fenomeno evidente in molti Paesi europei sul piano del dibattito politico (Polonia, Ungheria, Italia, ex Jugoslavia, Russia, …). Essa assume rilievo perfino nella politica estera degli Stati, come dimostrano le reazioni di Russia e Ucraina alla recente vicenda relativa alle chiese ortodosse russa e ucraina sullo sfondo del conflitto in corso tra i due Paesi. L’uso della religione (che diviene religione di Stato, anche se  non è qualificata in tal modo dalle rispettive Costituzioni) ai fini politici di ricerca del consenso, richiama in genere le versioni più tradizionali, popolari, delle religioni: spesso quelle che portano con sé un tasso più o meno elevato di intolleranza. Un tale uso–abuso a fini politici dei richiami religiosi e dell’ostentazione dei suoi simboli è accompagnato in alcuni Stati dal gradimento e dalla partecipazione delle chiese.

Il fenomeno si unisce ora alla pretesa di diversi Stati di dettare una ricostruzione ufficiale e non contestabile della storia nazionale, spesso assimilabile a forme di negazionismo delle pagine nere (Polonia, Ucraina, Turchia, …). Si tratta di pericolose tendenze alla cui base vi è l’intenzione di trattare i diritti umani e l’orientamento religioso come qualcosa di collettivo (nazionale), invece che, come deve essere, come terreno delle libertà individuali.

Vladimiro Zagrebelsky – Giurista, e già giudice (2001-2010) presso la Corte europea dei diritti umani, autore di diverse pubblicazioni.

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