La libertà di coscienza, di religione e di pensiero è tra tutte la più fragile e vulnerabile perché può essere compressa e soppressa anche in maniera subliminale, con messaggi e stimoli al di sotto della percezione dei soggetti. E l’offesa può provenire non soltanto dai pubblici poteri ma anche dalle stesse comunità in cui gli individui svolgono, in particolare, la loro personalità religiosa. Anziché servire al pieno sviluppo della persona umana queste formazioni sociali, quando dirette in maniera insindacabile da un capo carismatico,diventano padrone delle coscienze degli adepti, limitandone grandemente o addirittura annullandone la libertà di determinazione. In tal caso è doveroso l’intervento dello Stato a tutela dei diritti inviolabili della persona, che l’art. 2 della Costituzione prescrive anche all’interno delle formazioni sociali, aderendo alle quali di massima si accetta una compressione dei propri diritti.

Ma è sufficiente il tipo di intervento statale finora attuato per dare una risposta alle numerose vittime delle oltre cinquecento organizzazioni settarie che si stima per vero, non si sa quanto attendibilmente – operino sul territorio italiano? Esiste una «squadra anti-sette» nell’organigramma del ministero dell’interno, che opera anche in collaborazione con altre strutture similari delle associazioni delle vittime e di organizzazioni di volontariato. Insieme, nel novembre dello scorso anno, hanno partecipato a un incontro organizzato presso l’università Lumsa di Roma, nel quale i relatori, descrivendo le caratteristiche del manipolatore, la personalità degli adepti e le tecniche di adescamento, hanno evidenziato le fattispecie penali ricorrenti in queste pratiche: violenza privata, truffa, estorsione, circonvenzione di incapace, violenza sessuale, pedofilia, istigazione al suicidio fino all’omicidio. Sono tutti reati perseguibili d’ufficio, sulla cui interpretazione esiste una giurisprudenza consolidata e quindi una certezza del diritto, sicché è giustificato ritenere che l’ordinamento possieda gli strumenti normativi per contrastare adeguatamente il fenomeno delle «sette» (termine equivoco, giuridicamente inutilizzabile) quando al loro interno e/o da loro capi o adepti vengano commessi reati (v. per esempio le condanne per violenza sessuale e maltrattamenti nella vicenda «Forteto», di cui in Cass. 22 dicembre 2017, n. 24979).

Il problema per questi come per altri illeciti penali (si pensi ai reati di mafia), è costituito, quindi, non dalla mancanza di norme incriminatrici ma piuttosto dalla difficoltà delle indagini, ostacolate dall’omertà o dalla reticenza dello stesso reigiousseeker o, specialmente nel caso dei minori, dalla vulnerabilility of the newcomer. Con riferimento ai quali, tuttavia, è da ricordare una legge che permette   di intervenire a loro tutela in via preventiva: si tratta della legge 1423 del 1956, che stabilisce le misure  di  prevenzione  della  sorveglianza  speciale,  del divieto di soggiorno, dell’obbligo di soggiorno. Esse possono essere applicate indipendentemente dall’accertamento di reati e già solo per il caso di pericolo a tutti «coloro che, per il loro comportamento, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni». Per contrastare – come raccomandato dal Consiglio d’Europa,1412/99, n.10 – «le pratiche illegali svolte in nome di gruppi di natura religiosa, esoterica e spirituale», quindi, l’ordinamento penale è già sufficientemente dotato di previsioni penali, non solo a livello repressivo ma anche preventivo.

Cionondimeno, è diffusa la percezione che – per dirla con il titolo di un reportage del 2015 comparso sul settimanale l’Espresso – «Sette e santoni crescono, le istituzioni tacciono».

A evidenziare l’infondatezza dell’allarmismo soccorreva il contenuto dello stesso articolo, nel quale si menzionavano anche casi giudiziari come quello di «Arkeon, organizzazione pugliese sconquassata da pesanti inchieste giudiziarie che hanno portato a una condanna definitiva per abusi sessuali di un maestro, mentre altri sono stati condannati in primo grado per associazione a delinquere». Tuttavia, la tesi formulata era quella di un «inspiegabile vuoto normativo grazie al quale il mondo dell’occulto prospera».

Questa comune ma infondata percezione – che qui è parso opportuno riportare non con le parole delle associazioni anti-sette ma con quelle di un settimanale «garantista» insospettabile di giustizialismo – spiega perché puntualmente all’inizio di ogni legislatura viene presentata una proposta di legge per introdurre nel nostro ordinamento un nuovo reato: la manipolazione mentale. E’ avvenuto anche quest’anno e anche per la risonanza di un’altra inchiesta  giornalistica, pubblicata nel libro di Piccinni e Gazzanni, Nella setta. Annunciata il 5 febbraio alla Camera con il n. 1565, oggetto di una successiva conferenza stampa riportata da diversi giornali, la proposta che vede come prima firmataria la deputata Santelli è, tuttavia, ignota perché – reca il sito della Camera – il testo non è disponibile. A parte la singolarità di protocollare ufficialmente una proposta che materialmente non esiste, se ne deduce che, quanto meno, l’urgenza dell’intervento in materia, conclamata nella conferenza stampa seguita alla presentazione del guscio vuoto, di fatto non è particolarmente sentita. Comunque è probabile che, a parte le novità forse contenute nella relazione, il testo normativo non si discosterà da quello che riuscì ad approdare in aula del Senato nel 2005 senza poi essere calendarizzato ed è stato poi pedissequamente riproposto fino alla scorsa legislatura. Si tratta di introdurre nel codice penale tra i «delitti contro la libertà morale» un art. 613-bisavente ad oggetto la «Manipolazione mentale», consistente nel fatto di «chiunque, mediante tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici, pone taluno in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o da limitare grandemente la libertà di autodeterminazione».

Ci sarebbe differenza rispetto al vecchio art. 603 del codice penale, configurante  il reato di plagio, che la Corte costituzionale, con la sentenza 8 giugno 1981, n. 96, dichiarò illegittimo per contrasto con gli articoli 21 e 25 della Costituzione? Quella fattispecie di reato consisteva nel fatto di «Chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione» ma, secondo  la Corte, «era sfornita nei suoi elementi costitutivi di ogni chiarezza. Il legislatore, prevedendo una sanzione penale per chiunque sottoponga una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione, avrebbe in realtà affidato all’arbitraria determinazione del giudice l’individuazione in concreto degli elementi costitutivi di un reato a dolo generico, a condotta libera e ad evento non determinato».

Non sembra proprio che la nuova formulazione possa superare queste obiezioni. Non basta evocare le tecniche di condizionamento della personalità o di «suggestione» per rendere la condotta specifica e non «libera»: esse, infatti, per di   più quando praticate con mezzi psicologici, possono essere le più svariate ed è impossibile definirle scientificamente e distinguerle da quelle lecite utilizzate, oltre che nella pubblicità e nell’insegnamento, specialmente nelle organizzazioni religiose. Quindi, in violazione del principio di stretta legalità, anche la formulazione proposta finisce per delegare di nuovo al giudice l’individuazione in concreto della condotta costituente reato. Del tutto sovrapponibile alla nuova formulazione  è  poi  il giudizio della Corte con riguardo all’evento «soggezione»: una soggezione «continuativa e tale da escludere o da limitare grandemente la libertà di autodeterminazione» non è altro che una soggezione «totale», come  nel vecchio testo: non cambia la sostanza ma solo l’enunciato linguistico. Rimane perciò, come denunciato dalla Corte, che «il pericolo di arbitrio, sotto il profilo della eccessiva dilatazione della fattispecie penale, sarebbe tanto più evidente considerando come il riferimento può condurre ad un’applicazione della norma a situazioni di subordinazione psicologica del tutto lecite e spesso riconosciute e protette dall’ordinamento giuridico, quali il proselitismo religioso, politico o sindacale».

Il diritto penale dev’essere minimo («limitato al minimo indispensabile», scrisse la Corte nella sentenza 487/1989) e non infarcito di previsioni penali prive di tipicità e, quindi, destinate a cadere nella successiva verifica dibattimentale. Quando il legislatore nondimeno le pone è perché, come fu descritto in un rapporto del 1980 del Comitato europeo per i problemi criminali, «subisce spesso la pressione dell’opinione pubblica o di gruppi che lo spingono a reprimere certi fenomeni in- desiderabili» ma la loro efficacia è meramente simbolica. Si limitano, infatti, ad agire sul piano emotivo attraverso la stigmatizzazione di una condotta, ma – ecco la perdurante attualità del monito della Corte costituzionale – rischiano di mettere in concreto pericolo altri beni costituzionalmente tutelati: come, nel caso, la libertà di religione, sotto i profili del proselitismo e dell’adesione.

Un pericolo non necessario, perché le norme penali vigenti sono sufficienti per contrastare il fenomeno delle «sette», e al quale, tuttavia, ricorrentemente si espone l’ordinamento. Si registra una coazione a ripetere, per cui ho accolto ben volentieri l’invito della redazione di Freedom Of Belief, che perciò ringrazio.

Nicola Colaianni – Già consigliere della Corte di Cassazione e ordinario di Diritto ecclesiastico all’Università di Bari

NOTE

1 Si ringrazia per la gentile concessione di questo contributo la redazione di Freedom of Belief

Info sull'autore

aidlr