In numerose regioni del nostro mondo, vediamo amplificarsi e camuffarsi tensioni e conflitti, talvolta massacri e persecuzioni che trovano origine, o pretesto, nella semplice constatazione di una differenza, che può essere di colore, etnia, casta     o religione. Gli Stati non hanno sempre i mezzi per avvertire queste tensioni, per mettervi fine o per condannarle. Ci si può chiedere se talvolta non le utilizzino e non le incoraggino per accrescere il proprio potere o scoraggiare ogni opposi- zione al loro regime, fomentando l’escusivismo nei confronti della maggioranza dei loro abitanti e adulando così il comunitarismo, estremo pegno di coesione, purtroppo fondato sull’esclusione di tutti coloro che non fanno parte di tali comunità. Il periodo che attraversiamo, contrassegnato da grandi crisi economiche, politiche e sociali, favorisce l’utilizzo di queste pratiche populiste. È evidentemente più agevole indicare alle masse popolari dei capri espiatori, accusati di essere responsabili delle crisi di cui soffrono, piuttosto che porvi rimedio.

Questo fenomeno non è, ahimè, né nuovo né remoto: ha condotto, non molto tempo fa, al genocidio del Ruanda e alle carneficine della Bosnia; a metà del secolo scorso, vi fu lo sterminio degli ebrei e dei rom da parte dei nazisti; all’inizio del XX secolo, i massacri degli armeni; un secolo prima, quelli degli indiani d’America e degli aborigeni australiani, preceduti dalla schiavitù e dalla tratta generalizzata dei neri d’Africa. Inutile ricordare, nel XVI secolo, le devastazioni delle guerre di religione; nel XIII e nel XIV secolo, i roghi dell’inquisizione e le persecuzioni degli «eretici», le ecatombe delle crociate, ecc. In tutte queste violenze parossistiche, le religioni hanno avuto molto spesso un ruolo trainante. Ben lontano dal portare la pace, hanno attizzato gli odi e spinto all’intolleranza, all’esclusione, alla barbarie.

Può, quindi, sembrare vano o irrisorio interrogarsi sull’ideale di libertà religiosa, tolleranza, rispetto e laicità. Bisogna tuttavia farlo, per provare a comprendere senza scusare, per far scaturire dei «principi» che dovrebbero guidare la condotta degli esseri umani, almeno di quelli che, leggendo questa rivista, sono guidati da pensieri elevati e non settari, intolleranti o fanatici.

Religione e libertà – La problematica

Non si può non essere colpiti dall’immenso fossato che divide gli ideali e i nobili principi «ufficialmente» professati dalla maggior parte delle religioni o filosofie e la realtà vissuta «sul campo» dalle popolazioni che a esse si ispirano. Così, il cristianesimo, da una parte, e l’islam, dall’altra, si proclamano volentieri «religione dell’amore», la prima, e «religione dell’amore, della tolleranza e della pace», la seconda. Paradosso: in numerosissimi paesi, se non in tutti, i loro fedeli si sono affrontati e si affrontano ancora oggi senza affabilità; si ignorano e si disprezzano, quando non si dedicano addirittura alle varie persecuzioni, ai massacri, agli stermini massicci, nel nome stesso di queste religioni. C’è qui una contraddizione sulla quale conviene interrogarsi.

In quanto storico delle mentalità religiose dell’epoca medievale, e in particolare delle ideologie della violenza, affronterò lo studio di questo triste fenomeno da una prospettiva storica. Questo approccio «medievale» non è così inadatto come si potrebbe credere allo studio delle realtà contemporanee in materia di comportamento religioso. Sembra, in effetti, che oggi la maggior parte degli abitanti della terra condividano ancora (o di nuovo?) dei modi di sentire, di pensare e di agire che quasi non differiscono da ciò che si attribuisce generalmente a una «mentalità medievale», considerata a torto dalle «élite» occidentali – che ne ignorano spesso tutto – come desueta, superata, addirittura scomparsa totalmente. Ne risulta un nuovo fossato, elemento di incomprensione, che si situa, questa volta, non più a livello degli «attori», ma a livello degli «osservatori».

Questi ultimi, sociologi, storici, professori, giuristi, élite del giornalismo e dell’analisi politica, ecc., sono per la maggior parte figli della cultura occidentale e impregnati dei suoi valori, che giudicano universali. Anche se non ne sono figli,   ne condividono generalmente le idee e le mentalità. Per ciò che qui ci riguarda, questi valori si basano sulle nozioni di rispetto dei diritti dell’essere umano in quanto persona, dunque di libertà individuale e, in particolare, di libertà di co- scienza e di culto, cosa che implica concretamente la libertà di credere o di non credere, di scegliere liberamente la propria religione, addirittura di cambiarla, come avviene anche nella politica, dove non si tollera più molto, in ambienti «illuminati», l’idea di un partito unico, di un pensiero unico imposto a tutti gli abitanti dal potere costituito.

Questo atteggiamento, che si potrebbe definire «umanistico», non è purtroppo condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione del globo. Ancora oggi, come nel Medioevo, la maggior parte degli abitanti del nostro pianeta vive in condizioni molto diverse dalle nostre, e mal si adatta a questi concetti astratti. La Storia, con il passare dei secoli, ha messo in opera delle entità che consideria- mo spesso come di ordine politico o economico, ma che sono anche e soprattutto di ordine sociale, religioso, psicologico, in breve: dell’ordine delle «mentalità». Malgrado i mezzi mediatici moderni (la radio, la televisione e internet che diffondono immagini e modelli di consumo più di quanto non propaghino idee, e ancor meno ideali), rimane un divario che pure si accentua tra il mondo occidentale e il resto del pianeta.

Da oltre un secolo, e soprattutto da una trentina di anni, in effetti l’individualismo è diventato la regola nei paesi occidentali, almeno negli ambienti cosiddetti «intellettuali». Il resto del mondo, per contro, rimane profondamente chiuso in strutture sociali al tempo stesso più rigorose e più collettive, che portano a comportamenti che in Occidente attribuiamo al «comunitarismo»: strutture familiari, claniche, tribali, etniche, religiose nelle quali l’individuo è sciolto nella massa e alle quali è tenuto a conformarsi.

Al di là di un’infima parte delle loro rispettive popolazioni, questi due mondi avevano fino ai nostri giorni pochissimi contatti fra loro, per ragioni geografiche (lontananza) e culturali (comunicazioni a distanza rare e difficili). Non è più così oggi a causa, da una parte, delle forti correnti migratorie che creano comunità esiliate che ricreano, rinforzano addirittura, la propria specificità comunitaria; dall’altra parte, a causa della rivoluzione mediatica che diffonde dovunque notizie e disinformazioni, immagini culturali e pubblicitarie, idee e voci, mescolanza di scienza e di assurdità, pornografia, dibattiti, esibizioni e chiacchiere dei «blog» e delle «chat» su internet, ecc. Questi due fenomeni mettono oggi in contatto artificiale delle popolazioni che, pur condividendo numerosi tratti culturali comuni imposti dalla società universale di consumo (utilizzo delle tecniche moderne, gusti nell’abbigliamento, musicali, addirittura alimentari), rimangono tuttavia molto lontane le une dalle altre per «mentalità», per l’approccio e per l’interpretazione dei fatti di cui vengono a conoscenza, ma che imparano spesso in maniera opposta.

Ciò che è stato appena detto illumina in una certa misura le difficoltà nuove che incontra oggi l’inevitabile e crescente confronto tra persone che praticano religioni differenti. Ma alle cause antiche che già lo studio della storia rivela (e in particolare quella del conflitto tra «cristianità» e «islamismo» nel Medioevo – al centro della mia ricerca da una trentina di anni), si sono aggiunte oggi nuove dimensioni che ne intensificano considerevolmente l’ampiezza. L’intolleranza aumenta in seno ai grandi insiemi religiosi che, fino a ora, si sopportavano pur ignorandosi.

Le difficoltà «storiche» permanenti

Di fronte alle molteplici manifestazioni di intolleranza, di persecuzione, addirittura di barbarie commesse nel nome di Dio dalle religioni monoteistiche – che si richiamano, in definitiva, allo stesso Dio, qualunque nome gli si attribuisca -, alcuni storici, oggi, tentano di riabilitare il politeismo. Sottolineano, ad esempio, che la civiltà greco-romana, politeista, non era per nulla scioccata dall’apparizione di un nuovo dio, spesso incorporato senza problemi nell’insieme dei precedenti. È vero, ma questo significa anche dimenticare che l’impero romano ha osteggiato duramente i cristiani (tra gli altri), non perché adoravano un dio nuovo ma perché negavano di adorare altri dei, particolarmente la persona divinizzata dell’imperatore. Questo rifiuto, incomprensibile per i romani pagani, e in particolare per gli imperatori, era considerato come un atto di empietà, una negazione degli dei protettori di Roma, dunque una forma di inciviltà, di ateismo e di tradimento. Lo Stato romano politeista praticava così una tolleranza molto discutibile verso il monoteismo e un’intolleranza radicale verso un ateismo peraltro impensabile all’epoca, almeno per ciò che riguarda la massa della popolazione.

Il pericolo del totalitarismo religioso per la libertà e anche per la vita degli uomini non è scomparso con il trionfo del cristianesimo, o più esattamente con quello della Chiesa. Perseguitate durante i primi tre secoli della nostra era, le chiese cristiane hanno proliferato, dopo la conversione di Costantino, verso il 312, grazie alla protezione imperiale. Un secolo prima, Tertulliano poteva scrivere: «Il sangue dei cristiani è un seme di cristiani». La prospettiva cambia completamente in un impero romano diventato cristiano: all’impegno personale volontario e pericoloso succede ormai un’adesione proficua. Il numero degli adepti si moltiplica. Non è certo, per altro, che la loro fede ne guadagni in profondità.

Una cosa è in ogni caso sicura: la Chiesa, un tempo perseguitata, ben convive ormai con il potere politico, che cerca di mettere al suo servizio e al quale ricorre talvolta per fare tacere i suoi «dissidenti». Questa collusione tra religione e politi- ca è proprio al centro del problema di cui ci occupiamo. Essa raggiunge il suo parossismo nei regimi che, per assicurare il «trionfo della legge di Dio», non esitano ad adoperare la forza. Questa deriva fondamentalista, principale causa di violenze, appare in modo evidente quando si studia l’uso della forza armata nelle due principali religioni monoteiste, il cristianesimo e l’islam. Il caso è esemplare e illuminante.

Il cristianesimo originario era manifestamente pacifico e pacifista, secondo l’esempio di Gesù. Si può anche sostenere con argomenti che alcuni primi cristiani, negando categoricamente di versare il sangue anche nei casi di difesa dai propri persecutori, arrivavano talvolta perfino a offrire loro stessi, cercando così il marti- rio che credevano aprisse loro le porte del paradiso. Fanatismo, senza dubbio, ma che mette in pericolo solo la propria vita e non quella degli altri.

La conversione di Costantino cambia le prospettive. In un impero diventato «cristiano», la Chiesa romana non esalta più il rifiuto delle armi; tanto più che in Occidente l’Impero si vede minacciato dagli invasori germanici, per la maggior parte ariani. Con la sua conversione al cattolicesimo, verso l’anno 500, il re franco Clodoveo diventa il campione della Chiesa cattolica. Le sue vittorie sugli Alemanni, i Burgundi e i Visigoti, tutti ariani, rafforzano l’alleanza del papato con i regni sorti dallo smembramento dell’Impero romano. A poco a poco, con passi successivi, la Chiesa giustifica l’uso delle armi e valorizza i guerrieri che combattono per la sua causa e proteggono il suo clero così come i suoi beni. Questa valorizzazione conduce a una vera sacralizzazione di alcune guerre condotte per proteggere la Santa Sede, le chiese e i monasteri, e le popolazioni cristiane minacciate da diversi nemici, particolarmente dai «pagani» (o popoli considerati tali) che invadono l’Europa occidentale: normanni, ungheresi e «saraceni». Queste invasioni e i saccheggi che li accompagnano causano nella cristianità un’emozione molto concreta, amplificata ancora dagli ecclesiastici, in particolare dai monaci che ne sono le principali vittime (1). A metà del IX secolo, il papato, minacciato nella stessa Roma dai raid musulmani, chiama in aiuto i guerrieri dell’impero carolingio e arriva a promettere che quelli che periranno durante tali combattimenti saranno ricompensati in cielo da Dio.

La guerra giusta si tramuta così in guerra santa. Nell’XI secolo, questa idea si diffonde in Occidente. Si ammette allora che i guerrieri che muoiono con la spada in mano combattendo per difendere la cristianità contro i «nemici di Dio» ottengono le palme del martirio e sono accolti in paradiso. Mille anni dopo la morte di Gesù, la rivoluzione dottrinale è compiuta: si può diventare ormai un martire che muore con la spada, come nei primi tempi, ma questa volta con la spada in mano per uccidere un avversario demonizzato. La crociata segna l’apogeo di questa dottrina poiché chiama i cristiani, «in remissione» dei loro peccati, a liberare la chiesa di Gerusalemme dalle mani dei musulmani che si sono impossessati della regione. La guerra «santa» diventa «santificante». Il papato generalizza questa dottrina rendendo sacro ogni combattimento armato contro i suoi avversari pagani, eretici, scismatici, dissidenti e rivali politici. Le devastazioni dell’inquisizione fanno parte dello stesso movimento di pensiero. Derivano da questa accettazione dell’uso della violenza per difendere la fede, addirittura per propagarla.

Questa rivoluzione dottrinale in seno al cristianesimo occidentale si è operata lentamente: è durata un millennio (2). Non è la stessa cosa per l’islam. Contrariamente a Gesù che si è tenuto radicalmente lontano dal potere e ha rigettato ogni ricorso alla violenza e alle armi, Maometto è stato al tempo stesso un profeta religioso, un capo di stato e un capo di guerra. Non c’è nell’islam, fin dalle origini, nessuna reticenza di fronte all’utilizzo delle armi, e il profeta stesso, secondo la tradizione musulmana autentica, non esitò a predicare e a dirigere la guerra, a combattere e a promettere il paradiso ai martiri caduti in combattimento per la sua causa (3). Anche se ha accettato di fare uso della violenza, ciò non ha impedito all’islam di essere, nei fatti, più tollerante nei territori conquistati di quanto lo sia stato generalmente l’Occidente cristiano (4). Mediante il pagamento di una tassa di «protezione» e la sottomissione alle leggi dei vincitori nei loro Stati, ebrei e cristiani conser- varono il diritto di praticare la loro religione a patto di farlo senza ostentazione   né proselitismo. Una delle ragioni di questa relativa tolleranza è probabilmente il fatto che il messaggio del Corano rivelato a Maometto si presentava come il prolungamento e la restaurazione del messaggio predicato agli ebrei dai loro profeti e ai cristiani da Gesù. Si può paragonare grossomodo la situazione, nel Medioevo, degli ebrei e dei cristiani in terra dell’islam a quella degli ebrei nella cristianità: dei cittadini di secondo rango. La sorte di queste popolazioni «sottomesse» e «protette» rimaneva, malgrado tutto, meno peggio in terra dell’islam che nella cristianità, anche se non bisogna esagerare, come talvolta si tende a fare oggi, la tolleranza musulmana in quell’epoca, particolarmente in Spagna (5). Malgrado le sue lacune, questa tolleranza sembra essere stata tuttavia molto migliore di quella che regna oggi in molti paesi   musulmani.

Le condizioni nuove del nostro tempo

La relativa tolleranza del periodo medievale, particolarmente in terra dell’islam, era tuttavia abbastanza lontana da quella alla quale aspirano oggi i difensori della libertà religiosa nelle nazioni più avanzate. E che dire delle manifestazioni di intolleranza che si moltiplicano da alcuni anni in molti paesi del mondo, manifestando una vera e grave regressione in questo campo! Come spiegare un tale allontanamento tra i nobili ideali dei difensori della libertà religiosa e il comportamento penoso di cui fanno prova, nella realtà, le masse in così tante regioni? La stampa occidentale attribuisce volentieri questa intolleranza, questo fanatismo, queste estorsioni e questi massacri al rinnovamento religioso che si manifesta nel mondo, in gran parte a causa dell’insuccesso delle ideologie che hanno fino a oggi dominato, ad esempio il marxismo e il capitalismo. Per non rischiare di disturbare questo o quel gruppo religioso, e con una preoccupazione evidente di conformarsi al modello ricorrente del «politicamente corretto», si tende ad affermare che tutte le religioni si equivalgono perché tutte sono intolleranti; si stima che tali manifestazioni di violenza siano dovute a «integralisti» o a «fondamentalisti» di ciascuna di esse. Questa affermazione contiene una parte di verità: è chiaro, infatti, che i credenti «moderati» (che spesso si possono definire «moderatamente credenti») sono portati meno all’intolleranza rispetto ai fedeli che prendono sul serio le prescrizioni della loro religione. Alcuni autori vanno oltre e accusano in blocco tutte le religioni di essere fondamentalmente intolleranti. È spesso la posi- zione adottata dalle vittime di queste intolleranze (ad esempio, Taslima Nasreen), e le si può comprendere. Ciò equivale tuttavia ad ammettere che tutte le religioni, senza distinzione, sono in origine fondamentalmente cattive e che dunque devono essere rigettate nel campo del «male», ma ciò non è né giusto né saggio.

In altri termini, se è indubbiamente un male e funesto per la libertà seguire con rigore una religione intollerante, sarebbe in compenso completamente assurdo condannare per lo stesso motivo coloro che si sforzano di applicare con «integrità» nella loro vita dei precetti di tolleranza e di amore del prossimo, se questi precetti sono enunciati chiaramente nella loro religione. Il criterio di giudizio o di «scelta» di religioni, filosofie o correnti di pensiero non deve basarsi sull’intensità della devozione di cui sono oggetto, ma piuttosto sui loro obiettivi e sui loro principi. Ciò conduce allora a porre un certo numero di domande sui valori che sottendono alcune religioni e filosofie che oggi godono del favore delle popolazioni.

– Prima domanda, fondamentale: Quale può essere il valore morale di una religione imposta con la forza, la costrizione fisica, la pressione sociale, la tradizione clanica o le leggi di un Stato? Quale può essere il valore morale di un’adesione a una religione, qualunque essa sia, se la stessa adesione non si basa su una libera scelta? O ancora, se questa scelta, in un primo tempo esercitata liberamente da un fedele in un certo periodo della sua vita, generalmente durante l’adolescenza, non può essere più rimessa in discussione in seguito, quando l’individuo prenderà a poco a poco coscienza della propria esistenza e desidererà confermare il suo orientamento o cambiarlo? In altri termini, una religione che nega ogni dritto ai suoi seguaci di separarsi da essa per preferirne un’altra – o non sceglierne alcuna – non è, infine, una forma di alienazione mentale?

– Seconda domanda: Il valore di una religione deve essere misurato con il metro della sua notorietà e in base al numero dei suoi fedeli, qualunque siano i metodi adoperati per reclutarli? In ciò che riguarda la libertà alla quale teniamo tutti, il criterio di valore non dovrebbe essere il rispetto altrui, il rispetto dell’essere umano in quanto tale, in una parola: l’umanesimo? Come può una religione che pretende di amare Dio ammettere di uccidere? Come può usare violenza contro gli uomini per costringerli a rinnegare la loro fede, pena la perdita della vita?

– Terza domanda: La libertà di coscienza, di pensiero e di culto che le società avanzate hanno finito per conquistare con un’aspra lotta sull’oscurantismo e l’intolleranza, al prezzo di tante sofferenze e vite, è messa in pericolo a causa di un eccessivo compiacimento verso le religioni intolleranti? Domanda delicata, perché   si conoscono dei precedenti spiacevoli. Gli adepti di una religione intollerante possono difatti, nei paesi «liberi», utilizzare a loro tornaconto questa celebre frase: «Quando sono minoritario, rivendico la libertà nel nome dei vostri principi; là dove sono maggioritario, ve la rifiuto nel nome dei miei». A questo proposito, oggi si vedono numerosi esempi. Si pone dunque qui il problema della reciprocità. Essa è ben lontano dall’essere realizzata. È tuttavia un dovere delle società avanzate e democratiche mostrarsi fedeli ai propri principi, a costo di esserne molto male ringraziate. La questione della reciprocità si poneva già in epoca medievale. Nel 1219, durante la quinta crociata, Francesco di Assisi chiese di incontrare il sultano Malik al-Kamil nella speranza di convertirlo. Essendo la predicazione vietata in terra islamica, dovette il suo saluto solo alla mansuetudine, notevole per l’epoca, del sultano musulmano (6). Tre anni più tardi, Thomas di Chobham spiega questa interdizione. Scrive che numerosi principi e chierici, in guerra contro i saraceni, avevano concluso delle tregue con loro ed erano andati a trovarli per chiedere loro di accettare che i cristiani predicassero senza rischiare la morte. I saraceni risposero allora che lo avrebbero volentieri concesso se i cristiani avessero autorizzato anche i musulmani a fare liberamente la stessa cosa nei confronti dei cristiani. «I cristiani», continua l’autore, «decisero che in nessun caso avrebbero permesso ai saraceni di predicare da loro. Da questo derivò il fatto che i cristiani non predicano nella terra dei saraceni» (7). È questa interdizione di predicare la loro fede in terra islamica che giustificava in parte ai loro occhi l’intervento armato: solo la crociata permetteva la libertà di predicazione. Questi tempi «oscuri» sono fortunatamente passati e la predicazione dell’islam è autorizzata nella maggior parte dei paesi a maggioranza o di cultura cristiana. Si constata, ahimè, che la reciprocità non è vera e questo, al tempo stesso, conferma la regressione prima constatata e ripropone con acutezza il problema. In mancanza di questa equa reciprocità, l’intolleranza verso l’islam, finora manifestata in Occidente, rischia probabilmente di aumentare sotto l’influenza dell’esasperazione che risulta da una tale distorsione.

– Ultima domanda, in un elenco lontano dall’essere esauriente: La libertà accordata alle religioni nelle società democratiche deve essere senza limite? Si sa che oggi, per premiare i religiosi e calmare gli spiriti addolorati da certe vignette o da disegni umoristici non sempre di buon gusto, vi solo alcuni che esaltano l’interdizione… della Ciò parte da un buon sentimento, ma l’inferno, si dice, ne è lastricato! Perché, chi determinerà la natura della «bestemmia», se non il legislatore che proviene, nel migliore dei casi, dalla maggioranza (nei paesi democratici), nel peggiore, dal potere detenuto da una minoranza o da un qualsiasi dittatore che comanda i suoi sbirri? Il credente ebreo che nega la messianicità di Gesù sarà imputato di bestemmia a causa di ciò? Il cristiano, che non riconosce Maometto come profeta, sarà punibile per questo? E l’agnostico o l’ateo, che rigetta al tempo stesso ogni messianismo od ogni profetismo come menzognero o patologico, sarà chiuso o «curato» in qualche ospedale psichiatrico per essere riportato «sulla diritta via»? Chi non si accorge che tali derive conducono direttamente alla dittatura delle religioni più intolleranti?

I paesi democratici sono gli eredi dell’era dei Lumi. Bisogna che lottino per conservare questa eredità e poter affermare ad alta voce come, si dice, lo fece Voltaire: «Non sono d’accordo con ciò che dite, ma mi batterò affinché abbiate il diritto di dirlo».

Un tale atteggiamento è esportabile altrove che in una democrazia laica? La domanda merita perlomeno di essere posta.

JEAN FLORI – Storico, professore in lettere e scienze umane, ex direttore di ricerca presso il Cnrs (Centre d’études supérieures des civilisations médiévales). Articolo edito in Coscienza e Libertà 44/2010.

NOTE

1 Cfr. J. V. Tolan, Les Sarrasins: l’Islam dans l’imaginaire européen au Moyen Age, Aubier- Flammarion, Paris, 2002.

2 Cfr. J. Flori, La guerre sainte. La formation de l’idée de croisade dans l’Occident chrétien, Aubier-Flammarion, Paris, 2001.

3 Cfr. M. Tabari, La Chronique, Mohammed, sceau des prophètes, (trad. H. Zotenberg), Thesaurus, Paris, 1980, pp. 155-156; El-Bokhârî, L’authentique tradition musulmane, 36-51(trad. G. H. Bou- squet), Sindbad, Paris, 1964, pp. 175-178

4 Cfr. J. Flori, Guerre sainte, jihad, croisade. Violence et religion dans le christianisme et l’islam, (coll. Point d’histoire), Seuil, Paris, 2002.

5 Vedere su questo punto D. Urvoy, Pensers d’al-Andalus, ed. du C.N.R.S., Toulouse, 1991.

6 Su questo episodio molto interessante, vedere J. Tolan, Le saint chez le sultan. La rencontre de François d’Assise et de l’islam. Huit siècles d’interprétation, Seuil, Paris, 2007.

7 T. de Chobham, Summa de arte praedicandi, ed. F. Morenzoni, CCCM, n. 82, Brepols, Turnhout, 1988,  p. 86.

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