Provo un sentimento di distensione nel trovarmi qui ad Oslo, lasciandomi dietro le tensioni quotidiane generate dalla promozione e la tutela dei diritti dell’uomo, per riflettere con voi su una delle più fondamentali libertà: la libertà di religione e di convinzione.

Questo mi ricorda un fatto divertente successo un pomeriggio di maggio del 1997 all’ambasciata d’Irlanda a Londra. Vidi Kevin Boyle, co-redattore di A World Report on Freedom of Religion and Belief (Rapporto mondiale sulla libertà di religione e di convinzione), correre su per le scale per raggiungermi senza fiato e consegnarmi il suo rapporto nel giorno stesso della sua pubblicazione: «Ne avrà bisogno nel prendere le Sue nuove funzioni» mi disse. L’ho fatto scivolare nella mia valigia quando sono venuta a Ginevra nel settembre scorso. È il primo rapporto che si sia occupato della libertà religiosa e il pensiero secolare in più di cinquanta paesi del mondo e che tratti argomenti quali le relazioni tra gruppi di credenti e lo Stato, la libertà di manifestare le proprie convinzioni legalmente e praticamente, l’influenza delle convinzioni sullo status delle donne nonché la religione e la scuola. Questo rapporto dimostra purtroppo fino a che punto l’intolleranza, la discriminazione e i conflitti religiosi continuano ad imperversare nel mondo odierno.

Conviene dunque, in occasione di questo anniversario, riferirci alla visione che avevamo cinquant’anni fa.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo possiede, come altri documenti di simile importanza, un tale significato che si potrebbe ignorarne o dimenticarne gli antecedenti o le radici culturali. Considerando ciò che ha permesso di realizzare e il potenziale che ancora cela per una società più giusta e più equa, tale documento è da intendersi come il risultato di una storia lunga e complessa.

Un gran numero delle sue disposizioni specifiche, ivi comprese quelle che riguardano direttamente questa conferenza, cioè la libertà di religione e di convinzione, è stato oggetto di controversie accanite, non solo nel quadro dei dibattiti intellettuali e parlamentari, ma anche sul campo di battaglia.

L’evoluzione nella storia dei diritti dell’uomo nel corso degli ultimi cinquanta anni di interpretazione e di applicazione della Dichiarazione ha aperto a quest’ultima nuove prospettive e nuove sfide in un contesto culturale molto più diversificato di quello delle sue origini occidentali. In un discorso provocatorio pronunciato nello scorso marzo a Ginevra, in occasione di una manifestazione per la celebrazione di questo 50° anniversario, Vàclav Havel ha dichiarato: «L’importanza accordata a questo documento sui diritti dell’uomo ha contribuito a mettere fine alla divisione bipolare del mondo. Ha rafforzato i movimenti di opposizione dei paesi comunisti, che hanno preso sul serio gli accordi firmati dai loro governi, ed ha intensificato la loro lotta per l’applicazione dei diritti dell’uomo, rimettendo così in causa l’essenza stessa dei sistemi totalitari».

Poco dopo così espresse la sua visione personale: «Sono convinto che le radici più profonde di ciò che chiamiamo ora i diritti dell’uomo siano situate un po’ al di là di noi e un po’ al disopra di noi: ad un livello più profondo del mondo delle convenzioni umane, in un campo che definirei, per semplicità, metafisico. Anche se non sempre lo realizzano, gli uomini – le sole creature pienamente coscienti della loro esistenza e della loro mortalità, che percepiscono il loro ambiente circostante come un mondo e hanno una relazione interiore con questo mondo traggono il loro senso di dignità e di responsabilità da questo mondo percepito come un tutt’uno. È partendo da questo che definiscono il tema centrale del mondo, la sua struttura di base, il suo ordine, la sua direzione, la sua essenza, la sua anima – dategli il nome che preferite. I cristiani lo dicono in modo molto semplice: a quel livello, l’uomo è l’immagine di Dio. Il mondo è enormemente cambiato in questi ultimi cinquant’anni. Noi siamo oggi molto più numerosi sul pianeta; il sistema coloniale è crollato; la divisione bipolare del mondo è stata cancellata; la globalizzazione avanza ad un ritmo vertiginoso.   La cultura euro-americana, che ha fortemente segnato il carattere della civilizzazione attuale, non occupa più un posto preponderante. Stiamo entrando in un’epoca di multiculturalismo. Mentre il mondo evolve nel quadro di una unica civilizzazione globale, questa civilizzazione si fonda sulla coesistenza di numerose culture, religioni o sfere di civiltà le une e le altre uguali e potenti».

Non ci resta che sperare che queste sfide approfondiscano e incrementino il valore e la validità della Dichiarazione. Dopo tutto si tratta di un documento vivo, scritto al presente e destinato ad essere riesaminato e arricchito dalle riflessioni di ogni generazione.

La Dichiarazione è ora una questione tanto di speranza quanto di storia.

È la speranza che saprà far fronte alle sfide culturali e politiche. È prima di tutto la speranza di una comunità umana che potrà, vedendo realizzarsi completamente i suoi diritti, sbocciare nella giustizia, la pace e l’unità, in una diversità più profonda. Dopo cinquant’anni di sforzi supplementari per i diritti dell’uomo, forse i ritmi della speranza e della storia si saranno finalmente ravvicinati. Un diritto a lungo contestato: la libertà di religione e di convinzione.

Lo stretto legame tra religione e identità etno-politica ha sempre avuto un ruolo critico nella conquista dei diritti dell’uomo, nel corso della storia, tanto nella loro definizione quanto nella loro applicazione. È particolarmente vero per l’Europa dove questo legame ha portato a tutta una serie di guerre «religiose» particolarmente cruente, di cui ancora portiamo le conseguenze. Il fenomeno non è però solo relativo all’Europa o alle sue principali religioni. La tolleranza e la tutela di chi è religiosamente diverso non sono state pratica corrente nella storia dell’umanità. L’articolo 18 è uno degli articoli cruciali nella visione espressa dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ed è utile citarlo per intero: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto implica la libertà di cambiare religione o convinzione nonché la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione da solo o in comune, in pubblico o in privato, con l’insegnamento, le pratiche, il culto e l’adempimento dei riti». La Dichiarazione dell’ONU del 1981 sulla eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o la convinzione spiega in maniera molto dettagliata tutte le implicazioni dell’articolo 18, per le quali è stata creata la fun- zione di relatore speciale e che costituiscono il tema di questa conferenza. Vorrei ora insistere sull’itinerario storico constatabile che ha portato alla formulazione ben nota e priva d’emozione della libertà religiosa all’articolo 18. Insistendo su ciò, attiro l’attenzione sulla strada percorsa in questo come in altri campi.

Contemporaneamente questo deve servirci da guida circa la durata e la difficoltà del percorso da effettuare. La speranza dell’umanità di conoscere uno sviluppo nella comunione – che gli antichi Ebrei chiamavano shalom – dipende in parte dalla applicazione universale e reale della libertà di religione e di convinzione. Probabilmente non è presuntuoso aggiungere che la speranza dello sbocciare della religione è anche strettamente legata alla accettazione di questo principio di libertà.

La persona come fondamento e la comunità come contesto.

Come recita la formula, il linguaggio dei diritti dell’uomo amalgama le dimensioni personali e le dimensioni sociali. Una lingua è una costruzione sociale di cui prende possesso la persona. La ricerca della libertà personale e dell’eguaglianza sociale ha trovato voce e lingua nel discernimento creativo delle libertà e dei   diritti delle persone così come sono inserite nella comunità. Scoperta e costruzione si sono ravvicinate nel corso della loro articolazione. Alla base di questo processo di scoperta e di costruzione vi è la dignità e il valore dell’individuo, indipendentemente dal suo status sociale o dalla sua ricchezza, dalle sue qualità o realizzazioni personali. Questo individuo è anche, e non è possibile sfuggirvi, una entità sociale di modo che diritti e libertà assumono una dimensione sociale e incontrano anche inevitabilmente delle limitazioni sociali.

Il principio della dignità dell’individuo come lo si scorge nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e negli altri strumenti dell’ONU relativi ai medesimi, e come è stato tenuto in conto da assemblee religiose quali il Concilio Vaticano II, denota con molta evidenza una certa influenza occidentale filosofica e anche religiosa. Nondimeno è innegabile che esso può essere trascritto in lingue e culture molto diverse, anche se ci resta molto lavoro di trascrizione da fare. Quest’ultima implica un dialogo culturale in cui la comprensione del ruolo e delle relazioni della persona può essere riscoperta senza correre il rischio di una definitiva reciproca incomprensione. L’accento postmoderno messo sui particolarismi, con la sua critica dell’imperialismo, a volte nascosto, a volte evidente, dei valori occidentali, ha il merito di avvertire i popoli e le istituzioni occidentali dello spirito campanilistico delle loro proprie realizzazioni.

In effetti, questo imperialismo a cui così spesso tendono il linguaggio e le isti- tuzioni internazionali è di fatto uno spirito campanilistico che può impoverire o distruggere gli altri particolarismi e le loro potenzialità creative. Ma tali tendenze imperialistiche, che si accettano volentieri nei domini politico, economico, culturale e religioso, non sono insormontabili.

Un compito fondamentale per i difensori dei diritti dell’uomo e, in particolare, per i difensori della libertà religiosa, è di promuovere il dialogo tra culture e religioni. Per le religioni, generalmente, la dignità della persona è intimamente legata alla percezione e alla comprensione che si ha di Dio alla cui immagine gli uomini sono stati creati

Dialogo con e tra le religioni

Siccome la dignità della persona è per i credenti profondamente influenzata dalle loro convinzioni religiose, occorre allargare il dialogo tra le diverse religioni con le persone responsabili della promozione dei diritti dell’uomo, ivi compresa la libertà di religione e di convinzione. La visione che le religioni hanno della dignità umana e della sua relazione con questi diritti e soprattutto la loro riflessione sulla libertà religiosa contribuiranno ad arricchire e promuovere l’idea e l’ideale della libertà di convinzione.

Nondimeno, è quasi più importante sviluppare gli scambi tra le religioni stesse. Propagando la sua idea di un’etica globale, il teologo cattolico svizzero Hans Küng ha praticamente utilizzato la seguente espressione come slogan: «Niente pace tra le nazioni, senza pace tra le religioni». La riunione del Parlamento delle Religioni, che ha avuto luogo a Chicago nel 1993, ha cercato di promuovere la causa di un vero dialogo tra le religioni.

Si può interpretare e difendere la causa di un’etica globale in modi molto vari. Qualunque sia il modo utilizzato a questo riguardo, esso presenta molti punti in comune con la difesa dei diritti dell’uomo. Tenuto conto del rapporto tradizionalmente stretto tra la religione e la morale, i colloqui con e tra le religioni debbono creare uno spazio di mutua comprensione che rafforzerà la prospettiva di una accettazione globale dei diritti dell’uomo e di un riavvicinamento globale, condiviso da tutti, a numerosi problemi morali molto importanti. Un dialogo fruttuoso tra le religioni implica un sentimento di libertà e di uguaglianza che può essere garantito solo da una accettazione completa e sincera della libertà di religione e di convinzione.

Per questo motivo ho ritenuto un vero onore che il ministro degli Affari esteri iraniano mi abbia invitata nel suo discorso, in occasione della sessione della Commissione dei diritti dell’uomo a Ginevra, a formulare un commento della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo in una prospettiva o da un punto di vista islamico. Ho accettato di buon grado questo invito. Così sono state avviate strette consultazioni con l’Organizzazione del Consiglio islamico e con diversi paesi del mondo islamico allo scopo di riunire un gruppo di esperti in diritto islamico a Ginevra durante il mese di novembre. Si può sperare che l’insieme delle loro riflessioni andrà ad arricchire l’universalità dei diritti definiti dalla Dichiarazione, ma anche dei doveri, poiché, come ci ricorda l’articolo 29: «ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale solo il libero e pieno sviluppo della sua personalità è possibile».

Benefici e pericoli delle convinzioni fondamentali.

Le specifiche difficoltà legate alla libertà di religione e di convinzione, che hanno a lungo impedito ogni dialogo interreligioso, dipendono senza alcun dubbio dal fatto che le convinzioni religiose o l’assenza di tali convinzioni si riferiscono a temi e a punti di vista molto profondi. Le questioni sollevate sul senso della vita, umana e cosmica, sull’origine e il destino della vita e dell’amore umano, le stesse questioni poste dalla religione, le posizioni adottate e i tentativi di risposta colpiscono profondamente il credente e il non credente.

A livelli diversi, la profondità delle questioni e delle risposte prende un carattere liberatorio. I credenti e gli atei sinceri imparano a relativizzare le innumerevoli banali distrazioni della società consumistica.

A contatto con i grandi misteri della vita, la persona si libera di molte piccole distrazioni. Soprattutto per i credenti, la fede, in ciò che ha di meglio, è intesa come una liberazione progressiva nella misura in cui essi scoprono certi aspetti della verità e che solo la verità rivela. Anche per gli atei, o meglio per coloro che difendono una convinzione fondamentale diversa da quella legata a un dio, esiste questo sentimento di verità liberatrice. Questo è il beneficio di una convinzione fondamentale, essere all’origine di una liberazione nella verità. In compenso, il pericolo è che il credente o l’ateo stimino di possedere la verità completa e cerchino dunque di imporla agli altri. II credente o l’ateo fondamentalista diventano un sostituto di Dio. Egli è insieme dominato dalla sua versione della fede e cerca a sua volta di dominare gli altri. È esattamente il fenomeno di dominio a cui si assiste nelle sette, il proselitismo e altre pratiche religiose e antireligiose distruttive che hanno così spesso sfigurato il mondo. La vocazione del credente e dell’ateo è di battersi affinché le convinzioni fondamentali con   il loro potenziale liberatorio non si trasformino in caricature, sotto forma di sistemi fonda- mentalisti e autoritari. Non è in questo modo che si otterrà una autentica libertà religiosa.

Libertà religiosa e privazioni sociali

I diritti dell’uomo formano una unità; tutti insieme costituiscono una protezione per l’umanità intera. La libertà di religione e di convinzione non può sbocciare quando altri diritti sono violati. È evidentemente il caso della libertà di espressione e di riunione e di tutti gli altri diritti politici e civili.

Questo è vero anche relativamente ai diritti sociali ed economici. Ignorandoli o violandoli, si restringe ugualmente il libero esercizio dei diritti personali, ivi compresa la libertà di religione o di   convinzione.

Fine del multiculturalismo

D. Cameron esprimeva disappunto perché il cosiddetto «multiculturalismo di Stato» aveva finito per incoraggiare le culture differenti a vivere separate, piuttosto che a integrarsi e a creare un’identità collettiva.

Per reagire a questo stato di cose, D. Cameron propone il liberalismo muscolare. La formula indica il bisogno di un’azione politica forte, che ponga al centro l’identità   della maggioranza sempre più minacciata dagli immigrati. Secondo D. Cameron, la tolleranza passiva tipica del multiculturalismo e la neutralità dello Stato, tra diverse concezioni del bene e opzioni etiche, devono essere abbandonate in favore di un at- teggiamento che ribadisca la centralità dei valori morali e politici della maggioranza. Al fine di integrarsi adeguatamente, gli immigrati devono parlare la lingua del paese   in cui vivono ed essere educati secondo la cultura e i valori della maggioranza.

Ritengo che il liberalismo muscolare non sia un’alternativa praticabile. A esso si possono muovere due obiezioni che finiscono per minarne sensibilmente la plausibilità. La prima obiezione è di tipo filosofico. Ai presunti problemi creati dal multiculturalismo, il liberalismo muscolare oppone il «tentativo di rinforzare una particolare visione monoculturale dell’identità nazionale» (1). Tuttavia, siamo sicuri che, nelle condizioni attuali, sia possibile avere una nozione monoculturale dell’identità nazionale? È possibile, in altri termini, negare il fatto della diversità culturale che caratterizza, indipendentemente dall’immigrazione, le democrazie occidentali? Una nozione monoculturale dell’identità nazionale implicherebbe l’esistenza di un’unica cultura, rigida, unitaria immodificabile e indiscutibile. Questo trascurerebbe che, come ci ha insegnato la filosofa Martha Nussbaum, lo scontro non è solo tra le culture e le civiltà, ma anche dentro. Ogni cultura, soprattutto quelle che fioriscono all’interno di contesti liberal democratici, ospita una grande varietà di significati, valori e concezioni difficilmente riconducibili all’unità.

Quando si discute di cultura e di gruppi culturali bisogna evitare di cadere nel cosiddetto essenzialismo. Chi vede le culture in termini essenzialisti, come ha scritto Anne Phillips, «esagera l’unità interna delle culture, solidifica le differenze […] fa in modo che le persone che appartengono ad altre culture sembrino più esotiche e differenti di quanto siano realmente» (2). La cultura e i gruppi culturali non devono essere visti come entità immutabili, monolitiche e omogenee. Le culture sono, infatti, entità fluide, diversificate al loro interno, sempre soggette al mutamento in risposta all’evolversi delle circostanze, e percorse da dissensi più o meno profondi.

Dunque, dato questo quadro, la concezione monoculturale dell’identità nazionale associata al liberalismo muscolare darebbe un quadro eccessivamente semplicistico della realtà. Inoltre, così facendo, si rischia di sottovalutare il ruolo che le minoranze, nello specifico gli immigrati, hanno avuto nel processo di definizione e ridefinizione dell’identità nazionale (3).

La seconda obiezione (non del tutto indipendente dalla prima) che si può muovere al liberalismo muscolare è di tipo politico. Il liberalismo muscolare, a mio avviso, è troppo esigente dal punto di vista politico, nel senso che chiede troppo alle minoranze. Nel discorso del 2011, D. Cameron non si limita a pretendere che tutti i cittadini, sia quelli appartenenti alla maggioranza sia le minoranze di immigrati, obbediscano alla legge. Il premier britannico si spinge ad affermare che bisogna credere nei valori liberali, come ad esempio la libertà di parola, la democrazia e il governo della legge. Tuttavia, come ha osservato Christian Joppke, questo comporta il collasso della distinzione kantiana tra diritto e moralità (4). Lo Stato liberale, tradizionalmente, si limita a esigere che i comportamenti dei cittadini siano conformi a quanto la legge stabilisce. Le credenze e le convinzioni di ciascuno, da un punto di vista liberale, non dovrebbero essere il dominio sul quale si esercita direttamente il potere politico. Uno Stato liberale, in altri termini, dovrebbe interessarsi soltanto alla condotta dei cittadini, non a cosa essi credono. Ad esempio, un cittadino dovrebbe poter essere libero di avere delle credenze di stampo conservatore per quanto riguarda la sessualità, a condizione di non commettere azioni illegali nei confronti degli omosessuali.

In conclusione, se le riflessioni sulla crisi del multiculturalismo e le obiezioni al liberalismo muscolare sono plausibili, tutto il discorso recente sul multiculturalismo e la sua crisi va riconsiderato. La diversità culturale è un fatto ineludibile, che caratterizza le società liberal-democratiche contemporanee. È un fatto al quale le istituzioni politiche devono dare una risposta adeguata. La diversità culturale va accomodata senza cercare inutili scorciatoie come quelle richieste dal liberalismo muscolare. Lo Stato liberale, per tener fede ai suoi principi tradizionali, non deve imporre credenze e concezioni controverse su ciò che ha valore nella vita, ma limitarsi a rendere possibile la coesistenza pacifica di gruppi culturali, etnici e religiosi diversi. In particolare, l’eguaglianza non deve essere interpretata come uniformità, per cui bisogna riconoscere che non c’è un’unica forma di appartenenza alla comunità politica. A ogni individuo, fatti salvi i requisiti della coesistenza pacifica e il rispetto per i diritti fondamentali di ciascuno, deve essere riconosciuto il diritto di coltivare i propri valori e le proprie credenze, sia come individuo sia come appartenente a un gruppo culturale, etnico o religioso.

MARY ROBINSON – Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo. Articolo edito in Coscienza e Libertà 35/2001.

Note

1 M. Ossewaarde, «The National Identities of the “Death of Multiculturalism” Discourse in Western

Europe», Journal of Multicultural Discourses 9 (2): 1-18, 2014.

2 A. Phillips, Multiculturalism Without Culture, Princeton, 2007, p. 14.

3 A. Triandafyllidou, Immigrants and National Identity in Europe, Routledge, 2001.

4 C. Joppke, «The Retreat is Real – but what is the Alternative?», Constellations, 21(2), June 2014, p. 291.

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