Come ricordò, a inizio secolo, Emanuele Severino (che richiamava la Storia dell’ateismo di Georges Minois), Nietzsche, a fine Ottocento, aveva messo in evidenza la “necessità” che impone di affermare: “Dio è morto”, mentre, oltre sessant’anni prima, Giacomo Leopardi aveva già scritto che Dio era “distrutto”. Severino ricordò anche che, se negli anni Cinquanta del Novecento la Chiesa aveva combattuto l’ateismo del comunismo marxista, agli inizi del secolo XXI combatterà “le forme più pericolose di ateismo: … organizzazione capitalistica della società”, separazione tra libertà e “verità di Dio …, crescente potenza della tecnica… relativismo e agnosticismo della filosofia … profitto come scopo supremo dell’attività economica”, soddisfazione “delle antiche aspirazioni dell’uomo” in questa terra, “senza dover attendere l’avvento del Regno celeste” (Corriere della Sera, 11.09.2000).

Cinquant’anni prima Pio XII (12.01.1950) aveva pubblicato l’Enciclica “Combattere la propaganda ateistica”, che non aveva però previsto né la crescita dell’“ateismo pratico”, né la forte diffusione di “sette, religiosità e new age, astrologi, cartomanti, occultisti”. Tra il 1987 e il 1991 verrà costituita l’UAAR. Consiglio, a ogni fine utile, l’opera di Michel Onfray, Traité d’athéologie (Paris, 2005), sempre valida per orientarsi, da lui definita “una parola atea nel concerto dei Canti Gregoriani”, da non confondere con il “nichilismo”.

Segnalo, in proposito, una recente ricerca di grande importanza che, sulla base di una approfondita indagine (IPSOS), che ha coinvolto un ampio campione nazionale (oltre 3200 casi tra i 18 e gli 80 anni), evidenzia come negli ultimi venticinque anni la quota di popolazione che ammette l’esistenza di Dio sia passata dall’82% del 1994 al 75% di oggi, con un 40% di persone “che esprimono un credere dubbioso e precario” e con un 24% di italiani che negano la presenza di Dio e di ogni trascendenza. Tra i giovani, inoltre, il 95% dei 18-34 anni dichiara di non credere in Dio, a fronte del 24% dei 35-40enni, con un aumento tra i laureati. L’autore, Franco Garelli, evidenzia la forte crescita, negli ultimi decenni, delle persone che si dichiarano “senza religione” o “senza Chiesa”, e che sono passate dall’8,8% a metà degli anni novanta del ’900, al 16% di oggi, ma che “hanno i loro valori e le loro visioni della realtà da difendere e promuovere” (F. Garelli, Gente di poca fede, Bologna, 2020, ma si veda anche ID., Piccoli atei crescono, Bologna, 2016).

Un importante teologo francese, Dominique Collin, in un saggio su una delle più importanti riviste cattoliche italiane (“Vita e Pensiero”, n. 5, 2020), sostiene che “il mondo è rimasto pagano e lo diventa ancor più grazie al trasferimento della tecnica del sacro” (e non l’inverso, come aveva ben capito Jacques Ellul), mentre il cristianesimo si ritrova «nudo», senza né «mondo» né «senso». … Siamo entrati in un’epoca «fatale», perché ormai “è l’inevitabile che detta legge”.

Le trasformazioni della geografia etnica e religiosa dell’Europa degli ultimi settanta anni, hanno aperto la strada alla tutela delle diversità come componente essenziale del principio di uguaglianza, ma hanno messo anche alla prova la neutralità degli ordinamenti e delle istituzioni, la coesione sociale, la sicurezza e, in alcuni casi, la stessa convivenza pacifica. In Italia, dopo il primo (2009) e il secondo (2012) “Rapporto sull’Italia delle religioni” di Naso e Salvarani, nel 2013 è stata pubblicata la nuova edizione della “Enciclopedia delle religioni” del Cesnur (curata da M. Introvigne e P. L. Zoccatelli), che censisce l’esistenza di 836 denominazioni e l’appartenenza a religioni di minoranza del 7,6% dei presenti sul territorio, con quasi 5 milioni di non cattolici, ed è stato presentato un articolato e imponente rapporto socio-demografico (coordinato da E. Campelli) sull’ebraismo italiano (oggetto nel 1976 del fondamentale studio di Della Pergola).

Sono inoltre apparsi i risultati della ricerca interuniversitaria diretta da Enzo Pace (“Le religioni nell’Italia che cambia. Mappe e bussole”, Roma, 2013), che ha individuato, con rigorosi criteri metodologici, i luoghi di culto e i profili dei rispettivi “ministri” delle realtà religiose, in gran parte nuove, incentivate dai crescenti flussi migratori (si parla di 189 diverse provenienze), senza trascurare, ovviamente, quelle storicamente radicate nell’Italia cattolica (ebrei, valdesi). Emerge con chiarezza tutta la complessità di una società religiosa, sempre più multietnica, che modifica e diversifica, anche al suo interno, le diverse aggregazioni confessionali prese in considerazione: ortodossi di diversa obbedienza patriarcale e nazionale, sikh, musulmani, induisti, buddisti e altri culti “asiatici”, neopentecostali e carismatici africani, protestanti, evangelici, avventisti, pentecostali (che nel 2025 saranno nel mondo circa ottocento milioni, mentre la metà dei cinquantadue milioni di ispanici cattolici che vivono negli Usa sarà evangelica), testimoni di Geova, mormoni, ebrei. Nel maggio 2013 si è tenuto a Lione il primo sinodo della Chiesa protestante unita di Francia per celebrare la fusione tra calvinisti e luterani – indotta proprio dalla preoccupazione di fronteggiare la sfida neo-evangelica – e in aprile la Conferenza dei vescovi tedeschi, insieme al Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, organizzò a Roma una conferenza sui nuovi movimenti religiosi cristiani per valutare la crescita della cristianità mondiale dovuta principalmente a tali movimenti, che secondo alcuni studi (Jenkins, Baylor University) rappresenterebbero oltre 580 milioni di fedeli.

Di particolare interesse, nella ricerca curata da Pace, gli “studi di caso”: Torino, Bologna, Roma, Palermo, Castelvolturno con le sue chiese evangeliche africane, Mazara del Vallo con i suoi tunisini, i Tamil dello Sri Lanka in Emilia-Romagna e Sicilia, gli immigrati cattolici di diversissime provenienze, con i loro “cappellani etnici” e i loro Centri pastorali ecclesiastici distribuiti su tutto il territorio. è di grande rilievo la “mappatura” di edifici e luoghi di culto o di preghiera che mette in evidenza la vastissima casistica, la difficoltà di ricostruire il nuovo panorama religioso in tutta la sua complessità (centri religiosi, culturali, sociali, assistenziali) e l’importanza delle rilevazioni empiriche.

Da ricordare anche l’analisi delle trasformazioni delle nuove generazioni talvolta in conflitto familiare e che mettono in discussione “ciò che è tradizione e ciò che è religione” le conclusioni di Pace, una preziosa “Nota metodologica” di Schiavinato e l’appendice con la mappa degli insediamenti. Non è possibile in questa sede citare gli autori delle dodici sezioni dell’opera, ma si tratta di specialisti di altissimo livello che riescono a far parlare le statistiche (dovute in massima parte alle indagini Caritas-Migrantes), integrandole con dati storici e con contatti diretti, verifiche anagrafiche dei referenti e della diffusione, e mettendo in luce “i tratti distintivi e le articolazioni interne delle principali fedi religiose” grazie, appunto, alla “mappatura dei loro luoghi di culto” visibili, che ne rappresenta, con una prima “istantanea”, la dislocazione e la densità a livello nazionale, regionale e comunale e che mette in evidenza il cambiamento, dal punto di vista delle credenze, di un’Italia dove “lo stesso cattolicesimo conosce contaminazioni inedite e inattese” grazie alle migrazioni e anche alla presenza di “circa duemila parroci non italiani che hanno coperto i buchi lasciati dal calo delle vocazioni e dall’invecchiamento del clero” nazionale (Pace), come a quella di quasi novemila suore straniere e di 967 novizie straniere rispetto a settantamila suore italiane e a 288 novizie italiane (dati Usmi e Cum, 2012). Del tutto inedita e inattesa, comunque, la “prossimità” sul territorio di “religioni un tempo considerate lontane” che, “nel giro di soli venti anni”, ha trasformato il panorama confessionale: “da Paese a maggioranza cattolica l’Italia sta diventando una società caratterizzata da una diversità molto articolata e del tutto inedita”, vicina, rispetto ad altri paesi europei, alla realtà della Gran Bretagna, dove il censimento del 2011 ha registrato la diminuzione dei cristiani, che, in dieci anni, sono calati del 10% e che nel prossimo decennio potrebbero diventare minoranza, e l’aumento del 75% della presenza dei musulmani, la metà dei quali minori di venticinque anni. Sottolineerei quanto segue:

  • la crescente presenza degli ortodossi (con circa 500 parrocchie) che ormai affiancano l’Islam come seconda religione del nostro paese con prevalenza, però, del sentire nazionale su quello religioso e che fruiscono per il 73% di sedi concesse dalla Chiesa cattolica;
  • gli inediti dati sul sikhismo, privo ancora di riconoscimento giuridico, che si sta consolidando e che sta moltiplicando luoghi di culto e centri socio-culturali soprattutto in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto;
  • le peculiarità dell’islam italiano, con le sue diversificate provenienze e organizzazioni (Ucoii, Cii, Coreis ecc.) che non permettono di parlare di un contesto confessionale omogeneo per gli oltre 1700 fedeli (in parte di seconda generazione e con nuclei di italiani convertiti) diffusi su tutto il territorio, ma soprattutto nel Nord, i cui luoghi di culto passano dai 351 del 2000 agli oltre ottocento di oggi;
  • lo sviluppo di gruppi e tradizioni che si rifanno a esperienze religiose e spirituali asiatiche alle quali si avvicinano anche italiani (l’Unione buddista ha concluso l’intesa con lo Stato, in vigore dal 2013, a Roma sta per nascere una grande pagoda e il monastero tibetano di Pomaia (PI), visitato più volte dal Dalai Lama, sussiste dagli anni Settanta);
  • l’esplosione di chiese pentecostali e carismatiche, nuove come quelle africane o di più antica presenza come le Assemblee di Dio, che a metà degli anni Quaranta del  Novecento contavano già 250 centri e che hanno stipulato l’intesa, ex art. 8 Cost., con lo Stato fin dal 1986;
  • le tremila congregazioni dei testimoni di Geova, con 1300 “Sale del Regno” e circa 250mila evangelizzatori;
  • il rapido radicamento dei Mormoni (con intesa dal 2012 e con un imponente tempio inaugurato a Roma nel 2019) e la vitale presenza delle antiche e radicate chiese valdesi (che registrano un incremento delle firme per il cosiddetto otto per mille ben superiore ai loro fedeli) e di quelle battiste, metodiste, avventiste e luterane, tutte “dinamizzate” dall’immigrazione (R. Ricucci, Diversi dall’Islam. Figli dell’immigrazione e altre fedi, Bologna, 2017) e alle quali l’intesa con lo Stato ha consentito nuovi positivi sviluppi anche sociali;
  • i secolari insediamenti (ventuno comunità) degli ebrei d’Italia (circa ventiquattromila) decimati dallo “sterminio”, ma in forte ripresa culturale e religiosa (l’intesa del 1987 ha avuto conseguenze del tutto positive) nonostante la diminuzione della loro popolazione e le sfide della modernità (la citata indagine Campelli esplora, tra l’altro, il significato del sentirsi ebrei e i motivi di divisione interna);
  • il peculiare fenomeno dei “cattolici immigrati” con i loro diversi riti, culture e strutture, i cui 650 “Centri pastorali” (in parte parrocchiali, in parte inseriti in parrocchie esistenti) sono più che raddoppiati tra il 1999 e il 2019 e si articolano per riti, nazionalità o etnie/lingue, “contaminando”, in un certo senso, il cattolicesimo della tradizione. Una sfida, la situazione multiconfessionale, documentata dalle indagini ricordate all’inizio, che mette alla prova il principio costituzionale di uguaglianza e impone ai poteri pubblici, privi di una legge organica sulla libertà religiosa, ma obbligati a riconoscere e gestire la crescente diversità religiosa con il sistema delle “intese” positivamente sperimentato nell’ultimo quarantennio che era stato definito dai costituenti (art. 8 Costituzione) per un ben diverso e più circoscritto panorama confessionale (l’8% della popolazione sarebbe credente in fedi diverse dalla cattolica). Ma che, proprio per la sua elasticità di fondo, è in grado, più di sistemi in vigore in altri Stati dell’Unione Europea, di gestire la crescente diversificazione delle appartenenze confessionali o filosofiche. Infatti, al di là del principio generale di uguaglianza senza distinzioni su base religiosa (art. 3), delle garanzie della libertà religiosa individuale e collettiva (art. 19) e del divieto di limitazioni legislative o gravami fiscali per istituzioni con fine di religione o di culto (art. 20), la Costituzione, con il suo art. 8, garantisce l’uguale libertà di tutti i culti e la loro autonomia statutaria e prevede che, con il sistema delle intese bilaterali tra Stato e confessioni religiose, si possa tener conto e valorizzare la specificità delle molte, nuove denominazioni, tutte “uguali” ma tutte “diverse”, non più gestibili con la sempre vigente legge fascista n. 1159 del 1929 sui “culti ammessi” (si veda E. Pace, Le religioni nell’Italia che cambia, Roma, 2013). A più forte ragione, quindi, appare ancora più urgente e necessaria l’approvazione di quella legge generale e organica sulla libertà religiosa che il Parlamento italiano non riesce, da circa 30 anni, a discutere e approvare (L. De Gregorio, La legge generale sulla libertà religiosa. Disegni e dibattiti parlamentari, Piacenza, 2012).

Veramente opportuna, quindi, la pubblicazione recente del Codice europeo della libertà di non credere (Nessun Dogma, Roma, 2020) curato, con grande impegno e competenza, da Silvia Baldassarre, ben più di una raccolta di norme sulla libertà di non credere nell’Unione Europea e nei paesi che ne fanno parte perché le fonti riprodotte sono accompagnate da specifiche premesse e da appropriati commenti, essenziali per superare quella “sorta di gerarchia” che, in molte società secolarizzate, continua a subordinare la libertà “dalla religione” alla libertà “di religione”, per cui “l’equiparazione teismo/ateismo risulta ancora più formale che sostanziale”.

Dopo aver analizzato gli standard internazionali e comunitari di garanzia della non-credenza e la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, l’autrice ha evidenziato lo status giuridico dei non-credenti nei Paesi fondatori della UE e poi in quelli entrati gradualmente a far parte dell’Unione stessa. Pertinente e opportuna la contestualizzazione storico-politica dei diversi ordinamenti giuridici e l’attenzione specifica alla funzione (essenziale) della normativa internazionale ed europea per il riconoscimento del diritto alla non-credenza, individuale e collettivo, in un contesto storicamente caratterizzato da confessionismi formali (le “religioni di Stato”) o, comunque, sostanzialmente diffusi. Si pensi che in Italia si è dovuta attendere la riforma dei Patti del Laterano del 1984-85 per vedere formalmente abrogato il principio della religione cattolica-religione dello Stato sancito, alle origini, dallo Statuto Sabaudo del re Carlo Alberto (1848). Utile anche la scelta dei principali “ambiti”, giuridici e sociali, che consentono di mettere in evidenza, nei diversi Stati, le categorie della laicità e dei diritti, individuali e collettivi, dei non-credenti e dei credenti in quelle categorie “spirituali” definite dal diritto dell’UE “filosofie”, equiparate formalmente alle credenze di religione solo in Belgio, Paesi Bassi, Germania, Slovenia, Estonia, Bulgaria e Polonia. Del resto, continua a mancare nel diritto UE e in quello dei paesi membri, una specifica e comune definizione sia delle religioni, sia delle c.d. filosofie. E va tenuto presente che l’antico principio della “separazione” tra lo Stato e le confessioni religiose è, ovviamente, operativo anche nei confronti delle non-credenze e delle “filosofie” organizzate.

Senz’altro opportuni gli ambiti scelti per valutare la laicità degli Stati e la condizione giuridica dei non-credenti e delle loro eventuali “associazioni” anche alla luce delle numerose disposizioni del diritto internazionale che, fin dai trattati della Società delle Nazioni (si veda, in proposito, l’opera di D. Ferrari, Il concetto di minoranza religiosa dal diritto internazionale al diritto europeo, Bologna, 2019), garantì i diritti “umani” di libertà e il legame tra questi diritti e quelli delle minoranze, ovviamente anche “filosofiche”, nonché il principio fondamentale di “non-discriminazione” che si applica a gruppi di cittadini i quali, leali verso lo Stato di appartenenza, intendono mantenere le proprie “tradizioni e caratteristiche” confessionali o “coscienziali” nel rispetto della “dignità della persona umana” (Habermas, 2010). In fondo, lo stesso pontefice Benedetto XVI ha dichiarato, nel 2006, che “il mondo della ragione e il mondo della fede, della razionalità laica e del credo religioso, hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero temere di entrare in un profondo e stabile dialogo per il bene della nostra civiltà” (Westminster, settembre 2010). Non direi, invece, che l’ateismo possa essere confuso con la “globalizzazione dell’indifferenza”, più volte stigmatizzata da papa Francesco, e che sia accettabile la definizione di “idolo fabbricato dall’uomo” coniata dalla Commissione teologica internazionale.

Ciò non elimina, ovviamente, le difficoltà che, nei diversi paesi UE, l’ateismo organizzato continua a incontrare nello svolgimento delle proprie attività e nel riconoscimento dei diritti collettivi di libertà di coscienza e “convinzione”, in gran parte discriminati rispetto a quelli tradizionali di libertà confessionale, anche in sistemi giuridici formalmente ispirati al principio di laicità che, come appare evidente dal “Codice”, viene “declinato” nei diversi Stati sulla base di tradizioni storiche e filosofiche “identitarie” che rendono difficile la definizione di un “paradigma europeo di laicità”, nonostante la chiara previsione del primo comma dell’art. 17 TFUE.

Certamente opportuna l’individuazione della progressiva “declinazione” del generale paradigma delle “convinzioni” che ha ricompreso “una pluralità di definizioni”, le quali solo di recente sono giunte a formule chiare e specifiche che, peraltro, non consentono ancora di individuare giuridicamente le garanzie della “libera formazione ed estrinsecazione” delle coscienze individuali e di attestare il superamento di quello che Jemolo definiva il “confessionismo di costume”, sopravvissuto anche in ordinamenti laici e separatisti, per non parlare dell’esistenza di alcune “Chiese di Stato”. Utili, i documenti raccolti nel “Codice”, anche per rileggere analiticamente e criticamente le “laicità di Stato” e le “neutralità” di alcuni paesi membri.

Altrettanto problematica, ancora, la libera manifestazione, individuale e collettiva, della non-credenza in alcuni di tali paesi che stentano ancora a “riconoscere” a quelle “organizzazioni filosofiche e non confessionali” libertà e diritti equiparabili a quelli da tempo accordati alle confessioni religiose negli ordinamenti degli Stati europei. Né è facile immaginare una partecipazione di tali organizzazioni all’ormai molto apprezzato “dialogo” tra le “organizzazioni confessionali”. Si aggiungano le molte ricerche scientifiche (ad esempio di Adam Gopnik) sulla crisi del liberalismo negli USA – confermata dalle recenti elezioni presidenziali – che, ad avviso di chi scrive, non risparmia l’Europa sempre più preoccupata dalla crescente presenza di immigrati non europei e timorosa del mutamento del tradizionale stile di vita che potrebbe derivare anche da presenze nuove, sia religiose sia filosofiche, difficilmente ammissibili al ricordato “dialogo” filosofico-confessionale, ma anche a quello “politico-culturale”.

D’altro canto, appare evidente, anche dalle fonti raccolte nel Codice, la persistente difficoltà di individuare, a livello nazionale ed europeo, una definizione comune sia delle religioni in quanto tali, sia delle confessioni come attori delle realtà culturali, politiche e istituzionali dei paesi membri e dell’Unione. Definizione che, comunque, non si ritrova neppure a livello di organizzazioni internazionali come ONU e Unesco, stante la profonda diversità degli ordinamenti degli Stati che ne fanno parte e che ha reso e rende sempre difficile la “declinazione di un paradigma internazionale o comunitario” della non credenza.

Non penso, comunque, che anche gli Stati che fanno della laicità un “principio supremo” dell’ordinamento giuridico, siano in grado di eliminare ogni discriminazione – spesso storicamente fondata – nei confronti di confessioni religiose minoritarie e, ovviamente, delle “organizzazioni filosofiche” di atei, razionalisti e non credenti (anche  nell’ateismo).  Non  è  un  caso  che  P.  Consorti parli  di  “laicità  frammentata” (Diritto e religione, Bari-Roma, 2020). Il caso dell’islam, in molti dei paesi europei, è di tutta evidenza, mentre non è stata ancora superata, per quanto concerne l’UE, la scarsa univocità di formule come quella dell’art. 17 TFUE e la necessità di definire forme e contenuti del previsto “dialogo” con le rappresentanze delle confessioni religiose e delle organizzazioni filosofiche, privo anche di regole che individuino oggettivamente e non discrezionalmente gli attori del “dialogo” stesso, a prescindere da regole nazionali specificamente dettate dalla storia e dalla realtà dei singoli Stati.

Richiamerei, anche, la situazione dell’Italia, uno Stato in cui, com’è noto, e come è messo in luce nel “Codice”, la “questione dell’ateismo” ebbe inizio, a livello dottrinale, con la discussione provocata dalla nota sentenza del Tribunale di Ferrara, 31 agosto 1948 (che in una causa di separazione assegnò i figli alla madre “religiosissima”, e non al padre “ateo perfetto” e “bestemmiatore”), poi superata da quella della Corte d’Appello di Bologna del 13 aprile 1950 – che parificò a tutti gli effetti atei e religiosi – nonostante in sede di Assemblea Costituente si fosse già parlato di “opinioni religiose e filosofiche” (Mario Cevolotto, seduta 19 dicembre 1946) e nonostante Jemolo avesse, contemporaneamente, messo in evidenza che l’art. 21 della Costituzione tutelava, in ogni caso, anche le “fedi non religiose”. Lo stesso Jemolo, Calamandrei (che condannò l’idea secondo cui i giudici, per interpretare le leggi, dovessero “chiedere consiglio al confessore” e dichiarò che i giuristi “cattolici” non avevano “cercato la verità” ma “preso le parti della loro verità”), Paolo Barile e, soprattutto, Walter Bigiavi, disapprovarono la sentenza ferrarese. Quest’ultimo definì (Giur. it., 1948, I, 2) la sentenza “medievale” e “mostruosa”, tornando poi, con una organica monografia (Ateismo e affidamento della prole, Cedam, Padova, 1951), sulla questione e replicando agli strenui paladini della pronuncia del 1948 come Allorio (che parlò dell’“Ateo educatore”), seguito da Stolfi, Satta, Carnelutti, Orestano e padre Lener. Anche Balladore-Pallieri, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, affermò che non vi era dubbio che l’art. 19 Cost. garantisse anche chi “faccia pubblica professione di ateismo” (La Nuova Costituzione Italiana, Marzorati, Milano, 1948) e Bigiavi, richiamando l’art. 3 Cost., ribadì che non era in alcun modo “lecito …postergare l’un coniuge solo perché ateo”, la cui “dignità sociale” non poteva essere, comunque, lesa da una pretesa coscienza religiosa collettiva. Dimostrava anche l’inesistenza di una “pretesa inferiorità dell’ateismo”, replicando a Carnelutti che aveva parlato di “cecità morale” dell’ateo.

A distanza di molti anni, sarà la Cassazione (Sezioni Unite Civili, 28 giugno 2013) a rigettare il ricorso della Presidenza del Consiglio contro la sentenza del Consiglio di Stato del 18 novembre 2012 che, a sua volta, riformava una precedente decisione del Tar Lazio. Il tribunale amministrativo aveva dichiarato inammissibile il ricorso dell’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici razionalisti) contro la decisione della Presidenza del Consiglio di non aprire le trattative con essa ai fini della stipulazione di un’intesa come quelle previste dalla Costituzione (art. 8) per regolare i rapporti delle confessioni religiose con lo Stato.

E’ vero che si tratta di orientamenti di natura essenzialmente processuale e che riguardano, comunque, il solo obbligo di iniziare tali trattative con i culti richiedenti, ma non è affatto da escludere che si finisca, prima o poi, a riconoscere l’UAAR come entità avente gli stessi diritti – ai fini di una “intesa” con lo Stato, preordinata alla approvazione di una legge – delle confessioni diverse dalla cattolica. Non a caso i più autorevoli sociologi, come il menzionato Garelli, classificano l’ateismo nella categoria delle “credenze” (ateismo, fede certa, fede dubbiosa).

In realtà la Cassazione si è limitata a confermare la tesi del Consiglio di Stato, che ha negato la natura di “atto politico” (non sindacabile in sede giurisdizionale) al diniego governativo, confortato dall’Avvocatura di Stato, di accogliere le richieste di intesa (1992 e 2003), riconoscendone quella di atto di alta amministrazione. Spettò al Tar Lazio stabilire se fosse legittima la qualificazione governativa dell’UAAR come organizzazione “non confessionale” e, quindi, non abilitata ad avviare una trattativa – che, comunque, potrebbe sempre concludersi negativamente – e se la professione dell’ateismo potesse essere regolata in modo analogo a quella di una credenza religiosa, sia pure “in negativo”, diversamente dall’opinione del consiglio dei Ministri (2003) che abilita alla trattativa solo quelle organizzazioni definibili “un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in comune tra più persone”. Il Tar del Lazio (sentenza n. 7068 del 3 luglio 2014) ha condiviso le tesi governative, respingendo il ricorso dell’UAAR. In favore del Governo è stato risolto dalla Corte costituzionale (sentenza 52 del 2016) anche il conflitto di attribuzione promosso dal Presidente del Consiglio a seguito della sentenza della Cassazione del 2013; sulla vicenda dovrà ora pro- nunciarsi la Corte europea dei diritti dell’uomo, ma si vedano, comunque, le pertinenti osservazioni di Casuscelli (S. Berlingò-Casuscelli, Diritto ecclesiastico italiano, Torino, 2020).

Non è questa la sede per entrare nella complessa questione della qualificazione (anche autoreferenziante?) e della identità dei soggetti abilitati a negoziare con i governi intese ai sensi delle norme costituzionali, o dei profili giuridici delle determinazioni governative di non giungere, dopo una trattativa con le rappresentanze confessionali, alla stipulazione dell’intesa, ma non si possono trascurare alcune esperienze di paesi europei e i recenti sviluppi dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea. Vanno richiamate, sotto il primo profilo, le esperienze evidenziate dal “Codice”, come quelle della Repubblica federale tedesca, dove alcuni Länder hanno legiferato sulla base di intese con le Federazioni ateistiche; dei Paesi Bassi, che riconoscono il movimento umanista (e in qualche caso lo finanziano alla pari di quelli religiosi) e del Belgio, che riconosce il “Consiglio Laico Centrale” e assicura agli assistenti spirituali “filosofici” gli stipendi e le pensioni garantiti al clero dei vari culti riconosciuti. Ma è il secondo profilo ad avere maggiore rilievo giuridico e politico: l’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Lisbona) parifica le “organizzazioni filosofiche e non confessionali” alle “chiese, associazioni o comunità religiose”, riconoscendo di entrambe “l’identità e il contributo specifico” e impegnando l’Unione a mantenere, con le une e le altre, il medesimo “dialogo aperto, trasparente e regolare”.

Una  disposizione  che,  combinata  con  la  Carta  dei  diritti  fondamentali  della  UE e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritti tutti giustiziabili alle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo), assicura alle organizzazioni degli atei e agnostici uno status e una dignità che mettono credenti e non credenti allo stesso livello di diritti anche collettivi e di garanzia, contro ogni tipo di discriminazione, anche con riferimento a eventuali regimi di “privilegio”. E che è dovuta, paradossalmente, alle forti pressioni, in occasione del Trattato di Amsterdam, delle Chiese cristiane europee. E pensare che, come ricordato, nel lontano 1948 il Tribunale di Ferrara affidò la prole a una madre (si disse… chiacchierata) solo perché il genitore era un “ateo perfetto e bestemmiatore”. E che anche autori americani hanno parlato di “ateismo evangelico” (Corriere della Sera, 7 dicembre 2007), che Enzo Bianchi rivaluta la “spiritualità degli atei” e che Camus si riferiva ai “Santi senza Dio”.

Segnalo, in proposito, che negli Usa una nota giornalista di San Francisco, Julie Drizin, nell’agosto 2014, confessò le gravi difficoltà incontrate per educare le sue due figlie senza riferimenti al “divino” in una società “ossessionata” da Dio (Salon, 6 agosto 2014), mentre nel Regno Unito la “Sunday Assembly” di Londra – presente in quasi trenta città del mondo anglofono – celebra, nella Conway Hall, una sorta di “messa” umanistica domenicale per i non-credenti, con riti, letture di testi e omelie accompagnati da musiche, con raccolta di offerte, ma senza “filosofi-confessori” (A. WATTS, The Spectator, 22 febbraio 2014). E ricordo che in Belgio il Conseil Central Laïque è considerato “culte reconnu”. Segnalo anche che Audrey Simmons, promotrice della “Association of Black Humanists”, celebra nozze “non religiose”, unioni civili e matrimoni laico-umanisti, con i loro rituali, e che l’associazione South London Humanists si reca al cimitero per riti funebri (Intervista in Nessun Dogma, 6, 2020). Ricordo inoltre che il governo del Galles, nel Regno Unito, vuole affiancare lo studio dell’umanesimo all’insegnamento della religione nelle scuole.

Rinviando alle molte importanti e pertinenti ricerche richiamate nell’opera della Baldassarre, menzionerei i contributi di F. Alicino (La legislazione sulla base di Intese. I test delle religioni «altre» e degli ateismi, Cacucci, 2013) e P.A. Floris (Ateismo e Costituzione, in Quad. dir. pol. eccl., 2011); per la prospettiva storica, i recenti scritti di G. Mori (L’ateismo dei moderni, 2016) e di Claudio Guidi (La fabbrica dell’ateismo, 2016) e, per quella giuridica, la fondamentale ricerca di Carlo Cardia che, quasi cinquant’anni orsono, mise già in evidenza l’“unità…indissolubile”, dialettica e giuridica, di religione e ateismo (Ateismo e libertà religiosa, Bari, 1973).

Richiamerei anche, peraltro, la riduttiva visione di F. Finocchiaro che definì la qualificazione giuridica delle organizzazioni ateistiche “un affare piccolo, piccolo” (Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1990, 3), qualificazione che, invece, Salvatore Berlingò nel 2014 ha considerato “segnale emblematico di un fenomeno molto più ampio” che “potrebbe dilatarsi fino ad assurgere al livello di una questione grande, grande”, parlando anche di “titolarità” di un interesse sostanziale dell’UAAR “diretto alla conclusione dell’intesa” (Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2014, 4). Venendo alla problematica relativa all’Unione Europea in quanto tale, vorrei ricordare che, a livello comunitario, si iniziò a parlare di rilevanza degli interessi religiosi solo quando Jacques Delors incaricò la “Cellule de prospective” della Commissione di studiare alcuni aspetti del problema e di stabilire un “dialogo” con le Chiese e le altre comunità di fede o di credenza (compresi i gruppi umanisti non religiosi). Successivamente in un discorso del 14 settembre 1998, Jacques Santer dichiarò esplicitamente e impegnativamente “A l’heure où l’Union devient pour les citoyens de l’Europe une réalité plus tangible (…) il est bon que les rapports de leurs communautés de foi et de conviction avec l’Union gagnent en visibilité: peut-être convient il de les organiser de manière plus systématique. Nous avons reçu de part et d’autre diverses propositions pour une poursuite du dialogue dans ce sens. Nous en discuterons au cours des mois à venir, afin d’arrêter, de commun accord, les decisions nécessaires aussitôt que possible”.

Parallelamente si sviluppò un lungo itinerario – iniziato con i rapporti Evrigenis e Ford adottati nel 1986 e nel 1990 dal Parlamento europeo, concretato nel vertice dei Capi di Stato e di Governo a Firenze nel 1996 e segnato da numerosi atti comunitari tra il 1977 e il 1997, fino alle due direttive CE, del Consiglio del 2000 (43 del 29 giugno e 78 del 27 novembre) che attuano il principio della parità di tratta- mento delle persone (art. 13 TCE) – di lotta contro il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia (con i loro risvolti confessionali e le loro componenti di intolleranza anche religiosa) che contempla, puntualmente e costantemente, l’obiettivo della lotta contro la discriminazione religiosa.

Tre i momenti forti della questione: la proposta delle Chiese europee (cattolica e pro- testanti) di inserire nel Trattato di Amsterdam una clausola a garanzia della posizione specifica delle confessioni religiose facenti parte del “patrimonio culturale comune dei popoli europei” (1996); l’azione della S. Sede, delle Chiese europee e di alcuni Stati membri volta a includere nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Nizza, 7 dicembre 2000) un richiamo all’eredità giudeo-cristiana o alle radici delle religioni e delle credenze europee o, quanto meno, al retaggio culturale, umanista e religioso dell’Unione; il deciso intervento, dopo Laeken, di autorità religiose e politiche (a cominciare dal pontefice romano Giovanni Paolo II, seguito dai vescovi europei e, ma con non pochi “distinguo”, dalle maggiori Chiese evangeliche), affinché nel futuro Trattato costituzionale dell’Unione venissero previsti: a) il richiamo, nel preambolo, alle radici giudeo-cristiane o almeno al patrimonio religioso dell’UE; b) la codificazione del principio di salvaguardia dello status “nazionale” delle religioni e convinzioni; c) una clausola che consentisse il “dialogo strutturato” tra l’Unione, le Chiese e le comunità religiose e filosofiche.

Nella prima ipotesi venne allegata all’atto finale di Amsterdam una semplice dichiarazione (n. 11, cosiddetta “clausola ecclesiastica”) in base alla quale “l’UE rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le Chiese e le associazioni e le comunità religiose degli Stati membri” e riserva il medesimo trattamento anche alle organizzazioni filosofiche e non confessionali. Dichiarazione non avente, in quel contesto, valore giuridico.

Con la Carta di Nizza – rifacendosi anche al preambolo del Trattato sul Consiglio d’Europa – la Convenzione si pronunciò per la seguente religiosamente asettica formula, da inserire nel preambolo: “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di solidarietà; l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto”.

Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, ha dato una prima sistemazione ai problemi confessionali che si presentano all’Unione, sistemazione che comunque necessita ancora di ulteriori puntualizzazioni e di specifici esiti normativi prima di poter ritenere che l’ordinamento giuridico dell’Europa a ventisette abbia compiutamente affrontato questa problematica – nel rispetto delle tradizioni costituzionali comuni dei paesi membri e dei principi fondamentali del Trattato – con soddisfazione di tutti gli interessati, credenti e non credenti.

Per quanto riguarda il preambolo, ripeto che, nonostante le decise e ripetute pressioni diplomatiche e di opinione pubblica esercitate da alcune Chiese cristiane affinché venissero richiamate le “radici cristiane” o “giudaico-cristiane” del continente, nella proposta formulata dal Presidente della Convenzione Giscard, nel maggio 2003, si citavano esclusivamente le civiltà ellenica e romana e le correnti filosofiche dell’Illuminismo. Il testo approvato nel luglio successivo dalla Convenzione parlava, ancora ed esclusivamente, di valori base dell’umanesimo (uguaglianza, libertà, rispetto della ragione). Il Trattato firmato a Roma finì per espungere sia i lumi, sia la ragione (che la Rivoluzione francese aveva innalzato agli altari) e si limitò, nel primo paragrafo preambolare, a dichiarare che i paesi dell’Unione si ispirano alle eredità culturali, religiose e umaniste dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della democrazia, dell’uguaglianza, della libertà e dello Stato di diritto.

Le autorità religiose e, in particolare, il pontefice romano, si sono “rammaricate” perché erano state tagliate “le radici dalle quali si è nati”, sottolineando che tra le menzioni di tali radici insieme a quelle ebraiche e la laicità “non c’è contraddizione” (card. Tettamanzi).

Tenendo conto dei dibattiti in seno alla Convenzione e di una certa radicalizzazione delle posizioni di alcuni Stati, la formula inserita nel Trattato appare ancora, tutto sommato, accettabile. Anche se il riferimento alle “eredità religiose” per la sua stessa genericità, potrebbe avere, in una fase di crescenti integralismi confessionali, effetti alla lunga non positivi. La storia e la realtà di una civiltà e di un continente, con le contraddizioni e le complessità ben note, con diverse interpretazioni e con vari “usi” politici delle loro componenti, non possono ovviamente essere oggetto di negoziati o di votazioni. Né avrebbe avuto senso, come pure era stato richiesto, inserire la religione tra i valori fondamentali dell’art. 2 del Trattato, la cui violazione comporta sanzioni contro uno Stato membro (art. I-59).

L’art. 22 della Carta dei diritti fondamentali – ora inserito come art. 82 nella parte II del Trattato – è, di per sé, del tutto idoneo a garantire il rispetto dell’identità religiosa e culturale di confessioni maggioritarie o minoritarie e dei loro fedeli, soprattutto se “combinato” con il disposto dell’art. II-81 che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, tra l’altro, sulla religione e sulle convinzioni personali e con quello dell’art. II-70, che riproduce i termini dell’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cui l’Unione inoltre aderisce (art. I-9, comma 2). Il diritto fondamentale di libertà religiosa come garantito dalla Convenzione del 1950 e come risultante dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, fa anche “parte del diritto dell’Unione” in quanto principio generale (art. I-9, comma 2 e 3). Di particolare rilevanza l’art. I-52, che regola unitariamente e paritariamente lo status delle Chiese e delle organizzazioni “filosofiche”, mettendo sullo stesso piano i diritti collettivi dei credenti e quelli dei non-credenti (atei o agnostici) e impegnando l’Unione al rispetto della condizione giuridica prevista, in proposito, dalle legislazioni nazionali per Chiese, associazioni o comunità religiose, organizzazioni filosofiche e non confessionali. Non appare chiaro, peraltro, se il riferimento alle legislazioni interne escluda religioni o filosofie “nuove” provenienti, ad esempio, da Stati non membri, né si comprende perché i termini “non pregiudica” siano riferiti alle confessioni religiose ma non alle organizzazioni filosofiche. Del tutto positivo, comunque, il comma 3 dell’articolo in questione che prevede il dialogo “aperto, trasparente e regolare” con Chiese e filosofie e riconosce implicitamente il diritto alla diversità (peraltro garantita esplicitamente dal citato art. II-82) e il loro contributo specifico.

Non appare tuttora evidente, però, quale possa essere l’oggetto del dialogo se i commi 1 e 2 della medesima disposizione riservano alle legislazioni nazionali la tradizionale materia “ecclesiastica” (e filosofica). La contraddizione con il comma 3 è palese, e non è facile, all’interno delle competenze che il Trattato riserva all’Unione, individuare le materie “europee” di interesse e competenza delle organizzazioni religiose o filosofiche che possano diventare oggetto di un “dialogo regolare”. Né può immaginarsi che questioni come l’identità religiosa e culturale o i diritti e le libertà fondamentali, possano, in qualche modo, essere “contrattati” con le organizzazioni interessate.

Si aggiunga che se il comma 3 dell’art. I-52 fosse stato collocato all’interno del precedente art. I-47 (“Principio della democrazia partecipativa”), il suo contenuto avrebbe avuto la medesima valenza e potenzialità delle “associazioni rappresentative” e della “società civile” con le quali le istituzioni dell’Unione non solo mantengono il dialogo (ugualmente “aperto, trasparente e regolare”) su “tutti i settori d’azione dell’Unione”, ma devono procedere ad “ampie consultazioni” con le parti interessate nel quadro della vita democratica dell’Unione. Dialogo e consultazioni che, ai termini degli artt. III-211 e 212 consentono la presentazione di pareri o raccomandazioni alla Commissione e possono condurre a “relazioni contrattuali” e anche a veri e propri “accordi” (art. III-212, comma 1). Pur nella rilevanza e positività (si pensi alle riserve, in questa materia, da parte di paesi separatisti o con religione ufficiale) dell’art. I-52, non può tacersi che l’aver voluto mantenere Chiese e organizzazioni non confessionali fuori dai meccanismi della “democrazia partecipativa” risulta una soluzione quantomeno riduttiva che, in nome di una “specificità” religioso-filosofica voluta dalle religioni interessate, ma giuridicamente poco produttiva, rischia di lasciare ancora queste organizzazioni ai margini di quella “vita democratica dell’Unione” alla quale è dedicato il titolo VI del Trattato costituzionale, all’interno del quale è inserita la citata disposizione particolare su religioni e filosofie attive negli Stati membri.

Si aggiunga ancora che continua a non essere chiaro chi determinerà quali Chiese, associazioni, comunità, organizzazioni filosofiche o non-confessionali, avranno diritto a prendere parte al dialogo “religioso o filosofico” con l’Unione. In altri termini non si comprende in che modo si proceda alla selezione degli attori religiosi o filosofici collettivi e quali siano i requisiti di rappresentatività dei rispettivi enti esponenziali per partecipare al dialogo-trattativa – una sorta di “concertazione religiosa” – con la Commissione europea. è, quindi, sempre più necessario che vengano definiti i meccanismi procedurali e stabilito il “dominio” delle procedure negoziali.

Vale la pena di ricordare, in proposito, l’Europa “umanista” di Italo Svevo (Trattato sulla teoria della pace, 1918) e quella di Stefan Zweig che già immaginava l’unificazione europea, “che tanto avevamo sognato”, alla fine della Prima guerra mondiale e che credette a lungo in uno “Spirito europeo” nato “dalla riflessione” e frutto “lentamente maturato di un pensiero elevato” (L’esprit européen en exil, 1933-1942, Paris, 2020), ma anche evocare Socrate, condannato a morte per “ateismo” dalla città di Atene.

Ricorderei, infine, che papa Francesco scrive ai non credenti e discute di loro con il “pregiatissimo dottore” Eugenio Scalfari – che a lui si era rivolto sollecitato dall’enciclica Lumen Fidei – entusiasmando teologi, religiosi, filosofi (credenti e non), matematici, medici, esperti commentatori di quotidiani e periodici, e presunti specialisti del sacro, spesso improvvisati, che impazzano sul web. L’allora cardinale di Milano Angelo Scola (autore di un volume Non dimentichiamoci di Dio, Milano, 2013), si lamentava in una lettera pastorale dell’“ateismo anonimo” dei fedeli ambrosiani che vivono “come se Dio non ci fosse”, e auspicava non “recinti separati” o visuali “ingenue, ireniche o conniventi”, ma “sguardi” pazienti (come la misericordia di Dio) e percorsi che evitino i “sentieri della condanna, del lamento e del risentimento”. Gli orientamenti, anche ateistici, della “società plurale” vanno considerati, quindi, una “opportunità per annunciare il Vangelo dell’umano” soprattutto alle “generazioni dei venticinque-cinquantenni” alle quali Dio “sembra non interessare più”.

Ma torniamo a papa Francesco e al fondatore del quotidiano La Repubblica. Quest’ultimo, in vari momenti (soprattutto nell’estate del 2013), aveva posto al pontefice una serie di interrogativi su diverse questioni (tra le quali, appunto, sul perdono per i non credenti – coloro che non hanno la fede e non la cercano – e sulla inesistenza di una verità assoluta), alle quali il medesimo pontefice ha risposto, sul quotidiano dell’11 settembre, con esemplare ma autorevole semplicità, richiamando la propria esperienza di fede, auspicando il dialogo e “un tratto di cammino insieme”, ribadendo i fundamentalia Fidei, riconoscendo il debito della chiesa e dell’umanità verso gli ebrei, provati da secolari tragedie, e precisando:

Premesso che – ed è la cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato per chi non ha fede c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

Aggiunge Bergoglio:

«Quanto alla verità, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino di vita».

Il teologo Vito Mancuso, richiamando il card. Martini e Norberto Bobbio, ha definito questa risposta una lezione di laicità, “esemplare per apertura, coraggio e profondità”, e ha respinto l’idea che possa essere cancellata la differenza tra credenti e non credenti, differenza che per il vescovo di Roma, il quale, parlando di scimmie pensanti e di bestie da cui proveniamo, segnala “in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non fede”. Bruno Forte ha scritto che ogni credente è “un ateo che ogni giorno si sforza di credere”; Hans Küng ha sottolineato che il papa non si limita a esortare al dialogo con gli atei, ma “lo traduce in pratica”; Enzo Bianchi ha messo in evidenza che il medesimo “ha intavolato concretamente” tale dialogo avviandosi a percorrere “un tratto di cammino insieme”, che la distinzione tra credenti e non credenti “lascia molti insoddisfatti sia perché una delle categorie è definita solo in relativo […], sia perché chi non crede in Dio sovente crede comunque nel cammino di umanizzazione e in alcuni principi coerenti con essa”, e che “fede e incredulità abitano anche il credente che ogni giorno deve rinnovare la sua fede, dissipare […] i dubbi, affidarsi al Signore quando la tenebra sembra dominare”; Umberto Veronesi, evocando Croce, ha dichiarato che la lettera di Bergoglio a Scalfari gli “ha dato una concreta speranza di un’evoluzione verso la tolleranza e l’illuminata coesistenza” in un mondo reso conflittuale “dai fondamentalismi religiosi” (che, invece, secondo Mary Ann Glendon, sarebbero “raramente un fattore primario o esclusivo nei conflitti” nei quali sono implicati; Navarro-Vals, storico portavoce di Giovanni Paolo II, ha parlato di sfida alla modernità, sottolineando alcune continuità con il magistero di Benedetto XVI e contestando l’ottica della libertà dei senza-Dio e della “buia prigione” di chi sta con Dio. Lerner, invece, ha discusso le tesi del cardinale Scola – che avrebbe ripreso argomenti del contro riformismo di Carlo Borromeo –, mettendole a confronto con il pensiero del card. Martini, ma riconoscendo che la sfida di Scola – per il quale la chiesa “non ha bastioni da difendere, ma strade da percorrere” –, potrebbe contribuire a “colmare il fossato della incomunicabilità reciproca” anche al di là della “frontiera dell’ateismo”. è rimasto il filosofo Rémi Brague a sostenere che l’ateismo moderno “ha fallito come progetto”, con argomentazioni serie, ma molto discutibili, auspicando una nuova “dialettica dell’illuminismo”, ma affermando che solo “il Logos è […] libertà creatrice” e che “le altre valenze sono secondarie” (2013).

In definitiva, anche tra i credenti “ateo” sta diventando bello!

E non a caso nel luglio 2013, negli Stati Uniti, è stato eretto in Florida un monumento all’ateismo che si confronta quotidianamente con la contigua statua che celebra i comandamenti ebraico-cristiani. Negli Stati Uniti, comunque, gli atei sarebbero il 20% della popolazione, mentre in Europa la percentuale più alta sarebbe quella della ex Ddr e, nonostante, secondo l’ultimo “indice globale” Gallup, tre quarti della popolazione mondiale si dichiarerebbe in qualche modo “credente”, nel volume recente di Nigel Barber, Why Atheism Will Replace Religion (2012), nel 2041 si verificherebbe nel mondo il sorpasso degli atei sui “religiosi”. Un dato confortato dall’autorevole Pew Research Institute (Usa, 2012) che, però, non significherebbe rifiutare il soprannaturale o allontanarsi da Dio, ma dalle strutture e organizzazioni confessionali verso le quali cresce la perdita di fiducia. Forse anche per questo papa Francesco ha deciso di parlare anche agli atei.

Alcuni autori americani hanno parlato di recente di “ateismo evangelico”, ed Enzo Bianchi ha rivalutato la “spiritualità degli atei”, mentre Camus si era riferito ai “Santi senza Dio”. MicroMega ha dedicato il suo fascicolo n. 5 del 2013 ai vari aspetti dell’ateismo con contributi di particolare interesse e ha scritto in copertina “Ateo è bello!”. Delle aperture di papa Bergoglio si è già parlato: combinate con le decisioni della Cassazione potrebbero portare, anche in Italia, alla parificazione giuridica ateismo-religione (come ad esempio in Belgio). Essere atei potrebbe diventare “bellissimo”. Comunque, è tutto già predisposto: una Dea, la “Ragione”, una festa nazionale, il XX settembre, un Santo, Giordano Bruno da Nola, da festeggiare il 17 febbraio. Piazza Campo de’ fiori attende! Mancano ancora i … “matrimoni filosofici” e, come ha scritto Salvatore Mazza (Avvenire, 19 dicembre 2020), la “preghiera naturale” dei non credenti: Dio ascolta anche loro. Alec Ryrie, nel recente volume Il senso di non credere (Torino, 2020), ha riflettuto sul confine tra fede e negazione di essa, evidenziando quanto sia “labile il rapporto tra fede e incredulità”, concludendo: “dubbi e fede” non sono opposti, ma “camminano insieme”.

Francesco Margiotta Broglio – Pprofessore di Relazioni tra Stato e Chiesa presso l’Università di Firenze, Presidente della Commissione consultiva per la Libertà Religiosa presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Commissione Unesco per la lotta alla discriminazione nell’insegnamento.

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