1.   Introduzione storica al pluralismo evangelico

Una riflessione storico-culturale sulle chiese evangeliche, sia pure con riferimenti relativi solo ai rapporti con lo Stato, non può che prendere le mosse dalla Riforma del XVI secolo; sebbene i suoi contenuti avessero radici profonde che affondavano nella più antica tradizione cristiana è fuori di dubbio che nel complesso essa costituì una rifondazione del cristianesimo giacché rivoluzionò le strutture pedagogiche e dottrinali delle istituzioni ecclesiastiche vigenti offrendo una nuova immagine di chiesa. (1) La Riforma non fu un fenomeno omogeneo, perché all’interno di quel moto di rinnovamento che percorse la cristianità del XVI secolo vi furono posizioni e realizzazioni diverse e spesso molto distanti tra di loro, al punto da indurre gli storici a parlare di varie “Riforme” parallele; quella di Lutero e quella di Zwingli, per esempio, (a cui più tardi si aggiunse quella di Calvino e poi anche di altri) finirono per separarsi in modo aspro per secoli. E mentre si consumava questo confronto/scontro tra i due maestri, entrambi ne dovettero sostenere un altro su un fronte diverso: quello aperto dagli anabattisti e dalla cosiddetta “riforma radicale” o “popolare” che contestarono metodi e contenuti della cosiddetta “riforma magistrale” e “magisteriale”, vale a dire la Riforma vincente voluta essenzialmente da intellettuali insieme e grazie al potere politico. Fin da subito vi fu insomma un dissenso sostanziale su cosa dovesse essere riformato e in che modo andavano effettuate le riforme; fu un dissenso inevitabile perché investì anche il fondamento nuovo che si cercava di dare al principio d’autorità in contrapposizione a quello cattolico fondato sull’autorità gerarchica: il Sola Scriptura. Su questo principio tutti i riformatori, “magistrali” e “radicali”, impostarono la loro costruzione teologica e quindi ecclesiologica, ma quando si trattò di chiarire come la Scrittura andava interpretata e come il suo insegnamento potesse essere adottato in questioni sociali, politiche ed etiche la divergenza fu fortissima; il dissenso si trasformò in accuse reciproche di eresia e queste aprirono la via alle persecuzioni nelle quali i più deboli politicamente ebbero la peggio andando in esilio, rimettendoci la vita, oppure essendo costretti a nascondersi o dissimulare le proprie convinzioni. Tutto ciò segnò un solco profondo tra le varie espressioni riformatrici destinato a perpetuarsi nei secoli successivi, sia pure in contesti e in forme diverse. (2) Da questa pluralità di esperienze discende il protestantesimo con- temporaneo. (3)

Nella manualistica si distinguono tre protestantesimi: il primo sarebbe costituito dalle chiese direttamente legate alla Riforma del XVI secolo e in senso stretto si riferirebbe ai luterani, ai riformati e agli anglicani, ma comprenderebbe anche i mennoniti e in parte i battisti; il secondo sarebbe costituito dalle chiese nate dal Risveglio e si riferirebbe in particolare ai metodisti del Settecento e agli evangelicals inglesi e americani dell’Ottocento (ancora battisti, chiese dei Fratelli, chiese libere in genere); il terzo sarebbe costituito dalla galassia di chiese nate dal movimento di santità americano e comprenderebbe anche l’universo pentecostale/carismatico  e quello avventista. Tuttavia, c’è chi crede che queste due ultime espressioni costituiscano categorie protestanti autonome.

Sostanzialmente, la differenza fondamentale tra il primo protestantesimo e gli altri è da individuare nel fatto che le chiese direttamente legate alla Riforma del XVI secolo sono state considerate da quelle successive troppo secolarizzate, poco calorose sul piano dell’impegno testimoniale derivante da un’esperienza di conversione e troppo inclini a compromessi con gli Stati. (4)  Il binomio Riforma/Risveglio e il modo in cui se ne tracciano relazioni, correlazioni e distinzioni (quando non contrapposizioni) è alla base della comprensione del protestantesimo che si configura come quel processo storico attraverso il quale il patrimonio ideale della Riforma è stato canalizzato in contesti diversi sotto forma di chiese diverse e di conseguenza di esperienze teologiche, culturali e spirituali diverse. (5) Da questo processo sono derivati il confessionalismo protestante (ovvero una pluralità di confessioni di fede alla base di diverse ecclesiologie, fenomeno tipico del primo protestantesimo) e il denominazionalismo evangelico (ovvero una pluralità di soggetti ecclesiali che si distinguono non tanto per la confessione di fede o per la diversa ecclesiologia, ma per diversità dottrinali ponendo l’enfasi su particolari aspetti della dottrina cristiana). Gli ordinamenti giuridici delle chiese evangeliche e la loro posizione nei confronti dello Stato risentono in maniera decisiva di questa dinamica. (6)

La diffusione della Riforma in Italia fu piuttosto omogenea e ampia dal punto di vista geografico, ma riprendeva motivi ispiratori diversi tra di loro senza stabilire mai una vera e propria chiesa alternativa; si trattò quasi sempre o di circoli culturali o di movimenti popolari destinati a esaurirsi sotto la spinta della repressione che la chiesa cattolica avrebbe inasprito sempre di più dopo il 1540, con la promulgazione della bolla papale Licet ab initio. (7) Si distinse con una propria fisionomia solo l’antico movimento valdese di origine medievale, stabilito per lo più in Piemonte, che nel 1532 aderì alla riforma calvinista abbandonando così la semiclandestinità nella quale aveva lungamente vissuto. (8) Il calvinismo attecchì in tutta la penisola e interessò soprattutto i ceti medi delle città, ma notevole diffusione ebbe anche l’anabattismo che interessò soprattutto il nord est dell’Italia influenzando i ceti sociali più bassi. (9) Questo ramo della Riforma, osteggiato sia dai grandi riformatori quanto dalla chiesa cattolica, aveva una grande capacità di far presa sulle fasce sociali meno abbienti senza la necessità di avvalersi di coperture politiche e, anzi, predicando una netta separazione tra Stato e chiesa; (10) in Italia esso si diffuse in tutto l’arco orientale della penisola, rappresentando un fenomeno intenso e originale e alquanto autonomo dai gruppi anabattisti d’oltralpe. (11)

Nel Seicento l’eco della riforma protestante in Italia sarà affidata soprattutto alla posizione che i discendenti degli esiliati del Cinquecento avevano raggiunto nel campo economico, culturale e politico a Ginevra e ai loro sforzi di mantenere accesa in qualche modo una piccola fiaccola a ricordo della sradicata riforma italiana; in particolare va ricordata la prima traduzione della Bibbia in italiano di Giovanni Diodati (1576–1649), che fino all’inizio del Novecento è stata la versione adottata dalle chiese evangeliche in Italia. La città di Calvino dovrà molto a questi italiani per la maggior parte originari di Lucca; tra loro bisogna ricordare anche Jean Jaques Burlamaqui (1694–1748), teorico illustre del giusnaturalismo liberale. Si capisce, quindi, perché ebbe una certa risonanza l’invito a ritornare in patria che il cardinale Giulio Spinola, in qualità di vescovo di Lucca, rivolse a questi oriundi nel 1679 sperando in un loro ritorno al cattolicesimo. Ma il rifiuto, teologicamente qualificato, opposto dalla comunità italiana fu unanime ed ebbe diffusione internazionale. Nel Settecento le idee della Riforma non erano sconosciute ad alcuni intellettuali laici e cattolici che spesso si servivano del pensiero teologico protestante per contrastare il dilagante ateismo e il pensiero libertino. Per esempio, nel 1719 furono pubblicati in italiano otto sermoni di William Derham, uno scienziato-teologo inglese di ispirazione newtoniana; nel 1728 ne furono pubblicati altri otto a Napoli. La cultura protestante, insomma, circolava in Italia attraverso i canali di comunicazione culturale scientifica e filosofica che, com’è noto, nei paesi protestanti erano strettamente intrecciati con la riflessione teologica. Così si spiega come Antonio Genovesi, il grande illuminista napoletano, non solo nella sua Teologia dimostra di aver letto direttamente la principale opera di Calvino, Institutio religionis christianae, ma di conoscere anche le caratteristiche diversificanti del calvinismo rispetto all’arminianesimo; probabilmente il debito verso le correnti di pensiero protestanti del filosofo napoletano è più cospicuo di quanto si possa pensare. (12) Oltre gli influssi culturali d’oltralpe, la presenza evangelica in Italia fu legata alla vita di un certo numero di comunità straniere presenti nelle maggiori città; si trattava di comunità sorte per ragioni commerciali o diplomatiche che, grazie anche alla copertura politica dei paesi di provenienza, erano riuscite a ritagliarsi un certo diritto a esistere. In genere si trattava di comunità molto chiuse in se stesse, sia per ragioni di opportunità sia per difficoltà culturali a interagire con il popolo italiano; queste comunità cominciarono a rivendicare spazi sempre maggiori a partire  dall’inizio  dell’Ottocento anche se la loro presenza risaliva, come nel caso della comunità luterana di Venezia, alla metà del Seicento. (13)

Bisognerà aspettare il secolo XIX per vedere rifiorire in Italia un movimento evangelico; l’unico elemento di continuità storica per oltre due secoli e mezzo fu il piccolo popolo valdese confinato nelle storiche valli del Piemonte. (14) La diffusione della presenza evangelica in Italia nell’Ottocento conosce due fasi; la prima anteriore all’unità d’Italia, la seconda dal 1861 in poi. Nella prima fase essa si articola ancora con molta fatica e si intreccia alle vicende del Risorgimento; come ha magistralmente dimostrato Giorgio Spini le premesse della coscienza risorgimentale italiana sono state poste dalle aperture rivoluzionarie e napoleoniche e dai legami di importanti segmenti culturali con la cultura protestante d’oltralpe, soprattutto svizzera e inglese. Questa influenza sopravvivrà anche alla crisi del 1820-21; anzi, paradossalmente, l’età della Restaurazione è caratterizzata dalla nascita in Italia di comunità protestanti sotto la protezione dell’Inghilterra o della Prussia; ma le basi erano state gettate all’indomani delle guerre napoleoniche che avevano visto affluire migliaia di stranieri sulla scia degli eserciti e ora le maggiori città italiane vedevano la nascita di chiese evangeliche regolarmente operanti. (15) La prima vera diffusione in Italia di un movimento evangelico si sviluppò per momenti graduali e successivi coprendo un arco temporale che va più o meno dal 1850 al 1915. Si trattava di chiese che andavano costituendosi generalmente in tre modi: talune erano frutto di azioni missionarie portate avanti soprattutto da organizzazioni inglesi e americane; (16) altre derivavano da iniziative autoctone dovute a esuli per motivi politici ritornati in patria; (17) oppure scaturivano dall’impegno evangelistico messo in essere da emigrati di ritorno in particolare dal nord America. (18)

Queste distinte radici hanno storicamente determinato la differenza di approccio di queste chiese alla libertà religiosa e ai rapporti Stato – Chiesa secondo modalità progressive che si possono riassumere in tre concetti: separatismo, bilateralismo, pluralismo.

2.   La posizione separatista

Questa fase è senza dubbio legata alla lezione di Alexandre Vinet, un pastore protestante svizzero, fine uomo di cultura e politico nel cantone vodese, che nel 1826 a Parigi pubblicò un saggio intitolato Memoria in favore della libertà dei culti. Vinet non fu acclamato e portato in trionfo per le sue tesi separatiste, ma si batté tutta la vita per vederle trionfare operando anche per far nascere una chiesa basata su questi principi che assumerà, appunto, il nome di “Chiesa Libera”: posizione che caratterizzerà fini a giorni nostri alcune chiese evangeliche dichiaratamente separatiste come le Chiese dei Fratelli. Il testo fu poi rielaborato dallo stesso autore nel 1842 con il titolo Saggio sulle convinzioni religiose e sulla separazione tra Stato e Chiesa. (19) Il fatto che questo dibattito nascesse in ambito protestante non significa che il mondo protestante fosse innamorato di questa tesi, perché essa rappresentava uno dei nodi che non era stato possibile sciogliere nel XVI secolo quando, all’indomani della protesta che portò alla Riforma, si confrontarono sostanzialmente due diversi modi di intendere il rapporto tra Chiesa e Stato partendo da una questione di tipo squisitamente teologico e cioè se la chiesa doveva essere multitudinista, vale a dire chiesa di popolo nella quale si entra per nascita attraverso il battesimo degli infanti, oppure chiesa di convertiti, cioè di persone che compiono scelte consapevoli di fede e di appartenenza e che quindi praticano il battesimo dei credenti o, come spesso si dice un po’ impropriamente, degli adulti. La seconda opzione non poteva che prefigurare una separazione tra Stato e Chiesa (usando ovviamente le categorie per come si potevano usare in quel tempo) e sancire una sostanziale libertà di coscienza e di religione. (20) Proprio per questo non fu accolta e chi la sosteneva venne persegui- tato in modo feroce. Non era un caso, infatti, che i sostenitori di queste tesi spesso venissero condannati per sedizione, come dei sovversivi, e messi a morte. Insomma, dove non bastavano le parole si usava la spada. Questa ferita nel mondo protestante rimase a lungo coperta fin quando, nei primi decenni dell’Ottocento, anche sotto la spinta dei movimenti di risveglio che proprio in quegli anni si andavano diffondendo in Europa, si riaprì provocando un dibattito ampio e aspro. (21) La riflessione di Vinet prendeva le mosse proprio dalla difficoltà che i gruppi “risvegliati” incontravano nel conseguire spazi di libertà sia riguardo al credo sia al modo di essere chiesa; lo Stato intervenne in modo pesante a fianco della chiesa ufficiale per contrastare i movimenti di risveglio esattamente come era accaduto nel XVI secolo. Per il pensatore svizzero questa anomalia poteva essere corretta solo con una separazione netta tra Stato e Chiesa; ovviamente, la concezione separatista di per sé non era una novità. La vera novità del pensiero di Vinet riguardava proprio la natura della libertà religiosa che la separazione tra stato e chiesa doveva garantire; non si trattava di una libertà corporativa, volta cioè a garantire la cosiddetta libertas ecclesiae, ma di una libertà volta a tutelare il sentimento e l’interesse religioso dell’individuo; e questa era la ragione in base alla quale la libertà di religione e di culto trovava le sue fondamenta nella libertà di coscienza, per cui la laicità dello Stato non consisteva nella sua avversione alla fede, alla religione o alla chiesa, ma nel garantire che nessuna chiesa avesse privilegi rispetto a un’altra e senza cedere alla tentazione di legiferare partendo da una prospettiva confessionale: una posizione molto vicina allo spirito del primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Il pensiero di Vinet suscitò un dibattito europeo piuttosto ampio sul concetto di separazione tra Stato e Chiesa, che ebbe una risonanza significativa anche durante il Risorgimento italiano influenzando importanti personaggi politici come Cavour (che conobbe personalmente Vinet e gli ambienti del risveglio svizzero), Lambruschini e Ricasoli. (22)

3.   Dalla tolleranza religiosa nel Regno sabaudo alla Costituzione della Repubblica

Nel 1848 accaddero due cose importanti nel regno sabaudo: da Re Carlo Alberto di Savoia venne promulgato lo Statuto e furono emanate le Lettere Patenti per i Valdesi e gli Ebrei. La sequenza temporale fu la seguente: l’8 febbraio venne annunciato lo Statuto; il 17 febbraio viene emanata la Lettera per i Valdesi; il 4 marzo viene promulgato lo Statuto; il 29 marzo venne emanata la Lettera per gli Ebrei. L’articolo 1 dello Statuto affermava: “La Religione Cattolica Apostolica Ro- mana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”. Per quanto riguarda i valdesi, gli unici evangelici in quel momento a porsi come interlocutori dello Stato, le concessioni non erano relative tanto alla libertà religiosa, ma ai diritti civili. (23) Infatti, il provvedimento recitava: “I valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi, a frequentare le scuole dentro e fuori le Università, ed a conseguire i gradi accademici. Nulla è però innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”. (24)

Sostanzialmente tale scenario rimarrà inalterato per un secolo. Infatti, nel 1929 accaddero altri due fatti giuridicamente rilevanti: l’11 febbraio fu firmato il Con- cordato tra lo stato italiano e la chiesa cattolica che chiudeva il contenzioso aper- tosi con il processo unitario; il 24 giugno fu promulgata la legge sui culti ammessi. Queste iniziative politiche non cambiarono la sostanza delle cose perché la legge fondamentale rimaneva lo Statuto albertino e quindi la cornice del Concordato affermava l’esistenza di una chiesa di stato. Tuttavia, la legge sui culti ammessi segnò una certa apertura nel mondo evangelico a una posizione più giurisdizionalista rappresentata da Mario Piacentini, alto magistrato valdese, che fu tra gli estensori principali di quella legge e che ne rivendicò la novità soprattutto per la chiesa valdese. Il decreto di applicazione del 1930, però, smorzò gli entusiasmi iniziali degli evangelici (che da “culti tollerati” si vedevano promossi a “culti ammessi”) e nel tempo la legge rivelò tutti i suoi limiti. (25) La cosa non fu e non è di poco conto perché in Italia l’unica legge appositamente dedicata all’esercizio della libertà religiosa è ancora quella, a novant’anni di distanza! Il mondo è cambiato più volte dal 1929, ma in Italia vige ancora la legge sui culti ammessi. Quando si trattò  di inserire nella Costituzione repubblicana le garanzie del pluralismo religioso (gli articoli 7 e 8 in modo particolare) davanti agli occhi degli estensori dei testi c’erano sostanzialmente la chiesa cattolica da una parte e valdesi ed ebrei dall’altra. Perciò si pensò che con la costituzionalizzazione del concordato e l’estensione del principio pattizio agli altri due attori si potesse risolvere la questione. Ovviamente l’articolo 7 doveva precedere l’articolo 8 anche se, forse, si finì per inserire il 7 perché non si poteva fare a meno dell’8, viste le pressioni degli angloamericani, che dopo la guerra insistettero molto perché in Italia fosse  garantita  la  libertà  religiosa. (26) Questo retroterra ha segnato la posizione delle chiese evangeliche nella concezione dei rapporti con lo Stato; costrette a stare sempre un passo indietro rispetto alla confessione maggioritaria e poi costrette a una logica di tipo concordatario hanno da sempre sostenuto un intransigente separatismo anche dopo la promulgazione della Costituzione che offriva di trattare il pieno riconoscimento con l’istituto delle intese. (27)

4.   La posizione bilateralista

Alla richiesta di applicazione dell’articolo 8 della Costituzione il mondo evangelico non arrivò in modo semplice e lineare; la linea separatista, forte e ben sostenuta dagli intellettuali soprattutto valdesi, trovò un interprete magistrale in Giorgio Peyrot che subito dopo il secondo conflitto mondiale organizzò e diresse il Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche, un organismo creato appositamente per tutelare la libertà religiosa da un punto di visto evangelico. (28) Ma Peyrot pose in modo chiaro una questione che lo portò in rotta di collisione con una consolidata pubblicistica giuridica: affermò che la libertà religiosa era fondata sulla libertà di coscienza e che questa era radicata nel Vangelo. Pertanto, la libertà non poteva essere un privilegio per una chiesa, o solo per le chiese, ma doveva essere un diritto comune riconosciuto a tutte le forme di diffusione delle idee. Ed è su questa base che assunse una netta opposizione all’itinerario politico della Democrazia Cristiana, che nel suo programma per la nuova Costituzione (1946) prevedeva lo Stato cristiano, nel senso di un riconoscimento del cattolicesimo come religione degli italiani. A fronte di questo programma gli evangelici, attraverso Peyrot, chiesero ai costituenti di sostenere un aperto separatismo. Con il suo saggio La libertà di coscienza e di culto davanti alla Costituente italiana Peyrot delineò la posizione evangelica in materia: “I cardini fondamentali su cui si impernia il problema della libertà religiosa in vista di una sua effettiva attuazione, sono dunque tre: libertà di coscienza – parità dei culti – neutralità religiosa dello Stato. Su questi fondamenti deve essere costruita tutta la politica ecclesiastica dei rapporti tra chiese e Stato”. (29) Si trattava di una posizione che assumeva a proprio fondamento un dato oggettivo: la legislazione relativa alla libertà religiosa in Italia era fondamentalmente legata alla prospettiva assunta durante il fascismo e perciò inaccettabile. Le questioni poste da Peyrot non erano immaginarie e neppure oltranziste se a distanza di tre decenni un acuto giurista poteva sostenere: “Nel passato molte istanze di libertà in materia religiosa sono rimaste insoddisfatte in Italia, soprattutto durante il ventennio seguito all’avvento al governo del fascismo. Questa circostanza deve essere tenuta presente da chi valuti il tema dei diritti civili in rapporto al fattore religioso, soprattutto se si considera che molte delle norme che tutt’ora disciplinano il fenomeno religioso nel nostro paese sono state emanate nel periodo precedente l’entrata in vigore della Costituzione del 1948”. (30)

Nella battaglia politica che doveva portare poi alla formulazione degli articoli 7 e 8 della Costituzione come li conosciamo oggi, prevalsero logiche confessioniste e perciò si arrivò a negare l’uguaglianza sostanziale tra le confessioni religiose, affermandone solo quella formale; di qui l’espressione secondo cui le confessioni religiose diverse da quella cattolica sono “egualmente libere” di fronte alla legge, ma non “uguali”. (31) Con questo esito la stipula delle intese veniva considerata dagli evangelici una strada non praticabile perché dava riconoscimenti di secondo grado e in una logica concordataria. Per non parlare del fatto che Peyrot paventava un nuovo giurisdizionalismo nella situazione del dopo intesa, che puntava alla distinzione tra confessioni riconosciute e quelle non riconosciute in vista di rapporti differenziati con lo Stato; il che significava discriminare. Proprio per evitare che fin dall’inizio nella trattativa con lo Stato fosse avallato il principio della gerarchia dei riconoscimenti, le chiese evangeliche rifiutarono di aprire trattative fin quando non fu riconosciuta la bilateralità della trattativa; (32) infatti, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione si pose il problema di quali procedure seguire per dare corso all’attuazione dell’articolo 8. In ambiente governativo e in alcuni ambienti giuridici era infatti stata sollevata, per dirla con Peyrot, “la questione relativa al carattere meramente programmatico di quelle disposizioni costituzionali che potevano ritenersi scomode, e si era precisato altresì che anche norme costituzionali, di indubbio carattere precettivo, potevano tuttavia essere considerate aventi applicazione differita. Tra queste appunto veni- vano artificiosamente incluse anche quelle dettate in tema di libertà di religione”. (33) E furono le obiezioni di fronte a cui si trovarono le chiese evangeliche quando fecero le prime mosse per chiedere l’avvio delle procedure di trattativa; fin dall’inizio esse ebbero ben chiaro il carattere bilaterale della trattativa e quindi la necessità della convocazione di una Commissione che discutesse su una lista di argomenti da loro sottoposta per pervenire a una rinnovata disciplina dei loro rapporti con lo Stato, attesa l’ampia incostituzionalità della legge sui culti ammessi. Questo approccio fu ripetutamente negato dai Governi con la specifica motivazione che l’istituto delle intese sarebbe stato collocato sullo stesso piano del Concordato e questo era inaccettabile. (34) Il risultato fu che le chiese evangeliche non avviarono alcuna trattativa fin quando non passò il principio della bilateralità. (35) Tuttavia bisogna tener conto del fatto che questa posizione veniva assunta come mero adeguamento a quanto disposto dall’articolo 8 della Costituzione perché lo strumento dell’intesa appariva l’unico disponibile per addivenire all’abolizione della legislazione sui culti ammessi del 1929 e 1930 e perciò non si ravvisava in esso alcun elemento di logica concordataria sia dal punto di vista formale sia sostanziale; infatti, il Concordato era da inquadrare nella logica dei trattati internazionali, mentre l’intesa era da ricondurre alla logica degli accordi politici interni. (36)

Su queste basi veniva inoltrata dalla Tavola valdese, organo esponenziale delle chiese valdesi e metodiste che nel frattempo si erano fuse in un’unica realtà ecclesiastica, la prima richiesta di una confessione religiosa diversa dalla cattolica di stipulare un’intesa ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione che fu firmata dal governo italiano solo nel 1984 (21 febbraio); ma il 1984 fu anche l’anno della revisione del Concordato (18 febbraio). A tre giorni di distanza l’una dall’altro, ma l’intesa dopo il Concordato! E probabilmente la distanza fu così breve solo perché il presidente del Consiglio era un socialista. Questa volta, però, gli evangelici rappresentati da Giorgio Peyrot si impuntarono e ottennero che la legge di approvazione del Concordato seguisse quella dell’intesa con la Tavola Valdese; infatti, l’intesa fu ratificata l’11 agosto 1984 e il nuovo Concordato il 25 marzo 1985. Una cosa del tutto simbolica e ininfluente, ma niente affatto scontata. Nel protocollo addizionale il nuovo Concordato conteneva un’importante novità: aboliva il concetto di religione di Stato ormai anacronistico, ma salvaguardava l’insegnamento della religione cattolica a scuola. Gli evangelici reagirono come poterono, ma non ci fu molto da fare; allora si avviarono iniziative per tentare di ottenere che l’insegnamento della religione cattolica assumesse una valenza più ampia e si trasformasse in insegnamento di “religioni nella storia”. Cosa sulla quale si è discusso e ancora si discute molto, ma sostanzialmente senza progressi. (37)

5.   Il pluralismo evangelico e l’articolo 8 della Costituzione

L’intesa stipulata dalla Tavola valdese aprì la strada ad altre intese con chiese evangeliche che erano ormai già in lista d’attesa; anzi, fu chiesto più o meno apertamente alle altre chiese di permettere ai valdesi di farla per primi in parte per motivi storici, essendo gli evangelici più antichi presenti in Italia (la chiesa valdese si definiva mater reformationis, vantava cioè una sorta di diritto di primogenitura anche sulla Riforma protestante essendo erede dell’antico movimento medievale), ma anche per motivi tecnici in quanto i più attrezzati sotto il profilo giuridico; avevano, infatti, un ordinamento ben delineato e giuristi di prim’ordine in grado di interloquire con gli esperti del governo e le istituzioni pubbliche. (38) Per certi aspetti quell’intesa ha una sua peculiarità che non è stata più replicata; si tratta, infatti, dell’unica confessione a cui si riconosce indipendenza e originarietà del proprio ordinamento, al pari di quello della chiesa cattolica. Oltre a ciò la chiesa valdese aveva il merito di avere associato nella trattativa la chiesa metodista, dopo averla integrata nel proprio ordinamento nel 1974; un’operazione anche questa destinata a non essere più replicata. Ma qui si apre un altro capitolo del rapporto tra lo Stato e le chiese evangeliche e fa capo alla domanda: perché tante intese con le chiese evangeliche e non una sola? Anche su questo gli evangelici discussero molto. Alla fine, prevalse l’indirizzo di Peyrot; la convinzione che bisognava chiedere l’applicazione dell’articolo 8 si affermò contro il parere di Peyrot e perciò si avviarono le trattative. Questo avvenne tra il 1969 e il 1973. Ma ottenne che se proprio si doveva andare in quella direzione, gli evangelici dovevano farlo ciascuno per conto suo: ogni confessione doveva fare la propria intesa, perché gli ordinamenti di cui sono portatrici le confessioni religiose “con- cernono valori giuridici inerenti lo spirito” e la questione di come questi possano rapportarsi ai valori statali che concernono l’ordine materiale costituisce un grosso argomento di studio, suggestivo, che il problema delle intese pone all’attenzione del diritto ecclesiastico. Si trattava di una posizione solo apparentemente ispirata a una logica di parte; in realtà, ancora una volta gli serviva come occasione per segnalare la debolezza dell’articolo 8, che per lui si riferiva a un “coacervo ano- nimo degli indistinti” nel momento in cui faceva genericamente riferimento alle confessioni diverse da quella cattolica e perciò andava rettamente interpretato in direzione pluralista. (39)

Nella prospettiva di Peyrot quella debolezza doveva ora diventare l’opportunità per ogni articolazione confessionale di vedere riconosciuta la propria specificità. Anzi, lo strumento delle intese doveva diventare lo strumento per il rispettoso riconoscimento da parte dello Stato della specificità e della diversità. Un’interpretazione geniale da un punto di vista evangelico, perché coniuga il principio della separazione con quello della negoziazione senza cedimenti (che Peyrot definisce “coordinazione”’ tra Stato e confessioni religiose). E tutto ciò, ancora una volta, partendo da profonde premesse spirituali e teologiche; infatti, se gli ordinamenti di cui sono portatrici le confessioni religiose concernono valori giuridici inerenti allo spirito, allora l’intesa con lo Stato diventa l’affermazione di un principio di assoluta libertà: la proclamazione nella teoria e nella prassi del diritto alla differenza, “un abito su misura e non un prèt à porter”. Si spalancò così la porta al pluralismo confessionale evangelico, ma la si aprì anche al denominazionalismo evangelico; così nel 1988 fu ratificata l’intesa con la chiesa avventista e quella con le Assemblee di Dio in Italia; nel 1995 quella con le chiese battiste dell’U- CEBI e quella con la chiesa luterana; nel 2012 quella con la chiesa apostolica in Italia. Altre sono in attesa.

Lo scenario era stato ampiamente previsto, allorché si addiveniva alla stipula dell’intesa con la Tavola valdese, sia dai rappresentanti governativi sia dalla riflessione giuridica; la presenza evangelica in Italia negli anni Ottanta del Novecento era già piuttosto diversificata e con orientamenti diversi nella considerazione dei rapporti con lo Stato. Non sfuggiva, infatti, l’articolazione delle posizioni e degli sviluppi che sarebbero derivati dall’applicazione dell’articolo 8 della Costituzione e le connesse problematiche che avrebbero poi finito per lasciare prive di intesa la maggior parte delle chiese evangeliche; si paventava il rischio che la nuova situazione determinatasi mettesse in discussione i principi fondamentali sui cui si reggevano le disposizioni costituzionali in materia di libertà religiosa quali la pari dignità, l’uguaglianza davanti alla legge e la eguale libertà delle confessioni religiose; e ciò per via del mancato utilizzo o della mancata applicazione dell’articolo 8. (40) Il pluralismo evangelico calato nell’istituto costituzionale delle intese ne evidenziava quasi subito potenzialità significative, ma anche carenze che nel tempo non sono state colmate; infatti, i rapporti tra lo Stato e le chiese evangeliche prive di intesa sono (come del resto quelli con tutte le confessioni religiose che si ritrovano in questa fattispecie) ancora disciplinate dalla legislazione fascista del 1929/30, sia pure solo per la parte sopravvissuta alla potatura della Corte costituzionale. Di fatto queste chiese sono considerate “culti ammessi”, qualifica che rimanda a un concetto molto diverso da quello di ‘eguale libertà’ attestato nella Costituzione. (41)

Questo stato di cose ha fatto aumentare in modo esponenziale le richieste di applicazione dell’articolo 8 da parte di denominazioni evangeliche che spesso sono molto vicine tra di loro teologicamente, ma si differenziano in alcuni aspetti ecclesiologici importanti. Si tratta di uno scenario sempre più preponderante sul piano giuridico e relativo anche ad ambiti religiosi non cristiani. La specificità delle intese che finora le chiese evangeliche hanno stipulato dimostra che non si possono affrontare le questioni relative all’applicazione dell’articolo 8 fuori da una logica di pluralismo non solo religioso, ma anche confessionale e ora sempre più anche denominazionale; e forse bisogna tornare a chiedersi se l’istituto dell’intesa concepito in uno scenario completamente diverso e distante da quello attuale possa ancora essere uno strumento utile in termini di espansione della libertà religiosa nel senso di libertà di coscienza e di culto. E tuttavia, se si sostiene (come una buona parte della dottrina e della giurisprudenza) che l’applicazione dell’articolo 8 è considerato ormai un atto politico e quindi soggetto agli umori dei governi in carica e se si aggiunge che l’iter per addivenire alla stipula di un’intesa richiede spesso lunghi anni di attesa, si capisce che ci saranno sempre confessioni prive della tutela di questo istituto; il che impone ancora una volta di prendere atto della sua inadeguatezza o quanto meno del suo carattere parziale e non risolutivo per quanto riguarda l’affermazione della libertà religiosa. (42) Infatti, il sospetto iniziale che aveva orientato le chiese evangeliche nei confronti dell’istituto delle intese e che era stato superato a fatica cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno, è oggi pienamente avallato dalla deriva che l’interpretazione statocentrica ha imboccato negli ultimi venti anni; il nuovo scenario ha provocato una battuta d’arresto nella concessione delle intese. In questo modo il principio della bilateralità diventa lo strumento attraverso il quale il governo decide se una confessione religiosa debba o no accedere alla stipula delle intese e questo atteggiamento induce a un appiattimento dei contenuti e a una spinta all’omologazione che contraddice la sostanza stessa del dettato costituzionale espresso nell’articolo 8: «Proprio questa ripetitività dei contenuti sarà destinata a suscitare notevoli perplessità soprattutto dal momento in cui le intese, da strumenti immaginabili per la regolamentazione di questioni specifiche in quanto attinenti alle confessioni di volta in volta contraenti, si sono concretizzate, invece, come il luogo in cui il riscatto dalla soggezione di ciò che resta della legislazione fascista sui culti ammessi ha assunto le forme di un riconoscimento politico selettivamente distribuito». (43) In fin dei conti, sulla base di una chiara assunzione della primazia della chiesa cattolica all’interno della legislazione speciale in materia di libertà religiosa, si accettavano i due principi di base che da secoli caratterizzano la politica di quest’ultima nei confronti degli Stati: il confessionismo e la bilateralità; entrambi funzionali a una concezione verticistica e apicale dei rapporti tra stato e chiese tesa a creare una gerarchia di riconoscimenti e il mantenimento di privilegi corporativi. (44) Forse le chiese evangeliche sono costrette a prendere atto del fatto che l’istituto delle intese, così come oggi viene concepito, è sovente uno strumento altamente discriminatorio minando alla base i principi e i convincimenti che da sempre le hanno orientate in questa materia e racchiusi nella massima “lottare per la libertà di tutti”: il che non può significare lottare per estendere progressivamente i privilegi. Spesso si dice più o meno apertamente che tutti vogliono arrivare all’intesa per mettere le mani sull’otto per mille, quasi come se fosse una colpa; l’otto per mille sappiamo come e perché è nato. Chi e su quali basi dovrebbe decidere che alcuni hanno diritto ad averlo e altri no? Qui posso solo accennare alla disparità di trattamento che il regime delle intese provoca nei confronti delle confessioni prive di intesa per l’attribuzione dei fondi otto per mille. (45)

6.   Il caso pentecostale

Il pentecostalesimo, come tutti i movimenti di risveglio, nacque con una decisa carica antidenominazionale; sorto negli Stati Uniti proprio allo scoccare del XX secolo, si è proposto come movimento di risveglio trasversale alle chiese evangeliche, ma nel giro di pochi anni gli aderenti furono costretti a organizzare chiese autonome per via dell’incomprensione cui andarono incontro e spesso anche della difficoltà di motivare le ragioni della loro proposta religiosa. (46) Con il trascorrere degli anni, tuttavia, l’incremento numerico degli aderenti ha imposto forme di aggregazione e strutture organizzative che tentano di mantenere una sufficiente elasticità, ma inevitabilmente costituiscono nuove forme denominazionali. Se si considera la vastità del movimento, la sua diffusione in tutto il mondo e la pluralità di esperienze ecclesiali pregresse che confluirono al suo interno data la sua trasversalità quale movimento di risveglio, si capisce che esso si configura come una costellazione di gruppi, organizzazioni e soggetti ecclesiali che hanno dato vita a uno specifico denominazionalismo pentecostale; all’interno di questo mondo vi sono riferimenti culturali e teologici omogenei, ma anche posizioni a volte marcatamente diverse l’una dall’altra. Nella manualistica ormai si è giunti a una classificazione generale delle denominazioni pentecostali sulla base della loro storia, dei contenuti dottrinali e della diffusione geografica; in poco più di un secolo questo movimento si sarebbe diffuso e ingrandito in quattro “ondate” successive. Si tratta, tuttavia, di classificazioni utili solo a inquadrare un fenomeno di portata mondiale e in continua espansione dove accanto a evidenti punti di contatto ci sono anche significative discontinuità e peculiarità dottrinali spesso inconciliabili tra loro. (47)

I pentecostali e le chiese da loro formate costituiscono la famiglia evangelica più recente sorta in Italia; la loro rilevanza è soprattutto legata al fattore numerico se paragonata alla presenza storica degli evangelici nel nostro paese. (48) Gli emigrati italiani furono raggiunti dal risveglio pentecostale nel 1907; ciò fu possibile grazie al coinvolgimento delle comunità evangeliche di lingua italiana che negli Stati Uniti avevano raggiunto una ragguardevole diffusione per via della grande ondata di emigrazione che alla fine dell’Ottocento aveva interessato l’Italia con grandi flussi migratori verso il Nord America. Questo fenomeno portò alla costituzione, tra il 1901 e il 1921, di molte comunità evangeliche di lingua italiana che per la loro consistenza ebbero una notevole influenza; tra le prime a essere fondate la chiesa battista di Buffalo (1890) e quella presbiteriana di Chicago (1892).49 Proprio in questa città si costituì la prima chiesa pentecostale italiana da cui partirono azioni missionarie destinate a diffondere questa spiritualità prima tra gli emigrati nel nord America, poi nel sud America e approdare infine in Italia. I pentecostali, infatti, giunsero nel nostro paese ufficialmente alla fine del1908 con Giacomo Lombardi, il quale arrivò  a Roma su incarico della chiesa di Chicago e iniziò una missione che nel giro di qualche decennio avrebbe visto nascere e crescere a ritmo sorprendete una nuova denominazione evangelica nel nostro paese. Dal 1910 in avanti, Lombardi e altri componenti della chiesa di Chicago tornarono ripetutamente in Italia per fare la loro parte nella diffusione del messaggio pentecostale; questa azione missionaria portò a una prima diffusione del pentecostalesimo in diverse regioni italiane tanto che un elenco in possesso del Ministero degli Interni risalente al 1929, segnalava la presenza di pentecostali in circa 150 località d’Italia con non meno di 25 locali di culto aperti al pubblico. (50)

Sostenitori di un’ecclesiologia rigidamente congregazionalista per circa venti anni i pentecostali beneficiarono del clima più o meno favorevole nel quale le chiese evangeliche si muovevano nei primi decenni del Novecento; (51) la mancanza di relazioni ufficiali tra lo Stato e il Vaticano favoriva una relativa libertà di azione con la sostanziale messa in mora dell’articolo 1 dello Statuto albertino che riconosceva la chiesa cattolica come chiesa di Stato. Con l’entrata in vigore della legge sui culti ammessi del 1929, quindi, si ritrovarono nelle condizioni di poter fruire delle opportunità che la legge offriva; (52) anche i pentecostali furono in un primo momento presi da un certo entusiasmo per questa legge che sembrava del tutto liberale. Infatti, in un convegno svolto a Roma nel del 1929, i convenuti esprimevano la loro soddisfazione; non chiesero il riconoscimento come ente di culto ai sensi dell’articolo 2 della legge, perché non erano ancora in grado di esprimere una struttura organizzativa unitaria che potesse agire in tal senso, ma ottennero l’approvazione del ministro di culto della chiesa di Roma ai sensi dell’articolo 3 della legge e dell’articolo 20 del decreto attuativo del 1930;53 per effetto di un’interpretazione piuttosto creativa della norma, quest’ultimo poteva delegare altri pastori senza riconoscimento governativo a svolgere gli atti di sua competenza nell’ordinamento dello Stato, come la celebrazione dei matrimoni. (54) Tali concessioni implicavano il riconoscimento dei pentecostali come culto ammesso, cosa formalmente attestata dal Ministero dell’interno in quegli anni. (55)

Tra il 1931 e il 1934 le cose cambiarono molto, finché nel 1935 con la circolare ministeriale firmata dal sottosegretario Buffarini Guidi, considerato il più grave atto di intolleranza religiosa che sia stato emanato in Italia dopo l’unificazione della penisola, i pentecostali furono messi al bando. (56) Questa circolare poneva a giustificazione della propria ordinanza motivi di carattere razziale prima che fossero approvate le leggi razziali contro gli ebrei (1938); sosteneva infatti che le chiese pentecostali svolgevano “pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità psichica e fisica della razza”. Con questo atto si aprì per i pentecostali un autentico periodo di persecuzione, durato fino al 1943; fu un episodio molto grave che coinvolse vari soggetti istituzionali e anche alti esponenti della chiesa cattolica. (57) Infatti, nel corso di quegli anni i provvedimenti antipentecostali furono reiterati in modo sempre più insistente e questa circolare provocò danni che andarono ben oltre il 1943, fino alla sua abolizione nel 1955. (58) L’impari confronto con il regime fascista a cui le chiese pentecostali furono costrette le vide sostanzialmente isolate, abbandonate al loro destino dagli altri evangelici: o per la necessità di prendere le distanze da “parenti” scomodi o per fastidio teologico ed ecclesiastico generato dalle modalità espressive della spiritualità pentecostale e dall’azione insistente nel proporre la propria esperienza religiosa; (59) ma non bisogna neanche sottovalutare il peso che ebbero i casi di competizione a livello locale che induceva spesso i membri delle chiese evangeliche esistenti a migrare verso i nascenti gruppi pentecostali. (60)

Nonostante la caduta del fascismo, la fine della guerra, il mutamento della forma di Stato e la nuova Costituzione, la condizione dei pentecostali non cambiò; la circolare Buffarini Guidi continuò a essere il punto di riferimento per politici, organi di polizia periferici e forze sociali a essi ostili. Ci volle un vero e proprio movimento di opinione che coinvolse uomini di cultura, giuristi e parlamentari per portare il caso alla ribalta dell’opinione pubblica nazionale e internazionale e per convincere anche un personaggio come Scelba che ormai non si poteva più continuare con quella strategia; anche perché i pentecostali che non si erano piegati alla persecuzione fascista non si sarebbero certo fatti intimorire da un governo miope e clerico-conservatore. Tuttavia, anche in questo periodo i pentecostali furono in un primo momento lasciati soli e fu necessario un energico richiamo di Gaetano Salvemini agli evangelici, in particolare ai valdesi che erano maggiormente esposti nella battaglia per la libertà religiosa del dopoguerra, per ottenere un cambio di atteggiamento; la cosa giovò non poco alla causa che si stava difendendo, visto che i casi di discriminazione che spesso costituivano le fonti su cui basare denunce e proteste, venivano quasi tutti dal mondo pentecostale. Indubbiamente, sotto il profilo tecnico-giuridico, un merito particolare è da ascrivere a Giorgio Peyrot; nel corso della sua vita più volte si mise a disposizione del mondo pentecostale per aiutarlo a dare una cornice giuridica alle proprie chiese nel nuovo quadro dell’ordinamento repubblicano.

Fu questo il più significativo segnale del mutato atteggiamento delle altre chiese evangeliche nei confronti dei pentecostali, in particolare da parte della chiesa valdese, che dal dopoguerra in poi ha sempre mostrato vicinanza e sostegno. Così, nel 1955 si ottenne il ritiro della famigerata circolare nel: esattamente venti anni dopo la sua emanazione, ma i suoi effetti si prolungarono ben oltre quell’anno. (61)

Nel frattempo, all’interno del mondo pentecostale si era avviato un dibattito molto vivace sulla necessità di darsi una forma organizzativa idonea a permettere il riconoscimento da parte dello Stato; in questa direzione spingevano le autorità governative, soprattutto dopo che una parte delle chiese pentecostali aveva deciso di affiliarsi a un grosso ente americano, le Assemblies of God, assumendo nel 1947 la denominazione di Assemblee di Dio in Italia. Il passaggio era stato sofferto e aveva provocato fratture che non si sarebbero più sanate perché la nuova struttura si attestava su una forma organizzativa diversa e in dissonanza con la storia strettamente congregazionalista dei pentecostali italiani; questo fatto costituì uno spartiacque nella storia pentecostale italiana e da allora quel mondo vide muoversi al proprio interno due filoni distinti: uno rappresentato dalle Assemblee di Dio in Italia, che correggeva in senso presbiteriano il congregazionalismo originario; l’altro senza apparente raccordo, quindi meno visibile, meno numeroso ma più dinamico. Si profilava uno scenario sul piano dell’evoluzione organizzativa all’interno del mondo pentecostale destinato a diventare sempre più caratteristico dei suoi rapporti con lo Stato; il quadro normativo relativo all’esercizio della libertà religiosa generalmente lo penalizza e lascia aperte questioni che si trascinano da decenni. Infatti, i percorsi a cui lo Stato obbliga per conseguire il riconoscimento giuridico, molto spesso configgono con le convinzioni ecclesiologiche e questo provoca tensioni interne tra spinte aggregatrici funzionali ai riconoscimenti e affermazioni di principio di tipo massimalista in relazione alla separazione tra Stato e chiese. (62) Non è certo un buon esercizio di libertà se per ottenerla bisogna sacrificare le proprie convinzioni.

In Italia è sempre esistito un ‘caso pentecostale’ quando si è trattato di misurare lo spessore o il progresso della libertà religiosa; non solo per le vicende giuridiche che i pentecostali e le chiese pentecostali hanno dovuto affrontare, ma probabilmente per il fatto che la loro auto comprensione intreccia, senza soluzione di continuità, la richiesta di libertà religiosa come diritto soggettivo a tutela della coscienza individuale con quella intesa come diritto oggettivo a tutela delle comunità che nascono dall’esperienza e dall’accoglienza di questa spiritualità. Una intersecazione che ha sempre trovato difficoltà a essere capita e questo ha pro- vocato spesso frizioni con le autorità statali, in particolare con il Ministero dell’in- terno a volte preoccupato, più spesso infastidito, dal pluralismo pentecostale che finisce con l’estrinsecarsi in un denominazionalismo talvolta difficile da interpretare. Il diritto, però, non può ignorare ciò che fatica a capire; piuttosto deve assumere ciò che non capisce come presupposto per la sua azione, volta a rendere giuridicamente comprensibile quello che in prima istanza sembra non esserlo. Insomma, c’è un diritto ad avere diritti, per dirla con Stefano Rodotà, e le difficoltà legate alle fattispecie non possono risolversi con la sua negazione. I pentecostali sono stati un “caso” quando si sono dovuti confrontare con il regime fascista; lo sono stati quando nel dopoguerra hanno dovuto subire discriminazioni dai primi governi repubblicani fornendo molto materiale per la battaglia relativa alla libertà religiosa che in quegli anni si combatteva sui mass media, nei tribunali e nel Parlamento; lo sono oggi perché non riescono a veder riconosciuta la loro pluralità e diversità e spesso vengono costretti a modificare e mortificare le loro posizioni ecclesiologiche per ottenere qualche forma di riconoscimento giuridico. Tale scenario ha prodotto conseguenze di lungo periodo perché le Assemblee di Dio in Italia raggiunsero l’agognato riconoscimento come ente di culto nel 1959 e poi firmarono l’intesa con lo Stato ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione nel 1986, diventata legge nel 1988; gli altri pentecostali sono stati dimenticati da tutti. Ci sono voluti più di vent’anni perché un’altra denominazione pentecostale, la Chiesa Apostolica in Italia, firmasse (2007) e poi vedesse trasformata in legge la propria intesa (2012). La questione oggi si ripropone con forza dal momento che diverse formazioni pentecostali figlie di quel cammino parallelo iniziato nel 1947 hanno raggiunto il riconoscimento giuridico come ente di culto ed ora ambiscono a stipulare l’intesa con lo Stato. (63) Come risponde quest’ultimo?

Sembra che l’orientamento sia quello di non rispondere o di rispondere negativamente giocando con il concetto di “confessione religiosa” per stabilire chi può fregiarsene, oppure insistendo sulla prerogativa di unilateralità decisionale nel- l’avviare o meno la procedura da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri; in questa direzione, la sentenza della Corte costituzionale 52/2016 ha avallato una interpretazione del principio di discrezionalità governativa nell’avviare o meno una trattativa di intesa. (64) Con tale sentenza, in buona sostanza, la Corte ha stabilito che avviare le trattative per la stipula di un’intesa è un atto politico e come tale è nella discrezione del governo, quindi non può essere sindacato in sede giurisdizionale. Si tratta di un pronunciamento dalle conseguenze rilevanti perché bisogna capire nella sostanza come si può raccordare con l’intero impianto costituzionale relativo alla libertà religiosa; (65) infatti, così stando le cose, il governo non solo stabilisce se avviare o meno una trattativa, ma più o meno apertamente decide anche se la parte richiedente può o meno essere considerata una confessione religiosa. Talché, con un atto di imperio si attribuisce una patente a sentimenti che affondano la loro radice nella più profonda coscienza degli esseri umani stabilendo dall’esterno se quel sentimento sia religioso o meno. Le conseguenze che ne derivano sono pesanti perché in questo modo non è facile distinguere la discrezionalità dall’arbitrio che porta direttamente a imboccare la strada del sopruso; il tutto democraticamente garantito! (66) Probabilmente è proprio per questa “discrezionalità” politica che in Italia le confessioni religiose sono incasellate in una gerarchia di riconoscimenti che di fatto costituisce una negazione della libertà religiosa; declinare il concetto di libertà religiosa può significare aprire una discussione infinita, ma credo sia pacifico affermare che non esiste una libertà vera senza pari opportunità e pari dignità. In un sistema piramidale di riconoscimenti, dov’è la pari dignità e la pari opportunità? Sul gradino più alto troviamo il Concordato con la chiesa cattolica, che ispira la legislazione dei rapporti tra Stato e chiese come una silenziosa norma normans; poi ci sono le confessioni religiose con intesa, il riconoscimento dei singoli enti di culto riconosciuti, che però lascia impregiudicato il loro statuto confessionale; quindi gli enti di culto non riconosciuti, che hanno però ministri di culto approvati ai sensi della legge del 1929 sui culti ammessi; (67) infine ci sono le semplici associazioni senza neppure il ministro di culto approvato o le associazioni di fatto. Almeno sei livelli di articolazione favoriti dall’assenza di una legislazione omogenea che tendenzialmente è anche causa di questa differenziazione. (68) E, come tutti sanno, i vantaggi e i privilegi aumentano man mano che si scala la piramide; un sistema, quindi, oggettivamente discriminatorio che diventa spesso insopportabile quando le comunità religiose si devono misurare con le normative emanate dagli enti locali che in più di un’occasione è stato necessario correggere grazie ai pronunciamenti della Corte costituzionale. (69)

7.   Conclusioni

Il mondo evangelico è per definizione plurale; la battaglia che ha condotto in Italia per la libertà religiosa è stata soprattutto una battaglia per l’affermazione del pluralismo religioso. Il caso pentecostale dimostra che la questione è ancora aperta; l’articolo 8 della Costituzione fu immaginato e formulato in uno scenario confessionale molto più ridotto dell’attuale. Quello odierno non solo vede molte più confessioni cristiane presenti in Italia, ma anche molte denominazioni cristiane a cui si sono aggiunte le religioni non cristiane con le loro varianti interne. L’istituto dell’intesa può continuare a svolgere la sua funzione solo ammettendo che alle intese possono accedere non solo confessioni omogenee dal punto di vista teologico ed ecclesiologico, ma anche federazioni di chiese che, pur mantenendo un assetto unitario nei confronti dello Stato, possono però articolare una differenziazione interna capace di salvaguardarne le peculiarità; e questo per limitarci al mondo cristiano. (70) Ma la fattispecie potrebbe essere una possibilità di soluzione anche per le componenti religiose non cristiane, a partire dalle comunità islamiche. Per molto tempo si è sostenuto, più o meno apertamente, che una federazione non consente di essere identificata come una confessione religiosa; ma in realtà quasi tutte le intese stipulate ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione sono rivolte a normare i rapporti con enti federali di fatto e di diritto, anche se non dichiarati tali. Non solo sarebbe utile favorire trattative con enti federali, ma sarebbe ancora più utile se confessioni già dotate di riconoscimento come enti di culto o anche di intesa potessero a propria volta federarsi con altre confessioni prive o dotate di intese per semplificare il quadro dei rapporti con lo Stato. In fin dei conti devono essere i soggetti interessati a decidere se e in che modo possono definirsi “confessione religiosa” e non certo lo Stato, che è chiamato solo a dare atto degli ordinamenti ecclesiastici proposti e non a definirli o, come anche spesso accade, a pretendere che la confessione muti sostanziali principi identitari per ottenere il riconoscimento giuridico; il che è molto deplorevole. Ne sono prova le dispute con il Ministero dell’interno su quali siano le caratteristiche dei ministri di culto, sulle loro funzioni e sulle modalità delle nomine quando al confronto si presenta un ente religioso con caratteristiche non assimilabili a quelle già note: questione piuttosto antipatica quando le organizzazioni con le quali il Ministero si trova a trattare professano un’ecclesiologia congregazionalista che ha come cardine la pluralità ministeriale nell’esercizio pastorale e nella diaconia ecclesiale e non l’identificazione di un’unica figura come ministro di culto tipica di altri ordinamenti. (71)

Questo stato di cose ha da molti anni ormai, ma senza successo, imposto nel dibattito accademico e politico una riflessione sulla necessità di andare verso una legge generale relativa alla libertà religiosa che possa superare definitivamente la legislazione sui culti ammessi, a quasi un secolo dalla sua emanazione, e allo stesso tempo evitare i privilegi discriminanti della legislazione speciale di ispirazione pattizia tra Stato e confessioni religiose. In realtà, solo con l’emanazione di una tale legge si produrrebbe probabilmente un salto di qualità decisivo per il godimento della libertà religiosa; (72) ma di questa ipotesi si parla da circa quarant’anni senza alcun progresso, nonostante i tanti disegni di legge presentati in Parlamento. E forse questa difficoltà è collegata anche alla preoccupazione che una legge in materia anziché garantire la libertà religiosa, potrebbe diventare lo strumento per limitarla. Al momento ci dobbiamo accontentare di una legge voluta da sua eccellenza il Duce e promulgata da sua maestà Vittorio Emanuele III!

Carmine Napolitano – Preside della Facoltà Pentecostale di Scienze Religiose, membro dell’Ufficio di Presidenza della Commissione delle Chiese Evangeliche per i Rapporti con lo Stato (CCERS).

NOTE

1 ROMEO  DE  MAIO, Riforme e miti nella chiesa del Cinquecento, Guida, Napoli, 1971, pp. 11-16.

2  UGO  GASTALDI, Storia dell’anabattismo, vol. I, Claudiana, Torino 1971, p.12; JOSEF  MACEK, La riforma popolare, Sansoni, Firenze 1973, pp. 1-3; HILDEGARD EILERT, Riforma protestante e rivoluzione sociale. Testi  della  guerra  dei  contadini  tedeschi  (1524-1526),  Guerini  e  Associati,  Milano  1988,  pp.  11-35; FULVIO FERRARIO, “L’anabattismo svizzero delle origini nella storiografia recente” in Protestantesimo, n. 3 (1990):179-199. MARIO  BIAGIONI  – LUCIA  FELICI, La Riforma radicale nell’Europa del Cinquecento, Edizioni Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 31-60; MASSIMO RUBBOLI, La riforma protestante tra mito e memori storica, Com Nuovi Tempi, Roma, 2020, pp. 20-57.

3 Un’esposizione ordinata e chiara di questi aspetti complessi e importanti qui solo accennati si trova in RUBBOLI, I protestanti. Da Lutero alle chiese, ai movimenti evangelici del nostro tempo, Il Mulino, Bologna, 2007. Ma si veda anche FULVIO Ferrario – PAWEL GAJEWSKI, Il protestantesimo contemporaneo. Storia e attualità, Carocci, Roma, 2007. Per il rapporto tra Riforma e Protestantesimo si veda EMANUELE FIUME, Il protestantesimo. Un’introduzione, Claudiana, Torino, 2006, pp. 9-11.

4 MASSIMO INTROVIGNE – PIERLUIGI  ZOCCATELLI  a cura di, Enciclopedia delle religioni in Italia, Elledici, Leumann, 2006, pp. 131-138.

5  EMIDIO  CAMPI,  Nascita  e  sviluppo  del  protestantesimo  (secoli  XVI-XVIII),  in  GIOVANNI  FILORAMO  –  DANIELE MENOZZI a cura di, Storia del cristianesimo, Edizione CDE, Milano 1999, vol. III, pp. 6-49.

6 GIANNI LONG, Gli ordinamenti giuridici delle chiese protestanti, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 7-83. Si veda anche la riflessione sulla terminologia tesa a distinguere le chiese protestanti da quelle evangeliche, pp. 19-21.

7 ITALO MEREU, Storia dell’intolleranza in Europa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1979, pp. 100- 104.

8 AMEDEO MOLNAR, Storia dei valdesi. Dalle origini all’adesione alla Riforma, Claudiana, Torino, 1974, pp. 220-235.

9 LUCIA FELICI, Giovanni Calvino e l’Italia, Claudiana, Torino, 2010, pp. 37-74; SALVATORE CAPONETTO, La Riforma protestante nellItalia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1992, pp. 265-298; 323-357; 377-

436. DELIO  CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, Einaudi, Torino, 2002, pp.37-48; 62-68.

10  RAFFAELE  VOLPE,  Manuale  di  spiritualità  anabattista.  Giungere  fino  alla  radice,  Edizioni  GBU,  Chieti, 2019, pp. 255-262.

11 GASTALDI, Storia dell’anabattismo, vol. II, Claudiana, Torino, 1981, pp. 531-590.

12  GIORGIO  SPINI, Risorgimento e protestanti, Il Saggiatore, Milano, 1989, pp. 7-26.

13 VALDO VINAY, Storia dei valdesi. Dal movimento evangelico italiano al movimento ecumenico (1848- 1978), vol. III, Claudiana, Torino, 1980, pp. 11-12.

14 I valdesi erano riusciti a sopravvivere attraverso inenarrabili sofferenze ai tribunali dell’inquisizione e ai rei- terati tentativi di sterminio (noto quello realizzato in Calabria tra il 1561 e il 1563) messi in atto nei loro con- fronti anche dal potere sabaudo; quelli che vivevano in Puglia furono “persuasi” a ritornare alla chiesa romana avendo ancora negli occhi la carneficina calabrese. Cfr. CAPONETTO, La Riforma protestante, pp. 392-399; ADRIANO PROSPERI, Tribunali della coscienza, Edizione CDE, Milano, 1998, pp. 5-15.

15 SPINI, Risorgimento e protestanti, cit., pp. 45-115. Si veda anche AURELIO PENNA – SERGIO RONCHI, Il Protestantesimo. La sfida degli evangelici in Italia e nel mondo, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 195-214. 16 Tale dinamica riguardò in particolare metodisti, battisti, avventisti ed esercito della salvezza. Esistono diverse pubblicazioni che ricostruiscono l’origine e la diffusione di questi evangelici in Italia; qui di seguito cito le più note, tutte pubblicate dalla Claudiana di Torino. Per uno sguardo d’assieme VINAY, Storia dei valdesi, cit. Per gli avventisti GIUSEPPE  DE  MEO, Granel di sale. Un secolo di storia della Chiesa Cristiana Avventista del 7° giorno in Italia (18641964), 1980; per l’esercito della salvezza DAVID  ARMISTEAD, Cristiani in divisa, 1987; per le chiese metodiste FRANCO CHIARINI a cura di, Il metodismo italiano (1861- 1991),  1997;  ID.,  Storia  delle  chiese  metodiste  in  Italia  (1859-1915),  1999;  per  le  chiese  battiste DOMENICO  MASELLI, Storia dei battisti italiani (18631923), 2003.

17 Fu il caso dei “Fratelli”; cfr. ID, Tra Risveglio e Millennio. Storia delle chiese cristiane dei Fratelli (1836-1886), Claudiana, Torino 1974, pp. 41-120.

18 è soprattutto il caso dei pentecostali; cfr. CARMINE NAPOLITANO, Nella forza dello Spirito. Una lettura “interna”  del  pentecostalesimo  in  «SMSR»,  n.  82  (1/2016),  pp.  45-54.  Inoltre,  ID.,  Giuseppe  Petrelli teologo pentecostale delle origini, Fondazione Chàrisma Edizioni, Aversa 2015. MASSIMO INTROVIGNE, IPentecostali, Elledici, Leumann 2004, pp. 60-77. PAOLO  NASO, Cristianesimo: Pentecostali, EMI, Bologna 2013, pp. 108-110.

19 ALEXANDRE VINET, Libere Chiese in Libero Stato. Memoria in favore della libertà dei culti (1826) a cura di STEFANO  MOLINO, Edizioni GBU, Chieti, 2008, introduzione, pp. 7-59. Si veda anche la postfazione di Mario Miegge, pp. 331-349.

20 è noto che proprio in queste correnti della Riforma furono elaborate la prima teorizzazione della libertà di coscienza e della tolleranza religiosa; cfr. DE MAIO et alii, Le fonti della storia moderna. Tolleranza e repressione, Loescher editore, Torino, 1993, pp. 236-245. RUBBOLI, La riforma protestante tra mito e memoria storica, Com Tempi Nuovi, Roma 2020, pp. 77-83.

21 Il legame diretto di Vinet con l’esperienze e la spiritualità del Risveglio della prima metà dell’Ottocento è piuttosto significativo; cfr. MOLINO, Vinet e il problema della libertà religiosa, in SIMONE MAGHENZANI – GIUSEPPE PLATONE, Riforma, Risorgimento e Risveglio, Claudiana, Torino, 2011, pp. 115-140.

22 Il che rende curioso il fatto che questo testo sia stato pubblicato in italiano solo dieci anni fa, cioè 180 anni dopo che è stato scritto. Basterebbe questa notazione per segnalare l’atteggiamento culturale italiano di fronte alle questioni relative alla libertà religiosa e al modo laico di vivere i rapporti tra stato e chiese che invece nel mondo protestante trovavano un ambito molto più vivace.

23 La legge Sineo del 19 giugno 1848 aveva ribadito che «la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed alla ammissibilità alle cariche civili e militari».

24 Per ulteriori considerazioni si veda LONG, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica». Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, il Mulino, Bologna, 1991, pp. 13-21.

25 Sul ruolo che Piacentini ebbe nella redazione della legge e in generale sull’importanza della sua azione si veda DANIELE  FERRARI, Le minoranze religiose nel pensiero di Mario Piacentini (1929-1950), in Le minoranze religiose tra passato e futuro, a cura dello stesso, Claudiana, Torino, 2016, pp. 191-208. Nel mondo evangelico, comunque, la linea separatista era ben delineata e sostenuta anni dopo anche da chi qualche concessione giurisdizionalista aveva fatto; si veda l’articolo di Mario Alberto Rollier pubblicato sulla rivista L’Appello n. 6 del 1943. D’altra parte, sono note le pressioni che il Vaticano fece sul governo fascista perché la legge sui culti ammessi non fosse interpretata come utile ad estendere il diritto di libertà religiosa, ma solo come strumento di controllo e sostanzialmente di libertà vigilata.

26 LONG, Le confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., pp. 21- 34; GAGLIANO, Chiese evangeliche e tutela anglo-americana della libertà religiosa in Italia (1943-1947), in Odos, 1/2 (2013), pp. 135-166. 27 STEFANO GAGLIANO, La libertà di coscienza e di culto nel pensiero protestante e l’interpretazione di Giorgio Peyrot, introduzione a La libertà di coscienza e di culto di fronte alla Costituente italiana di Giorgio Peyrot, Edizioni GBU, Chieti, 2013, pp. 7-15.

28 VINAY, Storia dei Valdesi, vol. III, cit., pp. 421-424. Sul significato e l’importanza dell’azione di Giorgio Peyrot, oltre la già citata introduzione di Gagliano (nota 28) si veda Marco Ventura, Diritto e religione come questione di coscienza, in Long a cura di, Libertà religiosa e minoranze, Claudiana, Torino, 2007, pp.67-81; FRANCO GIAMPICCOLI, In memoria di Giorgio Peyrot, in «Protestantesimo», 1 (2006), pp. 31- 46; nello stesso numero il profilo tracciato da Gianni Long.

29 GAGLIANO, La libertà di coscienza e di culto, cit., p. 93.

30 SERGIO LARICCIA, Diritti civili e fattore religioso, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 29, 56-60.

31 Ibid., ivi, pp. 62-65; Long, Le confessioni religiose, cit. pp. 28-34. Sulla questione si veda il bel volume di  Gagliano,  Egualmente  libere?  Chiese  evangeliche  e  libertà  religiosa  in  Italia  (1943-1955),  Biblion edizioni, Milano 2016.

32 Quando cominciò a diventare chiaro che difficilmente la Costituente si sarebbe orientata verso una soluzione separatista nei rapporti tra stato e chiese il Consiglio federale delle chiese evangeliche dichiarò che «pur ritenendo che la libertà religiosa sia meglio tutelata in un regime di separazione completa tra chiesa e stato, riconosce che un regime concordatario può essere compatibile con la libertà religiosa purché quest’ultima sia proclamata senza ambiguità e contraddizioni»; cfr. FRANCO  GIAMPICCOLI, Liberi ma disuguali. Gli evangelici tra Costituzione repubblicana e leggi fasciste, Claudiana, Torino 1973, pp. 26-27.

33 GIORGIO PEYROT, Significato e portata delle intese, in Cesare Mirabelli, Le intese tra Stato e confessioni religiose. Problemi e prospettive, Giuffrè, Milano, 1978, p. 58.

34 Bisogna rilevare che con accenti prudenti, ma piuttosto chiari la Corte costituzionale ha ribadito in di- verse occasioni che la differenza c’è, perché l’eguale libertà non comporta identità di regolamento dei rapporti con lo Stato; cfr. ALESSANDRO FERRARI, La libertà religiosa in Italia. Un percorso incompiuto, Carocci editore, Roma 2012, p. 75.

35 GAGLIANO, La libertà di coscienza e di culto, cit., pp. 78-80.

36 Bisogna, però, ricordare che l’interpretazione positiva dell’istituto dell’intesa fu un traguardo graduale e controverso per le chiese evangeliche; cfr. LARICCIA, Diritti civili e fattore religioso, cit., pp. 69-72. LONG, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica», cit., pp. 91-98.

37 Ibid., Gli evangelici italiani e la scuola, in, Libertà religiosa e minoranze, cit., 101-122.

38 Ibid., Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica», cit., p. 133.

39 PEYROT, Significato e portata delle intese, cit. p. 55.

40 Ibid., Condizioni giuridica delle confessioni religiose prive di intesa, «Il Diritto Ecclesiastico», luglio-set- tembre 1984, pp. 628-637.

41 LONG, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica», cit., p. 255-262.

42 ALBERTO FABBRI, Le intese alla prova: nuovi attori e vecchi contenuti, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», n. 29 (2019), pp. 72-94. Inoltre, se si assume per fondata l’idea che una confessione reli- giosa può essere considerata tale solo in presenza della stipula di intesa perché il concetto stesso di confessione religiosa è stato introdotto con l’articolo 8 della Costituzione, allora la questione si complica ancora di più in senso discriminatorio; cfr. VALERIO TOZZI, Le confessioni prive di intesa non esistono, in «ivi», gennaio 2011, pp. 1-14. Per un ulteriore allargamento della questione si veda PIERLUIGI CONSORTI, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e proposta interculturale, in «ivi», maggio 2007, pp. 1-30; ID., Diritto e religione. Basi e prospettive, Editori Laterza, Bari-Roma 2020, pp. 132-145.

43 FERRARI, cit., p. 79.

44 Ibid, pp. 133-136.

45 Per una riflessione in tal senso cfr. CARMELA ELEFANTE, Il finanziamento delle religioni e l’esperienza del- lOtto per mille in Italia, in «Coscienza e Libertà», n. 57/58 (2019), pp. 35-39.

46 Cfr. WILLIAM KAY K., Pentecostalism, London, SCM Press, 2009, p. 15-23; WALTER HOLLENWEGER, Pentecostalism. Origins and Developments in Worldwide, Peabody, Massachussets, Hendrickson Publishers, 1997, p. 20-23. ANDERSON ALLAN, An Introduction to Pentecostalism, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, p. 166-183. Per la nascita e lo sviluppo del pentecostalesimo europeo si veda KAY  K. WILLIAM  E  ANNE  DYER, European Pentecostalism, Leiden-Boston, Brill, 2011, p. 19-289.

47 MASSIMO INTROVIGNE, I Pentecostale, Elledici, Leumann, 2004; un volumetto agile per approcciare la diversità  pentecostale;  ma  si  veda  anche  il  volume  di  NASO,  Cristianesimo:  Pentecostali,  Emi,  Bologna, 2013.

48  MASSIMO  INTROVIGNE  – PIERLUIGI  ZOCCATELLI  a cura di, Le religioni in Italia, Elledici, Leumann, 2006, pp. 3-9; FRANCESCA SCRINZI, I latinoamericani evangelici e il lavoro di cura, in DANIELE FERRARI, Le minoranze religiose, cit., pp. 63-78.

49 Ma si ha notizia di una First Italina Church fondata a New York forse già intorno al 1870. Cfr. LEONARD G. EMILE, Storia del Protestantesimo, Milano, Il Saggiatore, vol. III, tomo II, 1971, p. 197-198; SPINI, Studi sull’evangelismo italiano tra otto e novecento, Torino, Claudiana, 1994, p. 119-120.

50 “Cristiani Oggi”, periodico delle Assemblee di Dio in Italia, Roma 1991, nn.18/19; ROBERTO  BRACCO, Il risveglio pentecostale in Italia, Roma 1956, p. 8-15. L’elenco era stato compilato in modo attendibile da Mario Piacentini; cfr. ROCHAT, Le fonti della polizia, cit., p. 73. Il fatto, però, che su 150 località ci fossero solo 25 locali di culto aperti al pubblico suggerisce che nell’elenco erano finite anche segnalazioni di semplice presenza individuale a volte anche occasionale.

51 LUCA ARESI, La Pentecoste rinnovata. I primi anni di vita del movimento pentecostale italiano, in “Annali di Storia moderna e contemporanea”, Vita e Pensiero, n. 9 (2003), pp. 556-557, 573. Il congregazionalismo come ordinamento giuridico ecclesiastico nasce specificamente nel XVII secolo in Gran Bretagna dando vita ad una forma di chiesa distinta sia da quella anglicana che da quella presbiteriana. La visione ecclesiologica congregazionalista prevede che: la chiesa locale sia l’espressione originaria e centrale della  chiesa  visibile  sotto  la  guida  immediata  di  Cristo;  le  chiese  locali  siano  autonome  sotto  il  profilo amministrativo e pastorale; le strutture sovralocali hanno carattere di servizio e non di governo; cfr. LONG, Le confessioni, cit. p. 231. Tuttavia, ciò non impedisce la creazione di reti organizzative più complesse basate su una confessione di fede e su un patto federativo che salvaguarda l’autonomia delle chiese che aderiscono.

52  Cfr.  Raccolta  degli  Atti  dei  Convegni  Nazionali  e  delle  Assemblee  Generali  1928-1969,  stampata ma non pubblicata, Roma s.d., p. 5.

53 Il decreto di approvazione costituiva, secondo il parere di uno dei maggiori estensori della legge sui culti ammessi, riconoscimento legale del culto pentecostale; cfr. MARIO PIACENTINI, I culti ammessi nello stato italiano, Hoepli, Milano 1934, p. 341.

54 BRACCO, Il risveglio, cit., pp. 19-20.

55 Il 30 dicembre del 1931 una circolare ministeriale ai prefetti segnalava come degne di attenzione le lamentele dei pentecostali per la mancata applicazione a loro di tali disposizioni libertarie; inoltre, affermava «la piena libertà dell’esercizio dei culti diversi dalla religione cattolica apostolica romana» e aggiungeva: «Né alcuna particolare eccezione può essere fatta per quanto ha riguardo alla chiesa pentecostale, trattandosi di culto già esistente nello Stato alla data dell’entrata in vigore della legge 24 giugno 1929». Cfr. PEYROT, La circolare Buffarini Guidi, Roma, Associazione di cultura religiosa, 1955, p. 10-11.

56 BRACCO, Il risveglio, cit., pp. 24-26; PEYROT, La circolare Buffarini Guidi, cit.; ROCHAT, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 113-126. Con questa circolare veniva contraddetta la circolare del 1931 e si elencava tra le cause della messa al bando il fatto che il culto pentecostale non era riconosciuto ai sensi dell’articolo 2 che prevede l’erezione in ente morale degli istituti dei culti ammessi; ma questa ri- chiesta di riconoscimento era (ed è) una possibilità offerta ai culti ammessi, non un obbligo per essere considerato culto ammesso.

57 PAOLO ZANINI, Il culmine della collaborazione antiprotestante tra Stato fascista e Chiesa cattolica: genesi e applicazione della circolare Buffarini Guidi, in “Società e storia”, n. 155 (2017) pp. 140-163. L’ampiezza del coinvolgimento cattolico ha indotto l’attuale Papa a chiedere pubblicamente scusa. Tra le tante segnalazioni giornalistiche del momento segnalo http://www.ansa.it/campania/notizie/2014/07/28/papa-arrivato-a-caserta-atterrato lelicottero_9ad9b2a3-e099-4a08-bbb1-f42156699f2b.html(6/5/20). La cosa ha avuto ripercussioni internazionali; si veda:

http://www.christianitytoday.com/gleanings/2014/july/pope-francis-apologizes-for-pentecostal- persecution-italy.html(15/12/20). Per una valutazione più ragionata cfr. RAFFAELE  NOGARO  – SERGIO  TAN- ZARELLA, Francesco e i pentecostali. Per una ecclesiologia del poliedro, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2015.

58 Tutte le chiese evangeliche subirono torti e angherie, ma non erano paragonabili a quello che i pentecostali dovettero subire; cf. GIAMPICCOLI, Liberi ma disuguali, cit., p. 16-17.

59 Per una ricostruzione del rapporto tra il regime fascista e i pentecostali e per le vicende legate a questa circolare  rimando  agli  Atti  del  Convegno  promosso  dall’Associazione  Piero  Guicciardini  a  cura  di  GAGLIANO, Un capitolo della intolleranza religiosa in Italia: la circolare Buffarini Guidi e i pentecostali (1935- 2015), Roma 5-6 novembre 2015, Biblion Edizioni, Milano 2017.

60 HENRY MOTTU  – MIRIAM  CASTIGLIONE, Religione popolare in un’ottica protestante, Claudiana, Torino, 1977, pp. 70-71; ROBERTO FERRARA, Movimenti evangelici in Sicilia dal Risorgimento al Fascismo, Rubet- tino, Soveria Mannelli, 2007, pp. 177-230.

61 SPINI, Studi sull’evangelismo italiano, cit., p. 235-50; inoltre SALVATORE ESPOSITO, Un secolo di pentecostalismo italiano, The Writer Edizioni, s.l., p. 95-137. Sull’importanza del lavoro di Peyrot resta emble- matica la testimonianza dell’altro grande protagonista di quegli anni, SPINI, I protestanti in Italia, Marchirolo, EUN, 1965, p. 18-19. Ma si vedano anche le dense e significative pagine che gli ha de- dicato GAGLIANO  nel suo Lotta per l’Italia laica e protestantesimo (1948-1955), Biblion Edizioni, Milano 2014; ancor di più nella ristampa da lui curata di uno dei più significativi scritti di Peyrot, La libertà di coscienza e di culto di fronte alla Costituente Italiana, Edizioni GBU, Chieti 2013.

62 LONG a cura di, Libertà religiosa e minoranze; cit. pp. 27-36; dove si sottolinea la chiara posizione dei pentecostali a favore della laicità dello Stato. NASO, La sfida pentecostale, in «Limes», supplemento al n. 2 (2005), pp. 127-134.

63 Chiesa Cristiana Evangelica Missionaria Pentecostale di Olivarella di Milazzo (1988), Congregazioni Cristiane  Pentecostali  (2005),  Chiesa  della  Riconciliazione  (2010),  Chiesa  Evangelica  Internazionale (2012), Chiese Elim in Italia (2014), Chiesa Unita Pentecostale Internazionale d’Italia (2015), Unione Cristiana Pentecostale (2019). Cfr. http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/enti-culto- diversi-dal-cattolico-dotati-personalita-giuridica-disciplinati-dalla-legge-11591929 (15/12/20).

64 Come è noto la pronuncia della Corte è rivolta contro la decisione della Corte di Cassazione emessa a sezioni unite nel 2013 che aveva accolto le ragioni dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) nella richiesta di essere considerata “confessione religiosa” e come tale essere ammessa alla trattativa per l’intesa ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione.

65 TOZZI, Le trattative per la stipula delle ‘intese’, in Il «Diritto Ecclesiastico», n. 1-4 (gennaio-dicembre 2015), pp. 61-63. Tra l’altro non si capisce se nella discrezionalità governativa rientri anche l’assenza di un protocollo temporale a trattativa avviata; insomma: una trattativa cominciata in un momento successivo ad un’altra può prevaricarla ed essere conclusa prima? Per esempio: può accadere che una trattativa riguardante una confessione religiosa che può contare su pressioni diplomatiche perché radicata in un Paese diverso dall’Italia possa ‘sorpassare’ una confessione religiosa che non ha questo tipo di appoggi e così costringe quest’ultima a impiegare tempi infiniti per concludere il proprio iter, ammesso che ci riesca? Considerando i tempi che sono stati necessari per stipulare alcune intese in vigore sembra quasi che lo Stato abbia tentato di far recedere i richiedenti per sfinimento!

67 Spesso si tratta di associazioni religiose con dimensione locale; altre volte di enti esponenziali nati per aggregazione di associazioni locali e presenti in gran parte del territorio nazionale.

68 CONSORTI, Le confessioni religiose diverse dalla cattolica: la prospettiva costituzionale, in FERRARI, Le minoranze religiose, cit., pp. 119-127. Bisognerebbe anche aggiungere le tipologie di chiese che stanno emergendo a causa del fenomeno migratorio e che spesso, per non incorrere nei lacci delle leggi urbanistiche regionali volte ad impedire che ci siano luoghi di culto di immigrati, si organizzano come centri di cultura o di azione sociale.

69 In particolare si vedano le sentenze 346/2002, 254/2019 contro la regione Lombardia e 195/1993 contro la regione Abruzzo.

70 Nel 2016, dopo un incontro preliminare avvenuto nel 2012, è stata aperta la trattativa con la Consulta Evangelica – Unione Federale di Chiese Evangeliche. è la prima confessione religiosa che si presenta con una denominazione ufficiale dichiaratamente federale. Si tratta di un primo esperimento i cui esiti non sono ancora chiari; naturalmente assetti confessionali federali pongono questioni di equilibri interni che devono essere risolti nella direzione della massima garanzia di rappresentanza e solidità nei confronti dello Stato superando le tipiche criticità legate alle autonomie interne e ai meccanismi di garanzia interni per evitare conflitti che potrebbero destabilizzare la confessione e i suo enti esponenziali.

71 Per una lettura comparata della questione cfr. MATTEO CARNì, I ministri di culto delle confessioni religiose di minoranza: problematiche attuali, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», n. 19 (2015), pp. 1-31.

72 Il più recente tentativo di articolare una proposta significativa, ma anche piuttosto discussa e discutibile, in tal senso si deve al cosiddetto ‘gruppo Astrid’; cfr. ROBERTO ZACCARIA et alii, La legge che non c’è. Proposta per una legge sulla libertà religiosa in Italia, Il Mulino, Bologna, 2019. Si veda anche CONSORTI, Diritto e religione, cit., pp. 150-152.

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