Dallo stereotipo antisemita alle prime aperture omanite

Una delle poche certezze che hanno caratterizzato il medio Oriente contemporaneo è l’odio verso Israele e in generale verso il popolo ebraico da parte del mondo musulmano. Costantemente accusati di sfruttare il rimorso occidentale per l’Olocausto allo scopo di coprire un vero e proprio genocidio contro il popolo palestinese, e indipendentemente dalla loro affiliazione con lo Stato ebraico, gli ebrei sono vittime di orrendi stereotipi. La riprova di ciò si può vedere nel fatto che oggigiorno non è certo inusuale incontrare nel mondo islamico e nei suoi alleati, sia di destra sia di sinistra, radicate convinzioni complottistiche che vedono nel sionismo e nel popolo ebraico l’origine di tutti i mali del mondo.

Sebbene questa forma di antisemitismo sia ancora purtroppo molto radicata, almeno la diplomazia internazionale pare aver superato questa fase infantile ed è oggi in profondo riassestamento. Il primo segnale in questa direzione non è certo recente, ma si è avuto nella trasformazione dei rapporti tra Israele e Oman. Già dopo gli accordi di Oslo nel 1993, i due Paesi stabilirono relazioni commerciali con uffici di rappresentanza nelle reciproche capitali. Questo dialogo, tuttavia, si raffreddò dopo la seconda Intifada del 2000, mancando la necessaria massa critica. Solo diversi anni dopo, nell’ottobre del 2018, si tenne un altro incontro tra i due paesi, anch’esso destinato a passare alla storia: la visita a sorpresa del premier israeliano Benjamin Netanyahu nel sultanato dell’Oman, paese con cui Israele non aveva fino ad allora relazioni diplomatiche. Il sultano Qābūs bin Saʿīd Āl Saʿīd, scomparso a gennaio 2020, fu da subito definito “lungimirante” dai principali organi di stampa internazionali per avere aperto alla normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv. Quanto avvenuto in Oman fu un vero e proprio atto di nascita di un nuovo orizzonte geopolitico nel quale si fronteggiano diverse fazioni dell’Islam e alcuni paesi musulmani guardano a Israele non più come un nemico, ma come un naturale alleato.

Il baluardo sciita e il risveglio anatolico

Per comprendere la portata di ciò che sta accadendo è importante ricordare che la guerra che ha visto contrapporsi Iran e Iraq (settembre 1980 – agosto 1988) ha lasciato un solco indelebile nelle relazioni interreligiose tra sunniti e sciiti, realtà che abbiamo ritrovato recentemente in Siria e, in maniera meno netta, in Libia. L’Iran è l’unico paese al mondo con una guida sciita che ancora riesce a mantenere in vita, seppur con continui aggiustamenti, quanto creato da Ruḥollāh Moṣṭafāvī Mōsavī Khomeynī. La sua postura aggressiva e l’azione spesso ambigua anche nei confronti degli alleati, hanno eroso la fiducia di cui disponeva e isolato il paese degli Ayatollah. Un tempo faro della rivoluzione islamica e baluardo della distruzione di Israele, l’Iran è oggi sempre più sotto accusa per essere il vero regista dell’instabilità mediorientale e, assieme alla Russia, il sobillatore delle rivolte in Siria. La recente uccisione a opera degli Usa di Qassem Soleimani, capo della delle operazioni più segrete del regime di Teheran, ha rivelato particolari estrema- mente interessanti sul coinvolgimento iraniano.

In questo quadro già di per sé complesso ma sostanzialmente stabile, si è oggi inserita prepotentemente un’altra variabile. Dopo la scomparsa di Mustafa Kemal Atatürk, la Turchia sembrava ormai destinata al ruolo di semplice comparsa ai tavoli delle trattive internazionali, ma Erdoğan è stato capace di riaccendere i riflettori su un paese che tutt’oggi molti osservatori sottovalutano. La rapida ascesa turca, in chiave nostalgica della potenza dell’Impero Ottomano condita dal rinnovato sentimento religioso ispirato alla rinascita di una vera umma (comunità dei credenti) che si ipotizza il presidente alimenti per rafforzare il proprio consenso interno, ha avuto l’esito di rendere il paese un importante interlocutore in Siria, in Libia, dove ha ottenuto il controllo del porto di Misurata, nei paesi del Corno d’Africa, dove la compagnia turca Albayrak ha firmato un contratto della durata di 14 anni per gestire e riabilitare il porto di Mogadiscio, e in genere nel Mediterraneo orientale, dove Ankara si è assicurata i diritti di sfruttamento esclusivo di aree petrolifere al largo di Cipro e Creta. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la Turchia ha ospitato quest’anno per ben due volte i leader di Hamas e ha rivendicato il controllo di Gerusalemme sulla base di pretese storiche risalenti all’Impero Ottomano, destando inquietudine in merito alla posizione assunta e il ruolo sempre più visibile nella questione palestinese. Tutto ciò ha avuto l’effetto di allertare le tradizionali leadership mediorientali già preoccupate dell’avanzata cinese, che proprio nella Turchia vede un potenziale partner futuro. L’effetto immediato di questo stravolgimento degli equilibri politici ed economici è stato l’avvicinamento tra governi storicamente “nemici” e ha fatto sì che molti paesi islamici si siano attivati per avviare relazioni diplomatiche stabili con Israele, guardando a Tel Aviv come partner di una futura alleanza in chiave antiturca (e in prospettiva anticinese).

è preoccupante, inoltre, osservare come la Turchia abbia assunto un atteggiamento ostile anche nei confronti dell’Europa. All’indomani dell’attentato terroristico avvenuto a Vienna, Erdoğan ha voluto palesemente richiamare l’attenzione verso un ipotetico sentimento islamofobo, paragonando il trattamento riservato ai musulmani ai giorni nostri con quanto avvenuto durante gli anni bui delle persecuzioni messe in atto contro chi ritenuto di razza ebraica.

“Informazionecorretta.com – Come i media italiani presentano Israele, mondo islamico, terrorismo” ha diffuso in rete un video di un comizio in cui Erdoğan si rivolge direttamente al cancelliere Kurz e le sue parole sono da ipotizzare al limite del minaccioso e non solo di sostegno ai compagni di fede: “In medio Oriente, nel Nord Africa, dall’Asia del Sud all’Europa, assistiamo all’aumento degli attacchi contro i musulmani giorno dopo giorno. La decisione dell’Austria di chiudere le moschee e i centri di preghiera musulmani, dimostra l’aggressività contro i musulmani in Europa. Mi rivolgo all’Europa e al primo Ministro austriaco: ascolti bene, lei è un ragazzino e deve acquisire ancora molta esperienza. Faccia attenzione, non dimentichi questo: il suo atteggiamento e le sue azioni le creeranno grosse preoccupazioni. Aggiungo inoltre, che la chiusura delle moschee e l’espulsione di musulmani dall’Austria possono aprire la porta a una guerra tra la falce di luna e la croce. E lei sarà ritenuto responsabile quando questo avverrà. Non mi rivolgo solo all’Austria, ma anche all’Europa e in particolare alla Germania. Fermate quest’uomo. Forse lo ignora, ma questa situazione può avere delle gravi ripercussioni. Anche noi abbiamo una linea e degli strumenti per far seguito, poiché abbiamo duecentocinquanta mila nostri fratelli in Austria e non li lasceremo sotto l’oppressione”.

Gli “Accordi di Abramo” e la “Spada degli arabi”

Prova di questi cambi di postura sono gli “Accordi di Abramo”, firmati recentemente a Washington tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein, che prevedono la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico in cambio della sospensione dell’annessione della Cisgiordania. Gli accordi prevedono una riapertura delle relazioni commerciali e turistiche tra i paesi, ma suggeriscono anche la possibilità futura di partnership nei settori energetici, in particolare nelle energie alternative, della difesa e della sicurezza che potrebbero estendersi anche ad altri paesi. Nel solco di questi accordi si è recentemente tenuto un incontro, anche questo senza precedenti, che ha spaventato la leadership palestinese: il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è recato in visita a Neom, in Arabia Saudita, dove ha incontrato, alla presenza del Segretario di Stato americano uscente Mike Pompeo, il principe ereditario Mohammed bin Salman. Il principe ha ribadito che la normalizzazione delle relazioni con Israele potrà avvenire solo dopo “un accordo di pace permanente e globale tra palestinesi e israeliani, compresa la creazione di uno Stato palestinese nei confini del 1967”, ma ha segnalato una sostanziale apertura verso la creazione di rapporti diplomatici tra i due Stati. Una posizione legittima per non creare uno strappo irreparabile con Gaza, ma soprattutto per prendere tempo in attesa che la posizione della presidenza Biden si faccia più chiara.

La questione iraniana, i legami di Hamas con la Turchia e il ruolo giocato dal governo di Erdoğan all’interno dello scacchiere libico preoccupano molto il mondo arabo, al punto da non esitare a mettere da parte antichi odi e rivalità. Manovre congiunte, denominate “Spada degli arabi”, hanno visto la partecipazione di Arabia Saudita, Egitto, Bahrein, Sudan, Giordania e Emirati Arabi Uniti con l’intento di facilitare il coordinamento e l’integrazione militare tra questi paesi. Si sono tenute inoltre delle esercitazioni che hanno coinvolto la Grecia e gli Emirati Arabi Uniti riguardanti l’utilizzo degli F-16, anche al fine di stringere una più stretta collaborazione con Israele. Dal canto loro, gli Stati Uniti non sono stati coinvolti e stanno segnalando, ad esempio con il ritiro delle truppe da Afghanistan e Iraq, che questi paesi dovranno, in futuro, provvedere alla propria sicurezza con maggiore autonomia.

Unica nota apparentemente in controtendenza vede protagonista la Giordania, già presente all’incontro tenutosi in Arabia Saudita. Sembra infatti che la Casa dei Saud abbia reclamato la custodia dei luoghi santi musulmani a Gerusalemme, in particolare la moschea di Al-Aqsa. Re ʿAbd Allāh II ibn al-Ḥusayn, che rivendica la discendenza diretta dal Profeta Muhammad, ricopre un ruolo di primo piano nel mondo arabo e in quello musulmano, finanziando tramite il suo governo una fondazione (Waqf) che già gestisce la Spianata delle Moschee/Spianata del Tempio. Anche in questo caso, però, potrebbe trattarsi di una presa di posizione contro la Turchia che, come abbiamo ricordato in precedenza, ha rivendicato il controllo della città sacra alle tre religioni abramitiche. La Giordania, stato cuscinetto par excellence, è un paese tradizionalmente dialogante e l’auspicio è che diventi un protagonista sempre più attivo nel processo di normalizzazione.

Alla lista delle nazioni che stanno normalizzando i rapporti con lo Stato Ebraico si è aggiunto anche il Marocco.

Quale futuro per il Qatar? Quali reazioni da parte dell’Iran? La Turchia sceglierà l’isolamento?

L’incognita reale della vicenda è invece la posizione che assumerà il Qatar, paese che viene indicato dagli analisti come tra i principali sponsor del terrorismo islamista e chiave dell’instabilità nel Medioriente. In ragione di ciò, ma soprattutto perché è uno dei principali sostenitori e finanziatori di Hamas, è difficile prevedere che Doha possa seguire l’esempio dei suoi corregionali.

La notizia della morte di Mohsen Fakhrizadeh, lo scienziato padre del programma nucleare di Teheran, si inserisce in questo quadro di totale riassestamento con conseguenze non ancora del tutto chiare. Fonti autorevoli imputano questa operazione al Mossad, che ha prontamente provveduto a smentire, ma se così non fosse sarebbe difficile ipotizzare che lo stato ebraico abbia messo a repentaglio le future alleanze non avvertendo Riad e Washington dell’azione. Si può anche ipotizzare, qualora la pista israeliana fosse confermata, che i paesi arabi ne fossero al corrente e ne abbiano approvato l’esecuzione per colpire l’Iran nel cuore del suo sviluppo militare e segnalare agli USA che un ritorno agli accordi sul nucleare iraniano voluti da Obama non è contemplabile.

La posizione assunta dalla Turchia, nell’ottica di questa ampia normalizzazione dei rapporti, risulta mutevole e mutabile. Trascorsi circa sei anni di gelo diplomatico, risulta alle cronache internazionali che si sia tenuto il 26 giugno 2016, a Roma, un incontro tra rappresentanze anatoliche (Feridun Sinirlioğlu, sottosegretario agli Esteri) ed ebraiche (Dore Gold, direttore generale del ministero degli Affari esteri) nel corso del quale si è raggiunto un accordo che impegna entrambi gli Stati alla ricostruzione di relazioni ormai logore.

Rapporti non confermati riportano la notizia secondo cui, recentemente, una delegazione del Mossad avrebbe incontrato la controparte turca. Si aspira a una reale normalizzazione dei rapporti con la Turchia: si può ipotizzare che quanto avvenuto in Iran sia un chiaro segnale anche per il governo Erdoğan che si trova così a decidere se partecipare a questa larga coalizione di Stati o scegliere una posizione isolata, e fortemente vulnerabile, come quella assunta dal governo degli ayatollah.

Il futuro delle relazioni diplomatiche in Medioriente nelle mani del nuovo presidente Usa

L’America di Obama e quella di Trump hanno avuto nei confronti dell’Iran e di Israele due traiettorie diametralmente opposte. Fin dai primi momenti del suo mandato, Biden dovrà far capire chiaramente al mondo in quale solco intenderà inserirsi. Allo stesso tempo, grande importanza assumerà la reazione di Teheran. Nel caso scegliessero di rispondere con l’uso della violenza, i rapporti diplomatici creati tra i discendenti Isacco e quelli di Ismaele, nel nome del comune patriarca Abraamo, potrebbero realmente rivelarsi “profetici”.

Arianne Ghersi – Dottoressa in Scienze Internazionali Diplomatiche, analista geopolitica.

Andrea Molle – Assistant Professor, Scienza Politica e Relazioni Internazionali, Chapman University.

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