Nelle pagine che seguono, le religioni sono intese esclusivamente nella loro qualità di attori e strumenti politici, come poli di attrazione identitaria e come forze  di mobilitazione delle passioni collettive; la loro dimensione spirituale e teologica esorbita dall’indagine geopolitica.

L’argomento che verrà qui trattato riguarda il rapporto tra religioni organizzate e potere politico (non necessariamente ed esclusivamente statale). è interessante innanzitutto notare come, sul piano pratico, questo rapporto abbia avuto un’attuazione – almeno per quel che riguarda le due religioni mondiali più diffuse – esattamente opposta a quanto postulato sul piano teologico: il cristianesimo, che postula la separazione tra potere politico e potere spirituale, ha offerto in realtà l’esempio più evidente e più costante, nel corso della storia, di un potere politico esercitato direttamente dalle autorità religiose; al contrario, l’islam postula sul piano dottrinale l’identificazione tra potere politico e potere religioso ma, nei paesi dove ha dominato per secoli, quella sintesi non c’è mai stata, o comunque è stata più l’eccezione che la regola. Nelle regioni dominate dal buddismo – un’altra religione secondo la quale l’indipendenza del potere politico dall’élite religiosa è inconcepibile e inammissibile – sono a lungo esistiti degli Stati teocratici, gli ultimi dei quali nel secolo scorso, in particolare in Mongolia e in Tibet dopo la loro indipendenza dalla Cina nel 1911.

Come si spiega, da un punto di vista politico, questa contraddizione tra teoria e pratica storica? Per capirlo, occorre introdurre la distinzione tra quelle che si possono definire (sempre in termini strettamente politici) «religioni passive» e quelle che si possono invece definire «religioni attive». Le «religioni passive» sono quelle prive di una leadership riconosciuta da tutti i fedeli, in cui non è prevista (almeno in teoria) una mediazione clericale tra il fedele e Dio, e che non hanno quindi una sola interpretazione autorizzata dei testi sacri; per cui, sempre teoricamente, ogni fedele è libero di interpretare a modo suo i testi sacri. Le «religioni attive» hanno esattamente le caratteristiche opposte: una sola autorità riconosciuta dall’insieme dei fedeli, una mediazione clericale tra Dio e i fedeli, e una sola interpretazione autorizzata dei testi sacri. Se stringiamo l’obiettivo su questa distinzione, che è molto astratta ma comunque utile per capire i binari su cui ci stiamo muovendo, ci accorgiamo che solo la Chiesa cattolica romana risponde alle caratteristiche delle «religioni attive», perché ha saputo conservare il suo monolitismo, la sua struttura rigidamente gerarchica, e il suo controllo esclusivo sull’interpretazione dei testi sacri, a dispetto delle dissensioni interne che l’hanno costantemente agitata e che, come vedremo, continuano ad agitarla. Grazie a questo suo carattere, la Chiesa di Roma ha saputo guadagnare e conservare, nel corso della storia, un’indipendenza rispetto alle altre forme di potere, e ha saputo contestualmente costruire proprie forme di potere – statale e non statale (e anche sovrastatale). Le altre religioni, invece, in ragione della loro «passività», sono a vario titolo subordinate, o comunque legate, al potere politico, o a chiunque sia in grado di esercitare una forza politica (con l’eccezione, forse, dello sciismo duodecimano in Iran, la cui struttura organizzativa, non a caso, ricorda quella della Chiesa cattolica, ma il cui raggio di influenza è estremamente circoscritto).

Le ragioni di questa peculiarità della Chiesa cattolica sono storiche, non teologiche. La storia della Chiesa latina, sviluppatasi nell’Impero romano d’occidente, cioè nella sua parte più debole e in rapida deliquescenza, non poteva che essere totalmente diversa da quella della Chiesa greca, sviluppatasi nella parte orientale, dove il potere centralizzato in mano agli imperatori è durato mille anni di più. In occidente, il potere politico stava dissolvendosi sotto l’impatto delle invasioni germaniche, cosicché le strutture organizzative centrali e locali della Chiesa latina hanno progressivamente rimpiazzato le strutture centrali e locali dell’Impero in via di dissoluzione, adottandone anche certe forme – «diocesi», per esempio, era il nome dato alle regioni dell’Impero Romano. In oriente, invece, il potere politico è stato ancora a lungo estremamente solido, per cui la Chiesa greca ne è rimasta subordinata, diventandone niente più che una sorta di braccio spirituale. La Chiesa latina ha finito poi per creare il suo proprio Impero (sacro e romano, ma anche germanico) giocando appunto sulle rivalità tra le popolazioni germaniche e approfittando delle difficoltà in cui l’espansione araba del VII secolo aveva messo l’Impero d’oriente – noto alla storia ormai  come «impero bizantino». E, per tutto il medio evo, dopo il clash della cosiddetta «lotta per le investiture», è riuscita ad affermarsi come una sorta di autorità superconfederale al di sopra di tutte le autorità politiche del mondo feudale.

Questa peculiarità della Chiesa cattolica è unica anche perché essa –  fin dal periodo della «lotta per le investiture» – è inflessibilmente gelosa della propria indipendenza e autonomia rispetto ai poteri politici; la sua universalità è resa possibile dall’aver sempre cercato di evitare di essere identificata con uno specifico potere politico. Interessante è una tesi di Giovanni Spadolini, secondo il quale Pio IX si sarebbe dichiarato «prigioniero» dello Stato italiano proprio per essere sicuro che non ci fosse stato nessun rischio di identificazione tra il papato e l’Italia, per essere sicuro che il papa non rischiasse di diventare (o anche solo di essere considerato) una specie di cappellano del nuovo paese. In tempi recenti sono emerse tesi secondo cui, durante la guerra fredda, Pio XII sarebbe stato il «cappellano della NATO»: ma sono tesi partigiane, politicamente senza senso, perché la Chiesa non ha nessun interesse ad appiattirsi su questo o quello schieramento politico. Inoltre, se si analizzano le posizioni di politica internazionale del papato di quel tempo, non si può mancare di notare che le critiche agli Stati Uniti non mancavano; non erano certamente allo stesso livello delle critiche rivolte all’Unione Sovietica, ma erano comunque molto aspre, dirette in particolare contro il «materialismo pratico» degli americani, talvolta perfino giudicato  più pernicioso del «materialismo teorico» dei sovietici.

Le Chiese ortodosse, invece, hanno continuato nella tradizione della Chiesa greca sotto l’Impero bizantino, rimanendo una sorta di appendice dello Stato; e quindi, dopo la nascita degli Stati nazionali, sono diventate naturalmente nazionaliste.

Il caso dell’induismo è molto interessante perché è l’unica religione la cui espansione (se si eccettua il Nepal dove è maggioritaria, e il Bhutan e lo Sri Lanka, dove è minoritaria) corrisponde quasi esattamente ai confini politici di uno Stato: l’India. L’India è divisa in un nord indoeuropeo e in un sud dravidico che storicamente hanno avuto scarsissime relazioni tra loro; la prima vera unificazione tra queste due parti fu resa possibile dal sistema ferroviario costruito dagli inglesi. Ancora oggi ci sono in India 24 lingue ufficiali, circa duemila gruppi etnici divisi in sette famiglie principali. Se si considera questo quadro generale, ci si rende conto che l’unico elemento unificante in India è, appunto, l’induismo. Fu la Corte suprema della repubblica indiana, nel 1966, a stabilire i principi dell’induismo (chiamato così dagli europei, ma il cui vero nome è sanātanadharma, cioè «legge eterna»), con una serie di emendamenti portati nel 1995. Notiamo il paradosso per cui è stata la Corte suprema di un paese nato nel 1947 a stabilire, nel 1966 e poi nel 1995, i principi di una legge che si vorrebbe eterna. L’intervento della massima istanza giuridica del Paese, all’epoca, provocò un’accesa polemica, sollevando l’indignazione sia della parte laica (l’Unione indiana è, secondo la sua Costituzione, un Paese laico), sia della  parte  religiosa,  per  la quale, evidentemente, non ha senso che sia un organo dello Stato a stabilire i principi della religione. Ma quell’intervento era un atto politico, e molto importante: l’induismo è una religione molto composita, con culti e divinità differenti, e quindi era necessario darle un carattere unitario per farne effettivamente la base di riferimento identitaria dello Stato.

Chi non è indiano non può essere induista; dal che discende una caratteristica fondamentale di quella religione: l’assenza di proselitismo. Esiste un piccolo movimento americano, famoso perché un po’ pittoresco, gli Hare Krishna, che è molto probabilmente il solo ad essere composto di induisti non indiani (al di là ovviamente di singoli casi individuali). L’induismo è quindi strutturalmente nazionalista, nel senso che costituisce per l’India il solo elemento di identificazione nazionale. Su questo punto non ci sono distinzioni di fondo tra il Partito del Congresso, che sarebbe il partito laico di sinistra, e il Bharatiya Janata Party (partito del popolo indiano, nazionalista religioso) attualmente al potere; la loro contrapposizione riguarda piuttosto il ruolo delle minoranze religiose, cioè essenzialmente i musulmani (e siccome l’India è anche il terzo paese al mondo per popolazione musulmana, parlare di minoranza in questo caso sembra paradossale), ma anche i cristiani e i sikh. L’induizzazione dell’India è proseguita anche quando il Congresso era al potere: la storica e filosofa indiana Meera Nanda, nel suo libro The God Market, del 2009, ha scritto che «oggi è difficile distinguere tra il culto della nazione e il culto delle divinità indù».

L’islam dovrebbe essere una religione intransigentemente universalista. Il filosofo indiano Muhammad Iqbal andò in esilio volontario a Londra quando fu fondato il Pakistan perché, sosteneva, l’islam «è per natura non territoriale»; l’idea di territorializzare l’islam all’interno dei confini di uno Stato era, per lui, una assurdità prossima a una bestemmia. abū l-aʿlā al-mawdūdī, fondatore del partito Jamaat- e-Islami – lo stesso partito che in questi giorni organizza le manifestazioni per reclamare l’impiccagione di Asia Bibi, accusata di blasfemia – all’epoca era anch’egli contrario alla fondazione del Pakistan per le stesse ragioni, e sosteneva che l’associazione dei termini «nazionalismo» e «islamico» fosse assurda e contraddittoria quanto quelli di «casta» e «prostituta».

Un paradosso, forse ancora più stridente, esiste anche nel caso dell’ebraismo, una religione teologicamente fondata su una terra, addirittura sulla Terra Promessa da Dio, di cui la Genesi (15:18) offre indicazioni geografiche molto dettagliate. Nella sua storia travagliata, però, l’ebraismo si è rivelato essere la religione più deterritorializzata di tutte. Il tentativo di ricostruzione delle sue radici ha certamente giustificazioni storiche molto forti ma, storicamente, poggia su basi molto fragili, per non dire inesistenti. Secondo lo storico israeliano Shlomo Sand, che ha pubblicato una serie di libri estremamente interessanti sul rapporto tra il popolo ebraico – secondo lui frutto di una «invenzione» politica – e Israele, afferma a questo proposito che «certi partigiani dell’idea nazionale perfettamente atei ebbero bisogno di punti di riferimento religiosi tradizionali per definirsi meglio». La religione, insomma, serviva a giustificare l’esistenza di una «terra promessa» cui il «popolo ebraico» era fatalmente destinato a ricongiungersi, e per questo è stata adottata dai nazionalisti sionisti, malgrado il loro ateismo o agnosticismo.

Oggi le religioni passive servono da supporto per il ritorno del nazionalismo. D’altra parte, il ritorno del nazionalismo, inteso in termini generali, e quello delle religioni hanno la stessa origine. Peter Berger, celebre sociologo americano delle religioni, nel 1999 aveva pubblicato un libro collettivo intitolato The Desecularization of the World in cui affermava: «La modernità, per motivi chiaramente comprensibili, mina tutte le vecchie certezze; l’incertezza è una condizione che molti trovano estremamente dura da sopportare; quindi, qualsiasi movimento, non solo religioso, che promette di fornire e di rinnovare le certezze ha un vasto mercato  di fronte a sé». Quando ho cominciato lo studio del ritorno delle religioni sulla scena pubblica, pensavo che il riferimento di Berger ai movimenti «anche non religiosi» fosse solo un espediente formale per non chiudersi da solo nell’angolo; la storia recente, recentissima anzi, ha invece dimostrato che Berger sapeva benissimo quel che scriveva: poco alla volta, soprattutto dopo la crisi del 2008, sono emersi e si sono affermati movimenti non religiosi caratterizzati proprio dalla facilità con cui diffondono sul mercato elettorale presunte solide certezze – che sono illusioni, certo, ma che sono presentate comunque come indiscutibili certezze, basti pensare al ricorrente richiamo identitario.

La prassi di sfornare illusioni e promettere miracoli a fini elettorali risponde a quello che è oggi, secondo me, il problema centrale del contesto geopolitico, soprattutto nei paesi che negli ultimi secoli hanno dominato il mondo ma che oggi si trovano di fronte a competitori tanto dinamici quanto imprevisti, e stanno quindi perdendo pezzi di potere. Il problema centrale di quei paesi è appunto che questo cambiamento – questo vero e proprio shift of power – non può essere né arrestato né tantomeno ribaltato; tuttavia, per restare elettoralmente a galla, tutti i partiti devono affermare di avere la ricetta per arrestarlo e ribaltarlo, e che il loro paese tornerà ad essere great again. Il fattore di crisi potenziale più importante, oggi, è che chi dovrebbe gestire la transizione verso una nuova fase storica si deve rifiutare di farlo per ragioni elettorali e, invece di affrontare la realtà, deve vendere sul mercato una realtà alternativa, deve farsi mercante di illusioni. La politica elettorale tende così a scimmiottare la religione ma, come vedremo più tardi, ha il fiato molto più corto della religione.

Talvolta l’influenza delle religioni è così importante e il loro intreccio con il potere politico così stretto da non sapere veramente chi manovra chi. Questo è vero, per esempio, nel caso del buddismo in almeno tre regioni al mondo: in Birmania, nello Sri Lanka e in Thailandia, in modo particolare in due province del sud del paese al confine con la Malesia abitate da musulmani, dove si svolgono da alcuni anni scontri che sotto certi aspetti ricordano quelli contro i rohingya in Birmania. Ovviamente non è solo il caso del buddismo: mutatis mutandis, la stessa cosa si potrebbe dire per quello che accadde nelle guerre dei Balcani degli anni 1990. Allora, per poter distinguere un croato da un bosniaco o da un serbo – tutti slavi del sud che parlavano la stessa lingua, il serbo-croato – l’unico criterio possibile  era  quello  religioso,  e  questo  in  un  paese,  la  ex-Jugoslavia,  dove  la pratica religiosa era stata per decenni un aspetto estremamente marginale della vita sociale. In seguito alla rottura della Jugoslavia, l’identità religiosa (o meglio: una lontana tradizione religiosa) si è imposta come fattore centrale di ricomposizione politica attorno alle nuove unità, e persino le lingue sono state «rinazionalizzate», separando il serbo dal croato, tornando cioè alla frammentazione linguistica esistente prima della nascita della Jugoslavia.

La rinazionalizzazione linguistica fu imposta anche in Pakistan e India dopo la partizione del 1947, quando l’hindustani venne distinto in urdu, parlato in Pakistan  e scritto con l’alfabeto arabo-persiano, e in hindi, parlato in India e scritto con l’alfabeto devanagari. Non si può certamente affermare che la religione, servita anche nell’ex India britannica come criterio di separazione, fosse all’epoca tanto marginale quanto lo era diventata in Jugoslavia; non si deve tuttavia dimenticare che, secondo Olivier Roy, furono i britannici ad aizzare la contrapposizione religiosa in India, prima con la divisione del Bengala, e la creazione della «categoria neoetnica dei musulmani», poi con la divisione dell’elettorato lungo linee di faglia religiose nel 1919 e nel 1935. Quella jugoslava e quella indiana sono ovviamente due dinamiche molto diverse, ma segnate entrambe nel sangue di innumerevoli massacri da questa sovrapposizione tra identità religiosa e presunta identità etnico-nazionale.

Parlando di identità, non si può mancare di menzionare la recente riscoperta delle radici cristiane in chiave identitaria e anti-musulmana in Europa. In Francia, la laicità è parte dello stesso tessuto istituzionale a partire dalla celebre legge di separazione tra Stato e Chiesa del 1905. Come dice il suo nome, quella legge fu scritta e votata per tenere Roma, la Chiesa e i cattolici in quanto tali lontani dal potere; oggi, però, quando lo Zeitgeist è impregnato della riscoperta di un’identità cristiana da opporre precisamente all’elemento «alieno» musulmano, quella legge, così com’è non funziona più, come ha riconosciuto lo stesso presidente Emmanuel Macron. Una tale contrapposizione «religiosa» è doppiamente paradossale: non solo perché è agitata spesso in nome della laicità, ma anche perché coloro che affermano che l’islam sarebbe arretrato perché non è passato attraverso l’illuminismo e la Riforma lo fanno in nome di una religione – il cattolicesimo – che ha violentemente combattuto sia la Riforma che l’illuminismo. Ovviamente chi è prigioniero di questa contraddizione non se ne rende conto, perché l’autosuggestione ideologica consente sintesi spericolate, come quella che fa di Giovanna D’Arco e di Voltaire – simultaneamente – due mattoni di una stessa identità comune francese.

Come detto all’inizio, la geopolitica non si occupa di questioni spirituali; tuttavia, dall’esterno, si direbbe che il contenuto spirituale di questo ritorno alle religioni sia molto scarso. Coloro che si riscoprono cristiani in chiave anti-musulmana non si danno neppure la pena di riannodare con le pratiche religiose esteriori – andare a messa, battezzare i figli, sposarsi in chiesa – e tantomeno di riannodare  con il contenuto spirituale, appunto, che dovrebbe costituire il nucleo della fede riscoperta. Naturalmente è molto scarso, direi addirittura inesistente, anche il contenuto spirituale del cosiddetto islam militante. Basti pensare ad un recente episodio tragico: i fratelli Kouachi – due «poveri di spirito» anche nel senso più tradizionale del termine – autori del massacro della redazione di Charlie Hebdo, hanno risparmiato una redattrice perché testimoniasse e, mentre abbattevano uno ad uno i suoi colleghi, la redarguivano per la sua immoralità, perché aveva il capo scoperto. è chiaro, e tragico, il disorientamento morale di chi, mentre sta uccidendo degli esseri umani, è genuinamente persuaso che la sola peccatrice nella stanza sia questa signora che non si copre i capelli. Siamo sul piano del formalismo più asettico; la religione non offre più niente di spirituale ed è ridotta a pura forma. Coprirsi i capelli (per le donne), pregare cinque volte al giorno, tagliarsi la barba come il Profeta, digiunare durante il ramadan, etc. sono le manifestazioni della pietà, e una volta assolte quelle manifestazioni – semplici e accessibili a tutti – si è in regola per quel che riguarda il rapporto tra    la propria anima e la divinità. è la «sainte ignorance» di cui parla, tra l’altro, Olivier Roy nel suo libro eponimo.

L’islam militante, tra l’altro, copre due tendenze diverse e opposte. Da una parte è sfruttato dai vari governi per diverse mansioni: 1) coprire ruoli di assistenza sociale che lo Stato non è in grado di assicurare, in particolare nella sanità, nell’educazione e nelle emergenze; 2) fornire una legittimazione al potere politico; 3) svolgere una funzione di stabilizzazione sociale, ovvero pregare invece di scioperare o iscriversi al sindacato; 4) svolgere azioni inconfessabili in patria e all’estero, come per esempio organizzare gruppi terroristici. Dall’altra  parte c’è l’islam militante nato dallo sradicamento, quello di cui parla Olivier Roy: la ricostruzione di una identità religiosa artificiale basata su un minimo comune de- nominatore esclusivamente formale. è il senso di appartenenza religiosa ricercato, per esempio, dagli emigrati che hanno dovuto separarsi dalla loro cultura di origine; il termine «ignoranza» utilizzato da Roy si riferisce precisamente all’abbandono forzato della cultura di origine senza poter mettere radici nel nuovo ambiente culturale di destinazione; quelle persone si trovano quindi in una sorta di no man’s land culturale in cui il salafismo – il ritorno mitizzato all’islam originario del VII secolo, uguale per tutti i credenti, che  provengano  dal  Senegal, dal Bangladesh o dall’Indonesia – mette le sue (fragilissime, proprio perché separate da un contesto culturale) radici.

L’islam militante, insomma, si rende disponibile sia come strumento del nazionalismo, sia come tentativo di ovviare ai drammi culturali e psicologici, ma anche sociali, dello sradicamento, cioè della de-nazionalizzazione. Al centro, però, vi è sempre la stessa esigenza di identità, cioè di appartenenza, cioè quella esigenza di spirito gregario che è una delle pochissime caratteristiche attribuibili alla «natura umana» come elemento del suo istinto di conservazione.

Conclusione

Per concludere, occorre non sottovalutare il fatto che la strumentalizzazione della religione a fini politici è un’arma a doppio taglio. La condizione necessaria (ma per niente sufficiente) perché possa funzionare è che il potere che se ne serve sia solido o comunque in grado di controllare i movimenti religiosi. Lo studioso americano Richard Bulliet, nel suo libro sulla «civiltà islamo-cristiana», ricorda che «nella storia dell’islam i sovrani tentati di violare la legge e di conquistare il potere assoluto dovevano scegliere tra la cooptazione, l’aggiramento o la soppressione degli ulema», cioè dei teologi incaricati ufficialmente di vegliare al rispetto della legge religiosa da parte del principe. Il fatto è che, oggi, i governi che si appoggiano sulla religione lo fanno proprio perché sono deboli, perché mancano di legittimità e hanno bisogno della religione per trovarne una. In realtà, quindi, sono i movimenti religiosi che finiscono per cooptare, aggirare o sopprimere il governo; e siccome i movimenti religiosi rispondono solo a sé stessi e ai loro interessi particolari, il risultato è quasi sempre una guerra civile, in cui i vari organi dello Stato finiscono per mettersi al servizio di questa o quella milizia privata.

I governi deboli si appoggiano sulle religioni perché vorrebbero in questo modo controllare e veicolare a proprio favore passioni e istinti; secondo Bernard Lewis, «la religione può essere una fonte di odio oppure no, ma produce incontestabilmente un’espressione di odio sufficiente sul piano emotivo. Quando si combatte un nemico non è necessariamente obbligatorio odiarlo, ma è salutare per il morale e quindi anche per l’efficacia militare». Questo è il principio che guida coloro che si vorrebbero servire della religione per vincere le proprie battaglie; ma siccome i movimenti religiosi hanno più esperienza dei movimenti politici (e in particolare di quelli deboli) nel manovrare passioni e istinti, succede che i movimenti religiosi finiscono fuori controllo, cioè cominciano ad agire per conto proprio. Alcuni esempi: l’uso del fondamentalismo islamico in Afghanistan negli anni 1980 contro l’Unione Sovietica da parte degli americani ma anche del Pakistan e della stessa Arabia Saudita; i talebani, creati dal Pakistan, cioè dal paese che si trova ad essere il terzo in assoluto nel mondo (dopo l’Iraq e l’Afghanistan) per attentati terroristici subiti negli ultimi dieci anni, gran parte dei quali perpetrati proprio dai talebani.

La Chiesa cattolica, si diceva, è la sola in grado di esercitare un  suo  proprio potere, ma solo se riesce a mantenere le distanze rispetto al potere degli altri. Questo impone a volte esercizi di equilibrio molto spericolati. L’esempio più eclatante è quello della Prima Guerra mondiale in cui la Chiesa riuscì al tempo stesso ad avere una sua propria posizione, universale e contro la guerra (l’«inutile strage» condannata da Benedetto XV) e ad adattarsi plasticamente alle posizioni nazionaliste e guerrafondaie nei vari paesi, dove le Chiese locali sostenevano alacremente lo sforzo bellico proprio per non correre il rischio di andare allo scontro frontale con il potere politico. L’abilità della Chiesa fu di riuscire a far convivere le due posizioni apparentemente inconciliabili senza provocare urti o scismi, guadagnandosi il titolo di «complexio oppositorum» da parte di Carl Schmitt (che non a caso coniò questa formula quanto mai azzeccata all’indomani della guerra, nel 1923).

La Chiesa beneficia di un’esperienza che è stata messa alla prova in un’occasione particolarmente delicata, potenzialmente distruttiva, se si considera che l’Europa cattolica era allora divisa sui due fronti opposti. Questa sua abilità esige di saper giocare con destrezza su tre varianti: innanzitutto l’universalismo, cioè imporre ovunque la posizione della Chiesa universale (oggi, per esempio, una posizione aperta all’immigrazione); il localismo, cioè il radicamento nel territorio che implica la capacità di adattarsi ai sentimenti dei cattolici locali (che sono, nei paesi più sviluppati, generalmente ostili all’immigrazione) e a non andare, se non in casi estremi, al confronto aperto con i poteri politici; infine l’opposizione locale, cioè  la capacità di svolgere, nei casi estremi, un ruolo di opposizione rispetto al potere politico (si pensi al ruolo decisivo della Chiesa cattolica nella caduta di Ferdinand Marcos, dittatore filippino, nel 1986). Oggi la Chiesa ha assunto una posizione simile, per esempio, in Nicaragua anche se il processo è ancora lungo e accidentato; in maniera più esplicita nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’arcivescovo di Kinshasa si è dimesso da poco per protestare contro la sistematica violazione degli accordi con il governo di Joseph Kabila.

La capacità di esercitare un potere politico diretto, però, porta con sé come ne- cessaria implicazione e conseguenza il fatto di non potersi sottrarre alle lotte interne, che sono una costante nella vita della Chiesa cattolica, e che si nutrono proprio alla greppia della complexio oppositorum. Questo è molto evidente oggi nel caso americano: nel 2016, Donald Trump ha ottenuto il voto della maggioranza dei cattolici americani; si tratta di una novità spettacolare perché, per trovare l’ultimo candidato alle presidenziali che non ha ottenuto la maggioranza dei voti popolari ma ha ottenuto la maggioranza dei voti cattolici bisogna risalire a Hubert Humphrey nel 1968: come Humphrey, quasi cinquant’anni dopo, Trump, pur perdendo il voto popolare, ha vinto quello dei cattolici. Un esito così sorprendente suggerisce che ci sia stato da qualche parte un impegno della Chiesa locale per portare voti a Donald Trump, anche se le posizioni ufficiali della Chiesa universale tendono, quasi tutte, in direzione opposta. Dietro  a questo c’è un’operazione che  è  venuta alla luce subito dopo le  elezioni, e  cioè il tentativo di aggancio tra le posizioni dell’estrema destra del cattolico Steve Bannon e una parte del cardinalato americano, in particolare Raymond Burke – progressivamente emarginato da Bergoglio – ma anche del molto chiacchierato Carlo Maria Viganò (già nunzio apostolico negli Stati Uniti) con la sua recente presa di posizione, appoggiata da Burke, circa la necessità di spingere il papa alle dimissioni.

Un altro esempio, meno noto ma sicuramente molto importante dal punto di vista strategico, riguarda il rapporto con la Repubblica popolare cinese. Anche in questo caso le lotte interne alla Chiesa interferiscono sulla sua capacità di azione politica: precedenti tentativi di accordo tra Roma e Pechino sono stati sabotati da personaggi di spicco all’interno della Chiesa stessa. Ora sembra che sia stato fatto un passo in avanti, ma io sarei molto cauto anche perché il cattolicesimo è insolubile dal nazionalismo cinese, e perché comunque i cattolici rappresentano una minoranza estrema in seno alla popolazione cinese.

Oggi, molti movimenti politici scimmiottano le religioni nel promettere certezze e miracoli. Sul medio-lungo periodo, però, la Chiesa cattolica (e, più in generale, le religioni tradizionali) dovrebbe poter facilmente uscire vincitrice dalla competizione con questi parvenu del tutto privi di esperienza e di visione politica di  lungo respiro. La sfida consiste a non farsi risucchiare nell’immediatismo dilagante. Ma anche se tutte le condizioni oggettive giocano a favore della Chiesa, la partita non è per questo scontata: l’abilità di giostrarsi nella complexio oppositorum non è data una volta per tutte, ma dev’essere riguadagnata sul terreno giorno dopo giorno.

Manlio Graziano – Docente di Geopolitica e Geopolitica delle religioni alla Sorbona, all’American Graduate School in Paris e al Geneva Institute of Geopolitical Studies

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