Dopo il 2001: i dieci anni in cui abbiamo smarrito la strada
Il 2000 fu un anno chiave nello sviluppo dei rapporti tra Stato e confessioni in Italia. Il 1° marzo la Corte di Cassazione smontò la tesi del Consiglio di Stato (parere n. 63 del 27 aprile 1988) che aveva salvato il crocifisso nelle scuole statali in base alla tesi della prevalenza sul valore religioso – dunque discriminante tra credenti, diversamente credenti e non credenti – del valore culturale del crocifisso, simbolo italiano e dunque obbligatorio per tutti. La Corte di Cassazione (sentenza n. 439 del 1 marzo 2000) affermò che, al contrario, il crocifisso aveva ben un significato religioso e che la sua esposizione obbligatoria in luoghi statali, discriminando in funzione del diverso grado di identificazione con un simbolo religioso, per giunta confessionale, violava il principio supremo di laicità quale definito dalla Corte costituzionale dal 1989 in avanti. Pochi giorni più tardi, il 20 marzo, vennero stipulate dal governo D’Alema le prime intese della storia con confessioni osteggiate da pezzi di opinione pubblica e di politica: dei testimoni di Geova si lamentava il proselitismo invadente, la connotazione settaria e la minaccia all’ordine pubblico, dei buddhisti si contestava addirittura la natura di vera e propria religione; in entrambi i gruppi, settori della Chiesa cattolica vedevano pericolosi competitori. Il 20 novembre dello stesso anno, la Corte Costituzionale colpiva nuovamente i residui confessionisti del diritto penale fascista e dichiarava incostituzionale il vilipendio della religione di Stato ex art. 402 del codice penale. Nell’occasione (sentenza n. 508 del 20 novembre 2000), la Corte sviluppava la propria giurisprudenza anteriore e giungeva ad una matura definizione del principio di laicità: «In forza dei principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995), ferma naturalmente la possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8). Tale posizione di equidistanza e imparzialità è il riflesso del principio di laicità che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango di “principio supremo” (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995)».
A voltarsi indietro e a tracciare un bilancio del decennio trascorso da allora, due conclusioni si impongono. Anzitutto, oggi comprendiamo bene come i tre passaggi del 2000 consacrassero un percorso pluridecennale precedente, che aveva avuto le sue maggiori realizzazioni nei referendum confermativi delle leggi sul divorzio e sull’aborto, nella fine del cattolicesimo di Stato nel 1984, nelle intese stipulate tra il 1984 e il 1993 e nella laicità proclamata nel 1989. In secondo luogo, comprendiamo anche come dal 2001 in poi quel percorso si è arrestato: sui principi è calato il silenzio, nuove parole d’ordine si sono affacciate (come “l’Italia cristiana”), il percorso di riforme si è interrotto, i tentativi di costruire nuovi spazi sono falliti.
I tre passaggi del 2000 appaiono oggi il canto del cigno di una fase storica. La battaglia per il crocifisso si è conclusa con la negazione della laicità, con il disdoro di un paese intrappolato nelle proprie contraddizioni e con l’imbarazzo, anzitutto dei credenti, per la costruzione concettuale del crocifisso come “simbolo passivo” (sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 18 marzo 2011 sul caso Lautsi). Senza poter smentire frontalmente la Costituzione e la Cassazione del 2000, gli apprendisti stregoni nostrani hanno aggirato la nitidezza dei principi imponendo una soluzione pasticciata. Al contempo, le intese del 2000 non sono state approvate dal Parlamento. Nuove intese sono state stipulate nel 2007, per finire anch’esse in seguito appese agli interessi e alle strategie della politica [almeno per cinque anni: successivamente a questo intervento, tenuto il 15 maggio 2012, le intese del 2007 con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’ultimo giorno, il Patriarcato di Costantinopoli e la Chiesa apostolica d’Italia sono divenute legge il 22 agosto 2012; restano non approvate le intese con testimoni di Geova, buddhisti e induisti].
Nell’ultimo decennio la forma e la sostanza dei rapporti tra Stato italiano e confessioni religiose si sono gravemente degradati. Confusione di competenze, istituzioni in ordine sparso, strumenti e organismi abusati o inutilizzati; tanta retorica, scorciatoie anziché scelte. Le riforme del post 1984, dall’otto per mille alle intese con le confessioni diverse dalla cattolica, andavano sviluppate con cura. Necessitavano di medicazione le ferite di un paese a disagio con la propria e l’altrui religione. Al contrario, si è lasciato che le piaghe si incancrenissero. Sulla religione a scuola, sul finanziamento pubblico delle chiese, sulla laicità, sulla libertà religiosa in Italia e nel mondo, su edilizia e ministri di culto, sul matrimonio, hanno prevalso interessi e pigrizie. Il paese non si è dato un progetto di politica religiosa coerente con la sua nuova realtà.
L’impasse di questi dieci anni ci consegna un grave bilancio di inadempimenti, confusioni e derive su quattro fronti.
- I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica si sono gravemente degradati: i nodi legati a meccanismi non chiariti, dall’otto per mille all’ora di religione, si sono incancreniti. Le tensioni sull’ICI/IMU sono solo un indicatore del disagio tra i tanti. Molte restano le mine innescate, dalla pedofilia alle intercettazioni. Il degrado dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica aumenta la tensione sulle altre confessioni religiose.
- A prescindere da uno sbocco parlamentare che sarà comunque tardivo, l’accumulo di intese sottoscritte dai governi e non approvate dal Parlamento (nel caso di buddhisti e testimoni di Geova per più di dieci anni) è una lesione gravissima di interessi vitali del paese. Ciò tanto più per l’assenza di un’assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche e delle autorità cattoliche, che hanno quanto meno legittimato con il loro silenzio la violazione dei principi costituzionali. L’incepparsi del meccanismo, e l’opacità delle ragioni, hanno peraltro incoraggiato pressioni, anche esterne, e malsane competizioni politiche tra attori confessionali.
- Le prospettive di riforma della legge sui culti ammessi sono anch’esse naufragate in un quadro politico magmatico e La legge sui culti ammessi del 1929 è rimasto l’unico strumento con cui affrontare situazioni difficili e delicate, dal riconoscimento degli enti di culto ai matrimoni, con particolare impatto sull’Islam.
- Infine, l’impasse ha riguardato il tentativo di sperimentare nuove forme istituzionali, dalle consulte/comitati per l’Islam agli organismi consultativi interconfessionali: tentativi viziati dai medesimi limiti e tutti falliti.
Perché abbiamo smarrito la strada. Come possiamo ripartire
La paralisi che l’ultimo decennio ci consegna ha ragioni precise. Vi è un contesto generale che rende dappertutto tesi e confusi i rapporti tra confessioni e stati, tra diritto e religione: la religione è sopravvissuta alla profezia della morte di Dio in società secolarizzate, ma il suo profilo è sempre più indefinito, mentre i conflitti interni alle religioni e tra religioni e confessioni si scaricano sullo Stato. Lo Stato, dal canto suo, è indebolito dalla globalizzazione del diritto e dall’avvento di attori e istanze sopranazionali che cercano lite e arbitrano contese religiose in alternativa e in concorrenza con gli Stati nazionali. Il contesto spinge i governi, gli attori politici (quelli tradizionali, ma talvolta anche i movimenti populisti, tipico il caso italiano della Lega Nord), e le Chiese maggioritarie a solidarizzare e a sorreggersi. Religione e politica sono sempre più interdipendenti.
Sullo sfondo di un simile contesto, i rapporti tra Stato e confessioni, in Italia, si sono deteriorati per effetto di due dinamiche fondamentali: perché abbiamo perso i principi guida senza sostituirli con valide alternative; e perché abbiamo mascherato da nobile realismo politico-religioso la deriva verso una paralizzante compravendita di interessi.
- La confusione sui principi si è tradotta attraverso una proposta che non ha funzionato e in una non meno pregiudizievole negazione del nostro percorso costituzionale. La proposta ingannevole è stata quella di elevare un carattere storico-culturale di per sé complesso come quello della tradizione cristiana, e cattolica, del paese in principio politico capace di costruire identità, e addirittura in principio costituzionale suscettibile di produrre effetti giuridici. Il costo sciagurato di questa illusione è emerso nel caso crocifisso. Dal canto suo, la surrettizia negazione del percorso costituzionale precedente ha riguardato tre aspetti in particolare: la laicità, la democrazia e la trasparenza delle decisioni e dei dati.
- La confusione sul “realismo” si è materializzata in una stagione di scelte miopi, di corto respiro, e in un non governo dei fenomeni che hanno consegnato i rapporti tra Stato e confessioni alla strumentalizzazione politica interna ed esterna. Non realismo, dunque, ma irresponsabilità. Cinque illustrazioni: a) il non governo dell’Islam con le imbarazzanti vicende della Consulta e del Comitato per l’Islam; b) l’assenza di politiche culturali sull’Islam e sulle varie religioni e l’abbandono di progetti d’intervento sul territorio che legassero formazione e intervento; c) la gestione opaca delle intese da stipulare e delle intese stipulate; d) l’uso improprio della legge sui culti ammessi; e) la confusione delle competenze, in particolare tra Ministero dell’interno, Ministero della giustizia e Presidenza del consiglio.
Una legge sulla libertà religiosa è un possibile punto di partenza?
Abbandonare il progetto di una riforma, l’idea di una legge sulla libertà religiosa, non risolve l’impasse sui principi e su norme e meccanismi. Al contrario la accentua. È una resa al degrado. Rileggo le mie dichiarazioni alla Commissione affari costituzionali del 2007, a sostegno del progetto, e le ritengo oggi ancor più fondate. Riprendere il cammino sulla libertà religiosa è necessario perché sono necessari nuovi meccanismi e nuove norme; e ancor più per riaprire il paese alla questione e al valore della laicità e della libertà religiosa in Italia.
La necessità della legge a fini pratici è illustrata nella mia articolazione dei problemi di cui sopra. La legge sui culti ammessi non tiene più. Anche le intese non sono in grado di rispondere. Vi è necessità di un nuovo, organico, strumento normativo. È importante soffermarsi soprattutto sulle questioni di principio e sull’obiezione che l’iniziativa legislativa sarebbe troppo controversa e, in quanto tale, impraticabile. Che ci si debba impegnare, invece, su vie che non dividano, che non denuncino la frattura esistente nel paese su questioni fondamentali. A me pare che oggi non vi sia bisogno di chiudere gli occhi, ma al contrario di aprirli sul percorso della legge sulla libertà religiosa e sulle posizioni assunte ieri, oggi e domani dagli attori politici e religiosi. Riprendere il percorso è necessario per incalzare pigrizie e viltà, per stanare le irresponsabilità. Per fissare e testare i razzismi e le illusioni neo-confessioniste di talune forze politiche e di qualche esponente religioso.
In particolare, è necessario registrare e verificare i dubbi della Conferenza episcopale e della Santa Sede sulla laicità, sulla pericolosità sociale dei competitori del cattolicesimo, sull’equilibrio disegnato dalla Costituzione tra cattolicesimo e confessioni diverse, sul riconoscimento civile di matrimoni religiosi non cattolici, addirittura sulla non discriminazione religiosa. Se possediamo agli atti una testimonianza delle difficoltà di parte cattolica su aspetti essenziali del nostro ordine costituzionale lo dobbiamo proprio al fatto che si è discusso del problema, almeno in Commissione affari costituzionali. Penso in particolare all’interpretazione suggerita dell’allora Mons. Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, nella sua audizione presso la Commissione affari costituzionali del 16 luglio 2007, secondo cui la Costituzione condannerebbe le confessioni non cattoliche ad una posizione di inferiorità rispetto alla Chiesa cattolica. Dichiarò in proposito il prelato: «Queste disposizioni (…) introducono per tutte le confessioni un regime giuridico sostanzialmente analogo, se non identico, a quello bilateralmente previsto per la Chiesa cattolica e per le confessioni diverse da quella cattolica rispettivamente dal Concordato e dalle intese stipulate ai sensi dell’articolo 8, comma 3, della Costituzione. È un regime che, in talune ipotesi, risulta persino migliorativo mediante il recepimento della normativa di diritto comune più favorevole. La dichiarata finalità di garantire le uguali libertà delle confessioni religiose si traduce così in una normativa che prevede una sostanziale omologazione tra realtà assai differenziate e comporta una tendenziale riconduzione al diritto comune della disciplina del fenomeno religioso. Questo risultato, da tempo auspicato da correnti dottrinali e gruppi politici minoritari, da un lato non appare fondato, né coerente, rispetto al disegno costituzionale delineato dagli articoli 7 e 8 della Costituzione, né tantomeno in linea con la tradizione culturale del nostro Paese e con il sentimento religioso della maggior parte della popolazione; dall’altro lato, esso potrebbe risultare inadeguato rispetto alle problematiche determinate dalla diffusione di nuovi movimenti religiosi e delle sette, come pure rispetto alle questioni legate al fenomeno dell’intercultura e della multietnicità. Come già osservato nella precedente audizione del 9 gennaio di quest’anno, l’esigenza di favorire l’integrazione dei nuovi gruppi e, quindi, la pacifica convivenza non deve tradursi in forme di ingiustificato cedimento di fronte a dottrine o a pratiche che suscitano allarme sociale e che contrastano con princìpi irrinunciabili per la nostra civiltà giuridica».
Se disponiamo di una così chiara dottrina di fonte cattolica ufficiale sullo status giuridico delle confessioni religiose non-cattoliche è perché il Parlamento italiano ha affrontato la questione. La consacrazione parlamentare, il crisma della procedura democratica e del connesso regime di pubblicità, consentono di cogliere questa dottrina in una duplice dimensione. Anzitutto, essa emerge quale frutto di un contesto storico e politico in cui la Chiesa cattolica in Italia ha cercato spazio politico abbracciando la logica dell’identità, della tradizione, dei diritti superiori della maggioranza. A cinque anni di distanza, la congiuntura politica sembra superata. Ma le strategie, gli strumenti e gli argomenti restano solidamente piantati nella dinamica italiana dei rapporti tra politica, diritto e religione. Perciò, il dibattito parlamentare sulla libertà religiosa registra una stagione di diritto e politica ecclesiastica che dobbiamo ricordare e studiare, se vogliamo andare avanti. La seconda dimensione della dottrina cattolica sulla libertà religiosa offerta dai vescovi italiani in Parlamento nel 2007 è teorica: riguarda i concetti, i valori, l’interpretazione della Costituzione e, per parafrasare l’intervento citato, la “nostra civiltà giuridica”. Anche per questa seconda dimensione, dobbiamo un grazie al dibattito in Commissione affari costituzionali sulla libertà religiosa. Davanti alla tentazione di scivolare sui concetti, di piegare ogni contenuto alla logica dell’interesse e delle fazioni, è necessario portare una critica lucida, tutta di sostanza, sui materiali che il dibattito ci ha consegnati. Se dunque la legge sulla libertà religiosa non ha visto la luce, ciò non significa che la lotta per essa non abbia portato frutti. Sono frutti di profondità, che la logica tatticista non vede. Da quei frutti si può ripartire. La strada della libertà religiosa è oggi più che mai ardua e disseminata di trappole. La stessa Chiesa cattolica in Italia e nel mondo è tormentata dalla libertà religiosa: è forte per essa la tentazione di usare la libertà religiosa come rivestimento nobile del sentimento di essere sotto assedio, come chiave per difendere la propria dipendenza, soprattutto economica, dai governi amici, e per sognare una nuova offensiva mondiale contro il nemico ateo e musulmano. Il fatto che la libertà religiosa venga invocata da tante religioni per legittimare l’oppressione dei diritti e la violazione della laicità e dell’eguaglianza è un ulteriore motivo per non abbandonare la strada. Certo, riprendere il cammino sulla libertà religiosa solleverà controversie. Ma l’emergere di posizioni contrapposte non è una ragione per abbandonare il progetto, è al contrario una ragione per sostenerlo. Proprio perché ne ha paura, il paese ha bisogno di un confronto franco su temi essenziali per il suo futuro.
MARCO VENTURA – Docente di diritto e religione presso l’Università di Lovanio (Belgio). Articolo edito in Coscienza e Libertà 46/2012.
NOTE
Per il retroterra di queste riflessioni e per un quadro dettagliato delle fonti e della letteratura, si veda: Ventura, Law and Religion in Italy (Kluwer Law International, 2013. International Encyclopaedia of Laws).