Introduzione

Negli ultimi decenni, in seguito al processo di migrazione, tra gli altri fattori, l’Unione europea (UE) è diventata una società multi religiosa, lontana dall’egemonia cristiana. Questa realtà ha determinato la nascita di varie situazioni che derivano dall’esercizio della libertà religiosa, sia a livello individuale sia di gruppo, e coinvolge l’evoluzione dei diversi sistemi giuridici nazionali. Ma la domanda che credo si ponga oggi, in Europa, non è se il diritto alla libertà religiosa sia garantito in termini giuridici, ma se i gruppi religiosi interessati, che sono una minoranza, siano o meno integrati nella società ospitante; o al contrario, se la specificità e l’elemento religioso portino all’esclusione sociale, nel senso di un rifiuto da parte della società delle pratiche e credenze del   gruppo.

In passato, queste comunità hanno sviluppato numerosi modelli di integrazione in diversi paesi europei, senza dare i risultati che ci si poteva attendere. Gli eventi che si svolgono in paesi come Francia, Regno Unito, Olanda, Belgio, Spagna, Italia e Germania mostrano, da un lato, una società a volte incapace di controllare le espressioni di razzismo o le situazioni discriminatorie; dall’altra, il fatto che i membri di queste minoranze religiose, non accettando alcune regole di comportamento, manifestano totale disinteresse per la loro integrazione nella società ospitante.

Se si osservano tutti i modelli possibili, lo strumento giusto per muoversi verso la coesione sociale, che ci permette di parlare di una vera integrazione delle minoranze nella società, sembra essere basato principalmente su tre pilastri: la promozione della parità dei diritti per tutte le persone; il rispetto delle libertà fondamentali; la partecipazione alla vita politica degli individui appartenenti a tali minoranze.

Siamo consapevoli che quest’ultimo pilastro, vale a dire la partecipazione politica delle minoranze, è fondamentale per la creazione di un’identità collettiva, dell’appartenenza a una comunità e, in definitiva, di ogni coesione sociale; dovrebbe quindi diventare uno degli obiettivi da perseguire. Il Consiglio dei diritti umani e il Forum delle Nazioni Unite sulle questioni relative alle minoranze, che si riunisce regolarmente a Ginevra, hanno più volte trattato questo tema. È un problema la cui risoluzione determinerà come ottenere una reale integrazione delle minoranze religiose e la loro partecipazione alla sfera pubblica, per generare la tanto desiderata coesione sociale. In tal modo la governance diventa uno strumento di prim’ordine.

Per rendere questo possibile, lo Stato deve riconoscere il diritto di partecipazione degli individui e dei gruppi al di là della semplice rappresentanza politica, perché a volte non è sufficiente per fare ascoltare alcuni attori sociali. In questa prospettiva, il riconoscimento dei diritti civili e politici dei gruppi è una posizione costante delle Nazioni Unite, dato che il diritto delle minoranze alla partecipazione effettiva appare in diversi documenti internazionali. Per quanto riguarda le minoranze religiose, è indicato esplicitamente nell’articolo 2 della Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche, del 1992 (2). Si tratta di garantire la partecipazione delle minoranze alla vita pubblica, in particolare in relazione alle decisioni che le riguardano nella riuscita della loro integrazione, come è anche previsto dalla Dichiarazione di Durban del 2001 e dal Forum delle Nazioni Unite sulle questioni relative alle minoranze.

Chiaramente, «la partecipazione alla vita politica e sociale del paese, e allo sviluppo delle politiche e della partecipazione ai servizi pubblici, beneficiandone, dovrebbe essere il mezzo per lottare contro l’emarginazione e alienazione» (3). Pertanto, «gli stati che sono favorevoli alla partecipazione e integrazione delle minoranze tendono non solo ad essere più stabili, ma anche più prosperi» (4).

Per garantire, tuttavia, una partecipazione reale ed efficace, bisogna soddisfare diversi requisiti: in primo luogo, lo Stato deve riconoscere le minoranze religiose in quanto tali; in secondo luogo, «promuovere la partecipazione effettiva, nella società, di uomini e donne appartenenti a minoranze richiede un continuo dialogo sostanziale. Tale dialogo dovrebbe essere multidirezionale, e svolgersi tra persone appartenenti alle minoranze e alla maggioranza della popolazione, ma anche tra le persone appartenenti alle minoranze e alle autorità», ha spiegato G. McDougall (5); in terzo luogo, questo dialogo deve essere anche interculturale e interreligioso, e non coinvolgere solo i leader ma anche le comunità locali.

A questo proposito, l’esperta indipendente in materia di minoranze, Rita Izsák, nel suo rapporto del 2012 (6), afferma che «la creazione di meccanismi istituzionali per promuovere il dialogo interreligioso permette di stabilire contatti tra i gruppi confessionali che potrebbero diventare sempre più polarizzati e sospettosi». […] La Izsák sottolinea il valore di meccanismi permanenti di partecipazione e dialogo interculturale. «Di questi meccanismi non solo ne beneficiano le comunità minoritarie, ma sono anche indispensabili per eliminare le pratiche di esclusione e modificare le percezioni discriminatorie delle minoranze, che possono esistere nella società in generale ed essere istituzionalizzate. La lotta contro il “razzismo istituzionale” rimane una sfida in molti stati e richiede attività di promozione della partecipazione e del dialogo che non siano solo concentrate sulle minoranze, ma destinate a tutti i settori della società» (7). Tale dialogo interconfessionale può contribuire a risolvere i conflitti e a mantenere la stabilità in una società multireligiosa. Allo stesso modo, è anche necessario stabilire meccanismi consultivi istituzionali, per fornire «significative opportunità di partecipazione su una modalità complementare quando… non c’è rappresentanza negli organi democraticamente eletti perché la comunità di minoranza è troppo piccola per produrre un impatto sulle elezioni» (8). Non possiamo dimenticare, in questo processo, la collaborazione della società civile e delle Ong, che sono spesso i difensori più attivi dei diritti delle minoranze e attuano programmi specifici per le comunità locali. La cooperazione istituzionale con le Ong permette l’acquisizione di conoscenze specifiche sulle varie questioni che riguardano o influenzano le minoranze, e aumenta la capacità di azione degli organi statali. In effetti, la collaborazione tra gruppi della società civile, associazioni etniche o religiose, o autorità nazionali, può aumentare le opportunità di dialogo e la comprensione tra le comunità e le autorità. In questa prospettiva, come sono posizionate l’UE e i singoli paesi partner nei confronti delle raccomandazioni della comunità internazionale? Possono le minoranze diventare, nella nostra società multireligiosa e attraverso questa partecipazione, un elemento di coesione sociale?

Governance, non discriminazione e minoranze religiose nell’UE

L’Unione europea è un’organizzazione politica con un governo policentrico e a più livelli. Essa comprende una varietà di culture, lingue, tradizioni, costumi, ecc., che contribuiscono a formare una società eterogenea e diversificata. Ecco perché, oltre alla complessità del processo decisionale delle istituzioni, possiamo osservare, nella maggior parte dei casi, un modello di governo più competitivo e dinamico dei sistemi nazionali, dal momento che il processo di negoziazione è di grande importanza per lo sviluppo di alcune decisioni legislative. Questa configurazione offre ai gruppi organizzati o alle lobby una maggiore capacità di accesso alle decisioni e alle politiche dell’UE, e d’influenza su di essa, anche se dà luogo ad alcuni sospetti sulla cosiddetta responsabilità democratica.

Pertanto, oltre dieci anni fa, l’UE ha istituito uno dei suoi principali obiettivi strategici: la riforma della sua governance (9). Quali modelli di governance sono stati proposti per quanto riguarda le minoranze religiose? Uno degli obiettivi più importanti del diritto sovranazionale e internazionale è forse quello di proteggere le persone che, per ragioni strutturali, sono esposte alla discriminazione dal diritto nazionale dei diversi paesi. Infatti, la legge dell’Unione europea ha una serie di disposizioni che tutelano le persone appartenenti a una minoranza.

Dobbiamo anche notare l’assenza di una politica globale dell’UE in materia di tutela delle minoranze tramite la legge, perché non ha la competenza di armonizzare le legislazioni in materia di gestione della diversità. In effetti, gli stati membri sono autonomi rispetto all’UE, per quanto riguarda i meccanismi essenziali, per l’attuazione della tutela dei diritti fondamentali, situazione esplicitamente menzionata nell’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riconosce a tale riguardo il principio di sussidiarietà.

Tuttavia, l’adozione dell’articolo 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea riflette il crescente riconoscimento della necessità di sviluppare un approccio coerente e integrato alla lotta contro la discriminazione. Per questo l’UE, al fine di rafforzare il principio di non discriminazione e sulla base del vecchio articolo 13 del trattato, ha adottato, in Consiglio, una serie di direttive (10). Considerato il tema della mia presentazione, tratterò ora la direttiva 2000/78/ CE, che stabilisce un quadro generale per garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro, e fa riferimento alla non discriminazione per motivi di religione o convinzione personale sul posto di lavoro. Questo mi permette di esprimere un breve commento sul sistema di governance chiamato a integrare la legislazione nazionale.

Si tratta del primo testo normativo dell’Unione europea che si riferisce espressamente alla tutela del diritto alla libertà religiosa di individui e comunità, anche se è applicato al posto di lavoro. Questa direttiva non mira a proteggere direttamente l’esercizio del diritto fondamentale alla libertà religiosa, né contiene un’autoregolamentazione di questo diritto fondamentale nel sistema giuridico europeo, oltre la sua eventuale considerazione come principio generale che deve essere protetto dai tribunali. Essa fornisce semplicemente un’ulteriore protezione di questo diritto fondamentale.

Come possiamo vedere, la mancanza di una diretta applicazione dei diritti contenuti nella Carta dimostra che non esiste una legislazione uniforme, ma almeno una politica di armonizzazione, volta alla protezione delle persone appartenenti alle minoranze, che si basa su un modello di governance con vari attori. In primo luogo, è sostenuta da varie istituzioni dell’UE, come la Commissione europea, il Parlamento europeo, l’Agenzia per i diritti fondamentali, la rete di esperti indipendenti in materia di diritti fondamentali dell’UE e il mediatore europeo, tutti i motori dell’attività legislativa e degli organi di controllo e di consiglio in materia di sviluppo, sicurezza e protezione dei diritti fondamentali.

Ma la direttiva si riferisce anche al coinvolgimento di una serie di altri attori sociali nello sviluppo e nell’attuazione delle norme di legge in essa contenute. Si tratta di un modello di governance in cui gli elementi del settore pubblico e privato partecipano alla lotta contro la discriminazione. È necessario che in questo dialogo con gli attori sociali sia riconosciuto essenziale il ruolo delle diverse confessioni religiose come detentrici del diritto fondamentale della libertà di religione, e anche come legittimi rappresentanti dei loro fedeli nei territori in cui sono stabiliti.

Le confessioni diventano così un punto di riferimento in molti paesi quando si tratta di regolamentare il fenomeno religioso, indipendentemente dall’atteggiamento del paese su questo fenomeno. Parliamo di paesi membri dell’UE, come Francia, Grecia, Spagna, Italia, Portogallo o Germania, che, pur all’interno della disciplina comunitaria in generale, regolano in modo diverso i loro rapporti con i gruppi religiosi, e ciò ha molto a che fare con il trattamento delle minoranze in questi paesi.

L’UE ha tuttavia compreso la necessità di muoversi verso il consolidamento di una legge contro la discriminazione. Per questo la Commissione ha adottato, nel 2008, una proposta di direttiva per l’attuazione del principio di parità di trattamento tra le persone, indipendentemente dalla religione o dalle convinzioni personali, dalla disabilità, dall’età o dall’orientamento sessuale. Questo progetto introduce una nuova serie di concetti, per esempio quello della discriminazione multipla, e ha stabilito la religione come un’eccezione al divieto di discriminazione e ha invitato gli stati membri a istituire organismi nazionali per assicurare, tutelare e promuovere la parità di trattamento.

Questo è un altro esempio di modello di governance in cui le minoranze potranno godere di una maggiore protezione contro la discriminazione e avranno diritto a una partecipazione più attiva; cosa che è stata ricordata durante l’ultimo Forum sulle questioni relative alle minoranze, svoltosi a Ginevra nel novembre 2013. Nel formulare le sue raccomandazioni, il Forum ha affermato che «le istituzioni nazionali dei diritti umani dovrebbero sviluppare una loro comprensione della diversità religiosa all’interno dello stato interessato e assicurare attivamente che le difficoltà incontrate dai gruppi religiosi siano prese in considerazione nella loro azione, in particolare creando, se necessario, un gruppo di specialisti ed elaborando orientamenti su questioni concernenti le minoranze religiose, ad esempio per i datori di lavoro. Essi dovrebbero promuovere e assicurare la rappresentanza della diversità religiosa nelle loro segreterie e tra il personale» (11).

Tuttavia, come ho notato all’inizio del mio articolo, i meccanismi di partecipazione effettiva delle minoranze non sono limitati al processo di rappresentanza istituzionale ed è spesso necessario creare meccanismi consultivi. «Sono necessarie misure concrete per garantire la consultazione e la partecipazione di tutte le minoranze religiose a tutti i livelli della società. La presenza di queste minoranze, negli organi consultivi e decisionali, contribuisce a garantire che le loro opinioni, i loro problemi e le loro preoccupazioni siano prese in considerazione» (12), portando a una maggiore integrazione di questi gruppi e, in ultima analisi, a una più elevata coesione sociale.

I comitati consultivi sulla libertà religiosa, introdotti in Spagna nel 1981 e in Portogallo nel 2001, sono un esempio di questo approccio. Il comitato consultivo spagnolo sulla libertà religiosa è stato recentemente modificato (13) con l’aumento del numero dei gruppi religiosi che partecipano quali membri a pieno titolo – quelli profondamente radicati e quattro altri rappresentanti – e con espansione delle sue funzioni. Chiaramente, la presenza delle minoranze religiose all’interno di un organismo consultivo di questa natura garantisce che le loro richieste siano ascoltate dal governo e che ogni volta che si adotta una legge, le specificità religiose siano prese in considerazione.

Queste misure, tuttavia, non sono sufficienti se si vuole parlare di un’effettiva partecipazione delle minoranze al processo decisionale. È necessario un altro pilastro fondamentale, basato sulla promozione del dialogo interreligioso e la sua istituzionalizzazione. Questa idea è stata sostenuta nel 2013 al Forum sulle questioni relative alle minoranze, dove si è affermato che «gli stati dovrebbero considerare l’istituzione o facilitare la creazione di istituzioni nazionali o regionali che favoriscano il dialogo interreligioso, e progetti che promuovano una cultura della comprensione e uno spirito di accettazione. Si dovrebbe incoraggiare la creazione di istituzioni nazionali e locali, ufficiali o meno, e anche di piattaforme di dialogo in cui i rappresentanti dei gruppi religiosi si incontrino regolarmente per discutere i problemi comuni» (14) e promossi a livello di comunità. Tali iniziative «dovrebbero stimolare il potenziale dei capi religiosi e dei leader politici per quanto riguarda il contributo alla costruzione di società tolleranti e inclusive, e avviare e sostenere tali opere e attività» (15), senza dimenticare il ruolo che possono avere le donne e i giovani.

Meritano di essere presentati qui due esempi di buone pratiche a questo riguardo:

«Marseille Espérance», in Francia, e il Gruppo di lavoro permanente delle religioni in Spagna. Il primo proviene da un’iniziativa comunitaria sostenuta dal sindaco di Marsiglia. Si tratta di un tipico caso di iniziativa positiva intesa a creare dialogo e contribuire a evitare tensioni tra i diversi gruppi religiosi, che potrebbero portare, una volta venute alla luce, alla violenza. Leader ebrei, cristiani, buddisti e musulmani si incontrano regolarmente con le autorità municipali per condividere le loro opinioni e mantenere relazioni di qualità tra le diverse comunità. Fondata nel 1989 in risposta allo sviluppo della violenza urbana, l’iniziativa promuove la comprensione intercomunitaria attraverso attività come, per esempio, i simposi interreligiosi. Un’esperienza simile è nata a Barcellona con il Gruppo di lavoro permanente delle religioni in Spagna (Grup de Treball Estable de Religiones – GteR). È un gruppo costituito dalla Chiesa cattolica, che è la principale componente, e dalle minoranze religiose presenti nella regione: ebrei, cristiani, musulmani e buddisti. La sua funzione è di consigliare la comunità e le autorità locali sulla gestione del fenomeno religioso e promuovere una cultura di pace e tolleranza tra le diverse religioni che la compongono. Si prevede di esportare questo modo   di lavorare in altre parti del nostro territorio, in maniera che i gruppi così formati lavorino in rete e si coordinino.

Questi esempi ci riportano all’inizio del mio articolo, quando ho parlato di governance come modalità di governo per l’integrazione politica dei diversi gruppi, al fine di raggiungere l’integrazione sociale, perché è attraverso la partecipazione politica dell’individuo che la sua comunità partecipa al progetto nazionale.

Una volta determinato il quadro giuridico per garantire e tutelare il diritto di individui e gruppi alla libertà religiosa, sarà necessario svilupparlo in modo che l’uguaglianza e la non discriminazione di queste persone diventino tangibili. La realtà delle cose ci mostra che in tale processo dobbiamo fare affidamento sui diversi attori sociali rilevanti, se vogliamo conferire legittimità al processo. Non si tratta di dare voce a ogni credente o a qualsiasi gruppo religioso che afferma di avere ragione, ma di formulare meccanismi e sistemi di rappresentanza che permettano alla stragrande maggioranza di essi di essere rappresentata o almeno di farsi ascoltare.

Uno dei modi può essere la promozione del fenomeno associativo tra le minoranze e tra queste e la loro piena visibilità, perciò è necessario il riconoscimento delle minoranze da parte dello Stato.

Ma ci sono molti altri modi di procedere: si può pensare agli accordi di cooperazione realizzati in Spagna, Italia, Germania e Portogallo; alla creazione di organismi di controllo e di monitoraggio dell’attuazione dei diritti fondamentali, o anche di organi consultivi, dove è rappresenta la parte di società civile interessata alla regolamentazione del fenomeno religioso; alla promozione e allo sviluppo del lavoro delle Ong che operano con questi gruppi; infine, alla promozione del dialogo interreligioso, come mezzo per prevenire la violenza e garantire l’integrazione delle diverse minoranze. Si tratta, quindi, di sviluppare un modello di governance applicabile alla gestione del fenomeno religioso e in cui gli attori sociali possano veramente partecipare alle decisioni che li riguardano.

È attraverso la partecipazione attiva che riusciremo a infondere un senso di responsabilità sociale e di proprietà collettiva. Così il cittadino non è più solo un consumatore, impegnato a far valere i propri diritti, ma potrà prendere coscienza del fatto che è vincolato da diritti e doveri enunciati nelle convenzioni internazionali sui diritti umani e nei diritti nazionali europei. È agendo in questo modo che potremo realizzare l’obiettivo della coesione sociale.

 

JAIME ROSSEL GRANADOS – Docente dell’università di Extremadura, a Badajoz, in Spagna. Recentemente nominato direttore aggiunto per le relazioni sulle religioni presso il Ministero della Giustizia del Regno di Spagna.

NOTE

1 Questo testo è un estratto dell’intervento tenuto alla conferenza internazionale sul tema «Alla luce dell’Editto di Milano (313-2013). Libertà religiosa e minoranza religiosa: tra equilibrio e sfide», organizzata dall’Istituto dei diritti umani della facoltà di giurisprudenza dell’università Complutense di Madrid e dell’Associazione internazionale per la difesa della libertà religiosa (Madrid, 17 gennaio 2014).

2 A/RES/47/135.

3 Come citato dalla sig.ra Gay McDougall, esperto indipendente, nel documento sulle questioni delle minoranze e la partecipazione politica effettiva, presentato al Consiglio per i diritti umani in occasione del Forum sulle questioni relative alle minoranze, 2009. Cfr. A/HRC/FMI/2009/3, p. 7.

4 Comitato per i diritti umani, Commento generale n 25 (1996), par. 12.

5 A/HRC/FMI/2009/3, pp. 8-9.

6 A/67/293.

7 Ibidem, p. 9.

8 Ibidem.

9 Preoccupata su questi temi, la Commissione europea ha pubblicato, il 25 luglio 2001, «La governance europea – Un libro bianco» [Com (2001) 0428 definitivo – Gazzetta ufficiale n. 287, 12.10.2001].

10 Cfr. Direttive 2000/43, 2000/78, 2002/73 e 2004/113/CE.

11 A/HRC/FMI/2013/3, p.6.

12 Ibidem, p. 7.

13 Cfr. Real Decreto 932/2013, 29 novembre, BOE, 16 décembre 2013.

14 A/HRC/FMI/2013/3, p. 10.

15 Ibidem.

 

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