Vorrei ringraziare gli organizzatori di questo incontro perché hanno voluto trattare un tema simile. In Europa, e forse anche in altre parti d’Italia, d’islamofobia si è parlato, però qui, a mia conoscenza, non si era ancora trattato questo argomento. Gli organizzatori sono andati alla radice del problema, con lo scopo di disabilitare alle origini il pregiudizio.

In un primo momento, leggendo il titolo generale, avevo sbagliato l’accento: invece di «disabilita il pregiudizio» ho letto «disabilità». Questo, probabilmente, è dovuto alla mia professione perché, in quanto medico, ho pensato subito alla disabilità e non al «disabilitare». Ciò mi ha posto in condizione di fare una riflessione: disabilità è qualcosa che uno ha, disabilitare è qualcosa che uno fa. Quindi, in un certo senso, abbiamo un’azione in cui interagiscono un soggetto e un oggetto; nel compiere quest’azione i due non possono procedere in maniera unilaterale, ma è indispensabile che cooperino. Cioè è necessario che colui il quale, magari inavvertitamente, compie un gesto o dice una parola, non lo faccia più – e quindi bisogna disabilitare -, mentre la persona che vive in una condizione di disabilità deve cercare il modo per superare questo suo stato di inferiorità.

Partendo da questa riflessione, ho pensato che secondo me il tema centrale non sono i problemi, ma le frontiere. Analogamente a quanto ho detto prima su disabilità e disabilitare, possiamo considerare anche le barriere da due prospettive. C’è quella che una persona cerca di alzare, intenzionalmente o meno, per mettere in difficoltà l’altro, ma ci sono anche le barriere che si trovano dentro ognuno di noi e che devono essere in qualche modo superate. Secondo me, l’islamofobia va affrontata su due fronti: cercare di risolverla dentro la comunità islamica, perché bisogna che al suo interno ci sia una certa consapevolezza di questo problema; e, da parte della società, una sinergia per cercare di superarlo.

La storia ci ha mostrato tante barriere, pregiudizi, ghetti, non tutti superati in maniera definitiva. Prendo ad esempio la condizione dei neri. Se guardiamo la situazione di paesi come gli Stati Uniti o il Sudafrica, essi vivevano in condizioni terribili, separati con la forza dalla collettività, non potevano usare gli stessi servizi igienici o salire sugli stessi autobus frequentati dai bianchi. La storia ci ha fatto vedere che oggi, in questi due paesi, abbiamo due presidenti neri. Ma se qualcuno si reca in Sudafrica o, come è successo a me alcuni mesi fa, negli Stati Uniti, questo pregiudizio, questa ghettizzazione non sono stati superati, perché i problemi permangono. Parlando degli ebrei, sappiamo che nel 637 è stato il califfo Omar, il secondo califfo dell’islam, a entrare in Gerusalemme e consentire loro di ritornarci, mentre invece i cristiani li avevano allontanati da Gerusalemme. Meno di un secolo fa, gli ebrei in Europa vivevano nei ghetti. Ora questa situazione sembra superata, ma non è stata sconfitta del tutto, basta guardare i programmi politici di alcuni partiti europei o quello che sappiamo dalle cronache americane. Per i musulmani, considerare gli altri in maniera da non farli sentire inferiori è un valore raggiunto all’epoca del quinto califfo, Omar Ibn ‘Abd al-’Aziz. Un periodo che noi consideraiamo aureo, non perché vi siano state conquiste o altro di particolare, ma perché Omar Ibn ‘Abd al-’Aziz aveva fatto in modo che tutti fossero considerati uguali e nessuno poteva essere ritenuto inferiore agli altri. Addirittura, si narra quel califfo si preoccupasse anche del benessere degli animali: andava personalmente a controllare le mulattiere, a vedere se le strade dove camminavano gli asini erano fatte bene perché temeva che, nel giorno del giudizio, questi animali potessero accusarlo davanti a Dio di non essersi preoccupato di questo aspetto.

Ma la cosa che mi ha colpito di più è il programma politico del primo califfo. Abu Bakr, nominato tale dopo la morte del profeta Mohammed; era chiamato a proporre un programma politico davvero importante, in quanto successore del profeta, e cosa disse: «Cercherò di fare in modo tale da ottenere i doveri dalle persone più forti e cercare di dare i diritti a quelle più deboli».

Da questo punto di vista noi, oggi, che cosa facciamo? Se dobbiamo giudicare civile un paese, prendiamo a esempio quei popoli che cercano di venire incontro alle disabilità, eliminando le barriere, cercando di rendere la vita più facile a chi si trova in maggiore difficoltà, anche se questo significa spendere più soldi ed energie. Penso allora che, se vogliamo risolvere il problema dell’islamofobia, occorre cercare di seguire questa strada. Il percorso, però, deve essere duplice: da una parte la consapevolezza della comunità islamica, e per questo credo che   ci vorrà del tempo, anche se ci stiamo lavorando e cerchiamo di convincere i suoi appartenenti a non sentirsi inferiori, a cercare di uscire, di emergere; ma dall’altra parte ci vuole anche l’azione delle persone di componenti della società più allargata. Questo dualismo possiamo definirlo della reciprocità, che implica trovarsi in due a lavorare. Quando ho pensato di parlare sulle barriere che ostacolano i musulmani in Italia, mi sono venuti subito in mente i giovani, perché credo che nel futuro ci saranno più giovani musulmani e se non ci occupiamo di loro avremo degli adulti che non saranno utili per la società. Se non li aiutiamo adesso, la società nel futuro non potrà contare sul loro aiuto proficuo.

Ho cercato di individuare tre tipi di barriere attuali: innanzitutto, quella di tipo linguistico. Sappiamo che la maggior parte dei musulmani provengono da paesi arabofoni, ma non solo. Sappiamo anche che, per la Costituzione italiana, una persona non di madrelingua italiana ha il diritto di imparare la propria lingua materna a scuola. Effettivamente, nell’Italia settentrionale viene fatto: si insegnano il tedesco e il francese a individui di madrelingua tedesca o francese. Per gli arabofoni questo è impossibile. Anzi, chi vuole lo fa totalmente a proprie spese. Vi comunico semplicemente un dato: il sabato e la domenica insegniamo l’arabo ai nostri figli in alcune scuole pubbliche, da altre parti lo facciamo nelle biblioteche   o nei circoli; ma per entrare in una scuola pubblica di sabato o di domenica dobbiamo pagare il custode, e fin qui può andar bene; ma siamo costretti a pagare anche un’assicurazione per permettere ai bambini di entrare. Durante l’arco della settimana, gli stessi frequentano gratuitamente la stesse scuole, il che è una banalità, un assurdo. Insegnare la lingua araba a questi ragazzi potrebbe essere anche un arricchimento per lo Stato, perché in futuro si potrebbero utilizzare come ponti d’unione tra l’Italia e i paesi di provenienza. Se questi ragazzi non conoscono l’arabo, quando si recheranno nel loro paese di origine o in quello dei genitori si sentiranno praticamente stranieri. La cosa peggiore, poi, è che vivono male all’interno della famiglia, perché i genitori non hanno imparato bene l’italiano, quindi hanno avuto difficoltà a relazionarsi con la cittadinanza del luogo, ma non sono stati in grado di insegnare l’arabo ai figli per cui, in casa, non riescono a comunicare bene fra di loro. Ne consegue un’incomprensione sostanziale tra genitori e figli, perché la lingua non è solamente dare un nome a un oggetto, ma anche il modo di vederlo e cercare di capire come è fatto. Quindi, dal mio punto di vista, una delle barriere che dovrebbe essere superata per aiutare questi giovani è offrire la possibilità di imparare la lingua, perché si risolverebbero, almeno parzialmente, alcuni problemi.

La seconda barriera a cui ho pensato, e che dipende dalla mia formazione medica, è quella di tipo sanitario. Cito due esempi: il primo è la circoncisione. I musulmani e gli ebrei, in passato anche i cristiani, praticano la circoncisione rituale; quindi, se una persona vuole far circoncidere il proprio figlio che cosa fa? Si affida a uno stregone o a un barbiere o ancora a qualcuno che pratica questa operazione a casa, di nascosto, perché nessuno ha la possibilità di recarsi in una struttura ospedaliera privata e pagare diverse migliaia di euro. Altro sarebbe se invece lo Stato, e fortunatamente la Regione Toscana lo permette, offrisse la possibilità di praticare sui bambini la circoncisione, rito che non si celebra per il gusto di farlo ma perché si crede sia giusto – mi riferisco qui solamente alla circoncisione maschile, non parlo assolutamente dell’infibulazione femminile, pratica che la religione islamica condanna. In Toscana è stato trovato un modo per risolvere un problema, siamo riusciti a risolvere questa difficoltà. Dopo aver firmato l’accordo con la Regione per la circoncisione maschile, abbiamo saputo che sono morti due bambini sottoposti a un simile intervento. Non erano musulmani ma cristiani, perché, come dicevo prima, in Africa anche i cristiani praticano la circoncisione. Non essendo rientrati in questo programma con la Regione Toscana, questi bambini sono morti per una complicazione durante la circoncisione praticata al di fuori degli ospedali.

L’altro elemento sanitario è quello legato all’alimentazione. Sappiamo che se a scuola oggi c’è un bambino celiaco, l’istituzione si preoccupa che abbia un’alimentazione diversa, magari anche più costosa. Se un bambino musulmano chiede un’alimentazione priva di maiale e vino durante la cottura del cibo, non credo si chieda qualcosa di complicato. I costi sono ragionevoli e non implicano alcun aggravio. Fortunatamente, anche da questo punto di vista in Toscana la comunità islamica è riuscita a fare un accordo con l’ospedale. All’interno delle strutture sanitarie abbiamo la possibilità di chiedere un cibo compatibile con la fede islamica, privo di maiale o altro. Spesso e volentieri, quando mandiamo i nostri figli nelle scuole e i bimbi non sanno cosa devono mangiare, ci preoccupiamo perché pensiamo che possano essere serviti loro alimenti per noi non leciti.

La terza barriera che vorrei venisse superata è quella spirituale. Qui ritorno su un argomento già affrontato prima, quello dell’intesa. Un’assistenza spirituale per i giovani è molto importante, perché sapere che c’è una persona alla quale mi posso rivolgere nel momento di difficoltà è una cosa veramente importante. Si è molto ottimisti se si pensa che possa esserci un’assistenza spirituale anche nelle carceri minorili, perché non abbiamo la possibilità di nominare un assistente spirituale nelle strutture detentive. Mi riferisco qui in particolar modo ai giovani che non hanno la possibilità di avere qualcuno che li visiti e offra loro assistenza spirituale all’interno del carcere. Si può sbagliare, ma è sicuramente importante poter contare su una persona che venga a trovarti, parli la tua stessa lingua e abbia la tua stessa mentalità o quella della tua famiglia. In passato abbiamo avuto dei sacerdoti o delle religiose che entravano nelle carceri e parlavano con i giovani musulmani; era una cosa utile, perché è meglio poco piuttosto che nulla. Avere, però, degli assistenti spirituali musulmani, secondo me è molto importante.

Questo ragionamento non vale solo per le carceri o gli ospedali, ritengo sia molto importante riuscire a raggiungere un’intesa per godere di un’assistenza spirituale anche all’interno delle moschee. Sappiamo che è un elemento rilevante avere persone qualificate in maniera tale che siano sicure. C’è bisogno della garanzia di avere un buon predicatore, non solo per la comunità islamica. Anche alcuni preti sbagliano, si macchiano di crimini come la pedofilia e il papa li solleva dall’incarico. Vorremmo avere la possibilità di creare, assieme alle istituzioni, degli assistenti spirituali all’interno delle moschee, perché i nostri figli abbiano qualcuno che indichi loro qual è la strada giusta e quale quella sbagliata.

L’ultima cosa che volevo condividere con voi è il termine «islamofobia». Pensate che solo la società italiana abbia paura dell’islam? Nel dualismo di cui parlavo prima, la paura appartiene anche ai musulmani. Perché oggi essere musulmani vuol dire avere paura: la gente ti vede come un diverso. Solamente pochi hanno   il coraggio di dire: «Sono musulmano». Sono molto orgoglioso della ragazza davanti a me che ha il velo, che dice a tutto il mondo: «Io sono musulmana». Oggi, essere musulmani equivale a essere un untore. Quindi, l’islamofobia non è unidirezionale: da una parte, c’è la paura della società che sta di fronte alla minoranza musulmana; dall’altra parte, i musulmani stessi hanno paura di quello che sono. E questa paura che cosa produce? Sempre ghettizzazione. Quando una persona ha paura, cosa fa? Cerca di stare con un suo simile, di nascondersi, di non farsi vedere. Credo che un tale atteggiamento non sia un bene per nessuno. Al contrario, la trasparenza, il riconoscimento, l’incoraggiamento alla diversità biologica e di credo sono cose positive. Se c’è una persona che la pensa diversamente da me, devo essere contento. Per quale motivo non devo accettarlo? Per quale motivo devo avere paura di lui?

Che cosa vuol dire reciprocità? Basta andare in Medio Oriente per vedere quante chiese ci sono. In tutti i paesi musulmani ci sono tantissime chiese, se poi i cristiani hanno lasciato il Medio Oriente per motivi politici e oggi, a maggior ragione, per quello che sta succedendo, non è colpa dei musulmani. Certo, magari ci sono persone deviate che favoriscono ulteriormente la contrapposizione che stiamo vivendo, però non si deve attribuire in prima battuta all’islam che è una religione rispettosa degli altri. Torno all’episodio del 637 d.C., quando il secondo califfo entra a Gerusalemme, va a pregare nella chiesa della natività e vi trova i cristiani che pregano. Loro, per rispetto nei suoi confronti, perché entrato da conquistatore, gli chiedono se vuole pregare e lui risponde: «Io non prego qui con voi». Esce dalla chiesa, trova un immondezzaio, chiama i suoi fratelli e dice loro: «Puliamo questo posto pieno di immondizie e mettiamoci a pregare». Qual era il posto pieno di immondizia? L’attuale spianata delle moschee. Il califfo Omar non è andato a pregare in un posto che apparteneva ad altri, a togliere loro qualcosa, anzi, ha permesso agli ebrei di tornare a Gerusalemme quando altri li avevano espulsi. Che cosa significa reciprocità? Significa che qualcuno non mi permette di fare un congresso in un paese islamico? Sentiamo dire da tante persone che in alcuni paesi non c’è libertà: non esiste libertà per i musulmani, figuriamoci per i non musulmani. Queste sono scuse. Non si vuole fare l’intesa? Si possono trovare tante scuse. Non si vogliono concedere dei diritti? Si possono trovare vie d’incontro basate sulla reciprocità. Voglio dunque concludere dicendo che, se vogliamo cercare di fare qualcosa di buono, dobbiamo cercare di pensare a questo 12-15 per cento di giovani che probabilmente ci saranno domani in Italia e risolvere il problema dell’islamofobia. Disabilitare il pregiudizio sull’islam è un bene che non compiamo solo per i musulmani, ma per tutta la società.

 

MOHAMED BAMOSHMOOSH – Medico. Responsabile del dialogo intereligioso per la comunità islamica di Firenze e Toscana.

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