Sull’onda delle proteste scatenate in tutta l’India, nel novembre 2017 un dirigente del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito di maggioranza relativa e perno della coalizione di governo, fissa pubblicamente una taglia di 1,5 milioni di dollari: a beneficiarne sarà chi uccide e decapita l’attrice Deepika Padukone e il regista Sanjay Leela Bhansal, impegnati nelle riprese del kolossal bollywoodiano Padmatavi. Sotto accusa è una scena che, secondo alcune indiscrezioni, descrive in modo romantico un incontro risalente al XIII secolo fra la mitologica regina indù Rani Padmini e il re invasore musulmano Alauddin Khilji. Nella versione definitiva della pellicola, proiettata nelle sale cinematografiche dalla prima metà del 2018, sarà definitivamente cancellata.
Di per sé drammatica, la vicenda è anche rivelatrice di una strategia mediatica che, incardinata sul sentimento nazionalista, è alimentata da una mai assopita identità religiosa. Il che complica a dismisura l’attuale scenario politico e giuridico dell’India, esposto a variabili tanto sfuggenti quanto imprevedibili.
Basti ricordare come questa narrazione impatti su un contesto culturale fra i più variegati e policromatici al mondo, con una Costituzione federale che, accanto alla tutela dei diritti fondamentali e a una concezione della libertà religiosa di chiara matrice liberale, afferma disposizioni a carattere programmatico. Queste sono in particolare volte a superare un lungo passato di diseguaglianze complesse e stratificate (1), come testimonia la scansione gerarchica della società, che proprio attraverso la tradizione religiosa è arrivata a concepire le disumane categorie delle caste inferiori, svantaggiate (scheduled castes, scheduled tribes, other backward castes) e di quelle degli intoccabili (dalits), peraltro espressamente vietate dalla legge fondamentale del Paese (2).
Si aggiunga che, quantomeno sulla carta, la Repubblica dell’India si fonda sui principi dello Stato sovrano, socialista, laico e democratico (Sovereign Socialist Secular Democratic) (3) in evidente contrasto, così pare, con l’ideologia, il programma e gli obiettivi di alcune forze politiche. Come quelle che si riconoscono nel BJP e nel suo leader incontrastato, Narendra Modi, capaci nondimeno di imporsi saldamente ai vertici del potere statale. E lo hanno fatto erodendo quote sempre più consistenti di consenso ai partiti tradizionali, a cominciare dall’Indian National Congress dei Nehru e dei Gandhi, certamente più in linea con l’originario mandato costituzionale.
Il revival dell’induità
Il successo del BJP e di Modi è spesso spiegato con il rinvio all’ondata populista e sovranista che da qualche anno interessa alcuni importanti Stati del ricco Occidente, compresa l’Italia. L’impressione è che, in questi casi, l’ambigua genericità delle etichette serva a celare le difficoltà di comprensione di una realtà socio-economica specifica e peculiare: quindi non sempre leggibile attraverso gli occhiali della cultura e delle dinamiche politiche tipicamente occidentali.
Ad ogni modo, il populismo e il sovranismo non sono sufficienti per spiegare la pervasiva popolarità di una potente macchina elettorale, astutamente oleata con il costante rinvio al nazionalismo religioso, in cui la tradizione induista si contraddistingue per interpretazioni tanto poliedriche e duttili quanto proteiformi e versatili. Al punto che sotto la sua insegna possono oggi trovare posto programmi politici informati alla teologia del liberismo capitalistico, ammobiliato con il consueto corredo di liberalizzazioni, privatizzazioni e strategie economiche basate su una generalizzata deregolamentazione del mercato del lavoro e della speculazione finanziaria. Ma senza per questo dimenticare che nel mare tempestoso della storia l’unica «filosofia e religione da seguire è quella dell’India first» (4).
Il che aiuta a comprendere il revival sul concetto d’induità (hindutva), propriamente incentrato sull’idea della nazione indiana dotata di un’anima storica, di cui l’induismo rappresenta l’essenza eterna, il suo carattere intangibile e permanente. Affondando le radici nella madre terra (bharat-mata) del Subcontinente, l’hindutva si esprime così mediante l’ambizione di alcuni promotori politici, come il BJP. Che, riadattandola alla luce delle dinamiche sociali ed economiche contingenti, la utilizza come supporto ideologico nella ricerca del consenso e, di conseguenza, nella scalata ai vertici della potestà governativa.
Un obiettivo, questo, perseguito agendo su più fronti – da quello mediatico a quello sociale, da quello giudiziario a quello istituzionale – e che trova nella religione, o meglio nell’interpretazione della tradizione cultural-religiosa, il filo da disbrogliare: il denominatore comune che, come tale, è capace di condurre nel mezzo di qualche verità, sempre e comunque religiosamente connotata.
Nazionalismo religioso e ruolo dei media
Sul piano mediatico questa tendenza affonda le radici nei primi anni Ottanta del secolo scorso, quando riprende forza e vigore l’idea del mitico passato indù. Vettori mass-mediali privilegiati con cui si «inventa» (nel senso di invenire, trovare con l’immaginazione o l’ingegno) la tradizione sono gli schermi della televisione. Lo testimoniano le popolari serie TV Mahahharat, Ramayana e Chanakya che, seguite ogni settimana da più di seicento milioni di persone, danno un importante contributo alla creazione di un’accesa atmosfera religiosa, generando ardori nazionali e rivitalizzando l’orgoglio identitario specificamente induista. Snobbate dalle élite laiche e dagli intellettuali progressisti, le loro immagini veicolano testi e messaggi piuttosto banali, ma proprio per questo immediati, chiari e facilmente comprensibili.
Lontano dalle accurate ricerche filologiche e dalle meticolose esplorazioni storiografiche, queste serie televisive raccontano di un passato ricco e in armonia: una società in fiore irrimediabilmente distrutta dagli invasori. Il riferimento, non casuale e neanche tanto nascosto, è in particolare ai musulmani e in parte anche ai cristiani che, intralciando il disegno e la bontà della tradizione induista, hanno spianato la strada a un inesorabile declino. Le serie concorrono così a mettere in moto una catena di eventi, all’interno della quale s’inseriscono le componenti più avanzate ed estremistiche del BJP, un partito che, ridotto al lumicino, sta in quel periodo combattendo per la sua stessa sopravvivenza.
La dimostrazione più evidente di questa attitudine è data dalla questione politica riguardante il luogo di nascita di Rāma (eroe del poema epico Rāmāyana) ad Ayodhya, dove si trova una moschea medievale. Aizzati anche dalle sue gesta militari, così come efficacemente esaltate dalle immagini televisive, la moschea è distrutta nel 1992, proprio quando il BJP vede crescere in modo vigoroso il suo consenso elettorale, formalizzato da un numero sempre più consistente di seggi in Parlamento.
Consistente e vigorosa è anche la campagna di slogan che dai muri e dai tabelloni delle città indiane invitano le persone a uscire allo scoperto, dichiarando con orgoglio la loro induità. Il che, ovviamente, si pone in linea con l’invito a votare «per quelli che s’identificano con l’hindutva», rispetto alla quale il BJP rivendica il ruolo di principale garante e di accreditato rappresentate politico (5).
La strategia mediatica non cambia con l’avvento di internet e dei social media. Anzi, i nazionalisti conservatori scoprono che la loro struttura comunicativa si adatta perfettamente all’idioma dei nuovi media. Questi vengono invasi da siti e da social networks in lingua hindi inneggianti all’identità religiosa induista che, particolare non secondario, è declinata alla luce delle opportunità offerte dall’economia liberista e dalle moderne tecnologie. Una dimostrazione tanto sintetica quanto immediata è in questo senso fornita dallo slogan elettorale del BJP e di Modi basato sulle «cinque T»: technology, trade, tourism, talent e tradition.
Il che spiazza nuovamente i partiti tradizionali, più inclini ai vecchi rituali della politica fatta di discussione, congressi, dibattiti, mozioni e delibere più o meno condivise.
I nazionalisti estendono così la loro influenza a settori importanti della società, solcando con ancora più convinzione l’arma della pedagogica persuasione. Il risultato più evidente è dato dal proliferare di versioni accomodanti della storia nazionale, frutto a loro volta di un metodo scientifico al contrario: che, nel nome di un predeterminato obiettivo e di una data ideologia, esclude dalla catena deduttiva e dall’indagine storiografica tutti gli elementi dissonanti. È quanto si palesa, ad
esempio, in una notizia del 6 marzo 2018, secondo la quale una commissione, nominata dal primo ministro Narendra Modi, lavora da mesi per provare che gli indù sono diretti discendenti dei primi abitanti dell’India (6).
L’opera nel sociale e l’uso della violenza
Il successo dei nazionalisti si spiega anche con l’enorme impegno profuso nel sociale, a livello locale e fra le fasce più povere della popolazione: un impegno che, peraltro, non esclude il ricorso alla forza e alla violenza. Quanto al BJP, in questo caso l’opera è sostanzialmente appaltata all’ala paramilitare della Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), dalle cui file proviene lo stesso Modi. E non va dimenticato che la RSS è stata sempre affascinata, così pare, dalle idee fasciste e nazionalsocialiste, ancorché declinate secondo la prospettiva e l’ideologia del nazionalismo religioso induista.
A esse, per esempio, faceva riferimento la tragica figura di Nathuram Vinayak Godse che, membro della RSS, alla fine della Seconda guerra mondiale salì agli onori della cronaca per aver assassinato Gandhi. Ciò spiega l’azione repressiva di Nehru che, succeduto al Mahatma, costrinse la suddetta formazione a vivere per molto tempo nella semiclandestinità, senza però riuscire a sradicarla dalla società. Al contrario, con il passare degli anni, la vecchia RSS sviluppa ulteriormente questa sua propensione. Tanto che oggi può vantare un circuito di 25.000 sezioni locali con oltre due milioni di iscritti, cui si aggiunge il controllo di uno dei principali sindacati studenteschi e del maggior sindacato operaio, la gestione di scuole molto apprezzate dal ceto medio e la direzione di associazioni specializzate in interventi di indole caritatevole, soprattutto nelle zone tribali e nelle baraccopoli. Il filo conduttore che anima questi interventi è un fervente nazionalismo religioso, nel nome del quale non si esclude il ricorso a metodi violenti. Come quello che sembra caratterizzare le cerimonie di massa del «ghar wapsi».
Letteralmente «ritorno a casa», il ghar wapsi rinvia alla necessità che indiani appartenenti a un’altra fede ritornino alla dimora, originaria e materna, della religione induista (7). E senza che ciò possa configurare il reato di induzione alla conversione, così come previsto dalle leggi di alcuni importanti Stati della Repubblica (8): non di vera conversione si tratta, precisano i leader della RSS, ma semplicemente di un ritorno alla casa madre dell’induismo. Il paradosso raggiunge vette impensate se si considera che queste stesse leggi sono invece utilizzate per contrastare le conversioni dall’induismo a un’altra confessione. Paradosso che, dopo tutto, si scioglie alla luce degli obiettivi concreti dei nazionalisti: facendo leva sui dispositivi legali in esame, essi hanno ad esempio potuto accusare missionari cristiani di celebrare illecitamente il battesimo (9).
D’altra parte, ciò finisce per toccare i nervi sensibili della libertà religiosa, così come disciplinata dall’art. 25 della Costituzione del 1950, per cui «tutte le persone sono titolari della libertà di coscienza e del diritto di professare, praticare e propagandare liberamente la fede». E non è certamente un caso se questa disposizione e alcune delle sue più liberali interpretazioni abbiano suscitato le proteste dei nazionalisti; proprio perché in conflitto con il bisogno di conservare e proteggere l’antica cultura giuridica indiana. Una cultura in parte snaturata dal colonialismo e dall’affermazione d’insediamenti socio-confessionali «altri», tali perché non in linea con l’identità del Subcontinente che, secondo questa impostazione, è storicamente informata all’hindutva.
La presenza sul territorio dei nazionalisti religiosi è segnata anche con atti e gesti ancor più eclatanti, il cui impatto mediatico è spesso amplificato con video postati su internet. I violenti episodi riguardanti la questione della difesa delle mucche stanno lì a dimostrarlo.
Dichiarate sacre dall’induismo e protette dalla normativa statale, i bovini indiani hanno potuto contare, negli ultimi anni, su un supplemento di tutela, grazie anche alle politiche del governo federale. Oltre ad aver inasprito le pene per chiunque faccia loro del male, in alcuni casi questa tutela si estende fino a comprendere e giustificare azioni d’inusitata brutalità. Lo testimonia quella occorsa a maggio del 2018 in un villaggio del Madhya Pradesh, dove due uomini sono stati trovati in possesso di carne macellata: sospettando che fosse appartenuta a una mucca, queste persone sono state aggredite da estremisti nazionalisti, più precisamente dalla «Gau Raksha Dal» (in inglese Cow Protection Squad), uno dei tanti gruppi di vigilanza volontaria per la protezione dei bovini. Uno dei due uomini è morto, l’altro è stato ricoverato in ospedale in gravi condizioni (10).
Un codice civile uniforme (all’hindutva?)
In questo inquietante scenario, e soprattutto nelle zone più povere dell’India, ai credenti in religioni diverse dall’induismo e ai non credenti (atei e agnostici) le alternative sembrano essere limitate: venire assorbiti dalla religione di maggioranza, magari mediante una conversione spacciata come ritorno alla fede originaria, oppure essere espulsi dal Paese. La terza possibilità consiste nel prepararsi a vedere la propria esistenza variamente minacciata, se non anche distrutta. Ciò spiega la tensione rispetto a un quadro giuscostituzionale che, quantomeno sulla carta, si muove in direzione esattamente opposta. Ma questo spiega anche la reazione delle componenti riformiste della società nei confronti della politica legislativa riguardante i diritti individuali, compresi quelli afferenti alla libertà religiosa. L’esempio più indicativo è qui fornito dal celebre articolo 44 della Costituzione del 1950.
Inserita fra i principi programmatici (directive principles of State policy), quindi non direttamente giustiziabili, la disposizione invita il Parlamento ad approvare un codice civile uniforme. Siccome non giustiziabile, e vista l’endemica inerzia del legislatore federale, l’art. 44 non ha però fino ad ora generato alcun effetto, lasciando così spazio agli statuti personali religiosamente connotati (11). Con l’arrivo al potere del BJP, esso ha nondimeno prodotto importanti conseguenze sul versante del dibattito politico: proprio perché fra i punti qualificanti del programma di governo targato BJP figura l’approvazione del codice civile uniforme. Il suo contenuto, si precisa nel Manifesto elettorale del 2014, deve tuttavia essere desunto dalle migliori tradizioni (induiste?), ancorché armonizzate con le necessità dei tempi moderni (to draft a uniform civil code, drawing upon the best traditions and harmonizing them with the modern times) (12).
La formula e le sottese intenzioni sono talmente ambigue da spingere molti movimenti, soprattutto quelli a difesa delle donne e delle loro prerogative, a cambiare strategia. A differenza del passato, essi vedono ora con grande preoccupazione l’approvazione dell’«uniform civil code» che, di là del nomen, nelle mani del BJP rischia di tramutarsi in un codice civile uniformato alle sole esigenze dell’hindutva, quindi non propriamente in linea con la tutela dei diritti individuali e delle libertà fondamentali (13).
La tradizione indù e la doppia vocazione del costituzionalismo indiano
Subito dopo l’indipendenza, il fenomeno religioso ha rappresentato il viatico mediante il quale sì è affermata la doppia vocazione del costituzionalismo indiano: per un verso, occorre costruire limiti e garanzie nei confronti dei gruppi religiosi, combinandoli con le sfere di autonomia individuale e delle libertà fondamentali; per l’altro, bisogna consentire a questi gruppi di partecipare alla costruzione del nuovo fenomeno giuspolitico, facendo leva sull’elemento del consenso e, quindi, sul loro radicamento territoriale e a livello sociale.
La laboriosa ricerca di un ragionevole compromesso fra queste due esigenze – compromesso vieppiù necessario in un contesto culturale caratterizzato da una marcata alterità religiosa – è stata condizionata da altri bisogni e fattori. Fra questi, un posto di rilievo è ricoperto dalla necessità di ridurre le intollerabili sacche di povertà. E di farlo tenendo conto della progressiva affermazione della globalizzazione e del nuovo ius mercatorum. Ciò che poi ha ridimensionato l’importanza di alcuni principi e diritti, pure stabiliti in grande evidenza nella Costituzione del 1950.
L’esempio è fornito proprio dalla laicità dello Stato e dalla libertà di fede, la cui interpretazione è oggi sottoposta alla potente pressione esercitata da un crescente nazionalismo. Una ripresa che, come si è cercato di dimostrare nel presente lavoro, è stata negli ultimi anni rivitalizzata attraverso l’opera di alcuni abili imprenditori politici, mediante anche l’utilizzo del concetto di hindutva (14).
Il che, d’altra parte, dimostra la grande malleabilità e versatilità dell’induismo capace, nel bene e nel male, di (re)inventarsi alla luce della concreta realtà, conferendo ai contenuti della sua tradizione una perenne attualità.
FRANCESCO ALICINO – Ordinario di Diritto pubblico delle religioni, LUM Jean Monnet, Casamassima, Bari.
Note
1 M.C. Nussbaum, The Clash Within: Democracy, Religious Violence, and India’s Future, The Belknap Press of Harvard University Press, London-Cambridge (Mass.), 2007, trad. it. a cura di R. Falcioni, Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e futuro dell’India, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 189. Sul punto, fra gli altri, si veda anche A. Beteille, Caste, Class and Power: Changing Patterns of Stratification in a Tanjore Villane, Oxford University Press, New Delhi, 1996, spec. p. 46 e segg.
2 Art. 17 della Costituzione.
3 Preambolo della Costituzione.
4 Così il BJP Manifesto 2014, p. 8. reperibile su http : / /www. bjp. org / images / bjp _ manifesto _ an_ abridged_ version_english_26.04.14. pdf (ultimo accesso 14 ottobre 2018).
5 A.S. Ahmed, «“Ethnic Cleasing”: A metaphor for Our Time?», in Ethnic and Raciual Studies, vol. XVIII, 1, 1995, ora con trad. it. a cura di S. Artoni, «“Pulizia etnica”: una metafora per la nostra epoca?», in N. J. Anigro (a cura di), La guerra moderna come malattia della civiltà, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 232.
6 Sorprendente e disarmante la risposta fornita alla Reuters dal Presidente della commissione, K.N. Dikshit: «I have been asked to present a report that will help the government rewrite certain aspects of ancient history» (corsivo mio); in R. Jain, T. Lasseter, «By rewriting history, Hindu nationalists aim to assert their dominance over India», Reuters Investigates-Cultural division, 6 marzo 2018, https:// www. reuters. com/investigates/special-report/india-modi-culture/ (ultimo accesso 14 ottobre 2018).
7 La parola ghar ha origine nel sanscrito è vuol dire appunto «casa», mentre l’origine etimologica del lemma wapsi è da ricercarsi nel persiano e sta a indicare l’azione del «ritorno».
8 Precisamente in Orissa, nel Chhattisgarh, nell’Arunachal Pradesh, nel Gujarat, nel Rajasthan, nell’Himanachal Pradesh, nel Madhya Pradesh e nel Tamil Nadu.
9 Per approfondimenti F. Alicino, La disciplina delle conversioni nella Repubblica dell’India, Daimon, 2016, pp. 69-90.
10 R. Srivastava, «Muslim killed over suspicion of cow slaughter in Madhya Pradesh», Hindunistantimes, 20 maggio 2018.
11 Il riferimento è ai numerosi atti legislativi che disciplinano il diritto di famiglia in ragione dell’appartenenza religiosa. Per restare al solo induismo, tali atti afferiscono in particolare all’Hindu Marriage Act (1955), all’Hindu Succession Act (1956), all’Hindu Minority and Guardianship Act (1956) e all’Hindu Adoption and Maintenance Act (1956).
12 BJP Manifesto 2014, op. cit., p. 41.
13 F. Alicino, Natura umile, saggia, potente e perciò sottomessa. Il ruolo della donna nell’Induismo fra tradizione e modernità», Daimon, 2018, in corso di stampa.
14 F. Alicino, «Libertà religiosa e principio di laicità in India», in D. Amirante, C. Decaro Bonella, E. P. Fostl (a cura di), La Costituzione dell’Unione Indiana. Profili introduttivi, Giappichelli, 2013, pp. 195-221.