Culture politiche e democrazia nel 1900 (1)
Cultura politica e democrazia
Politici e giornalisti utilizzano spesso il concetto di cultura politica per indicare sostanzialmente un modo di far politica o una sensibilità politica che è diversa, ad esempio, da partito a partito o anche da corrente a corrente nell’ambito dello stesso partito. In realtà il termine ha un significato diverso e nasce da un particolare filone di studi, sorto in contesto storico particolare, il primo dopo guerra, che non mancherà di condizionarne gli assunti di base, le interpretazioni e le teorizzazioni. Il termine venne coniato alla fine degli anni ’50 da Gabriel Almond e Sidney Verba. Due sociologi americani appartenenti alla scuola comportamentista, che hanno dato vita a una numerosa serie di lavori tendenti ad analizzare la cultura politica sia di Paesi stabilmente democratici, sia di Paesi recentemente usciti da regimi totalitari, sia, infine, di Paesi in via di sviluppo. Secondo la loro impostazione originaria, una cultura politica si definisce, in estrema sintesi, come l’insieme degli atteggiamenti, delle cognizioni, dei sentimenti e delle valutazioni della popolazione nei confronti del sistema politico.
Dunque la loro attenzione si concentra sostanzialmente sugli atteggiamenti, gli orientamenti (anche di tipo psicologico) della popolazione verso la politica, non sulle differenze di orientamento, ideologia e programma dei diversi partiti politici. Questo tipo di impostazione, che si differenzia dalla tradizione politologica caratterizzata, sino ad allora, prevalentemente dagli studi sul potere, sull’accesso, sulla ripartizione e sulla regolamentazione del potere, sposta – non a caso – l’attenzione sulla popolazione. Dai governanti ai governati. L’intento era infatti quello di analizzare i sistemi democratici per capire come contribuire al loro rafforzamento, consolidamento ed espansione. Come gli stessi autori hanno esplicitamente riconosciuto, questo genere di studi è stato sostanzialmente stimolato da due motivazioni di fondo. Una esterna e una interna alla disciplina. Per quanto riguarda la prima, lo stesso Almond si dice convinto che l’improvvisa popolarità assunta dagli studi in materia negli anni Sessanta derivi dalla necessità sentita dagli studiosi di dare una risposta a quello che poteva essere letto come il fallimento delle aspettative, se non delle previsioni, della corrente illuminista. L’idea di progresso insita nelle teorie illuministiche, un progresso umano, morale, intellettuale e politico, influenzato anche dallo sviluppo economico e dalle trasformazioni portate con sé dalla Rivoluzione industriale, aveva subìto un drammatico rovesciamento di prospettiva con l’avvento della crisi economica in alcuni Paesi ma, soprattutto, con l’affermarsi dei regimi totalitari in Europa e l’evidenza della capacità distruttiva della Seconda guerra mondiale (2). Con il nazismo in Germania, il fascismo in Italia e, per l’ appunto, con lo scoppio delle guerre mondiali, lo sviluppo del progresso scientifico, delle idee liberali, della stessa coscienza umana sembravano aver subito un brusco arresto.
Proprio i sociologi non potevano mancare di interrogarsi su questa «notte della ragione» (3) e non mancarono quanti decisero di mettere le proprie competenze al servizio della democrazia. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare che la Seconda guerra mondiale diede un forte impulso alle discipline sociali, dalla psicologia alla scienza politica, passando per le teorie e le tecniche di comunicazione. Ad esempio, gli psicologi americani sin dal 1939 deliberarono, sotto l’egida della Società Americana di Psicologia, di impegnarsi a difesa delle istituzioni democratiche (4). Nacquero così gli studi sull’aggressività (cosa la scatena e cosa invece la attenua), sul mutamento degli atteggiamenti (per capire cosa influenza le scelte e i comportamenti e soprattutto, come orientarli).
Per quel che ci riguarda più da vicino, la portata degli eventi storici tra le due guerre mondiali e l’avvento dei totalitarismi avevano indotto i sociologi a interrogarsi sulle cause che possono portare uomini e popoli a interrompere «il continuum del progresso». Gli studi sulla cultura politica nacquero dunque dall’esigenza degli studiosi di comprendere meglio i fattori che rendono stabile una democrazia, nel tentativo di contribuire alla sua espansione e al suo radicamento anche in altri paesi. Questi studi furono resi possibili anche grazie al secondo fattore che vi diede impulso, il quale, come accennato poc’anzi, era invece interno all’accademia: lo sviluppo delle tecniche di indagine e in particolare di campionamento, che raffinarono e migliorarono l’attendibilità dei sondaggi. Anzi, secondo Almond, lo sviluppo della metodologia e delle tecniche di survey rappresentano l’elemento più importante per la genesi di questo tipo di ricerche (5) e gli studi sulla cultura politica ne faranno poi largo uso proprio per indagare e monitorare la possibile tenuta democratica dei Paesi indagati.
È bene sottolineare come la cultura politica sia qui intesa come la dimensione soggettiva del sistema politico (6). Per riprendere brevemente la definizione di Almond e Verba:
- «La cultura politica consiste nel complesso degli orientamenti soggettivi nei confronti della politica in una popolazione nazionale o in un suo sottoinsieme.
- La cultura politica ha componenti cognitive, affettive e valutative; comprende le conoscenze e le credenze sulla realtà politica, i sentimenti nei confronti della politica e i legami ai valori politici.
- Il contenuto della cultura politica è il prodotto della socializzazione infantile, dell’istruzione, dell’esposizione ai mezzi di comunicazione e delle esperienze adulte dei processi politici, sociali ed economici.
- La cultura politica influenza le strutture politiche e di governo e le loro prestazioni. Le condiziona, ma certo non le determina: le frecce causali tra cultura e struttura vanno in entrambi i sensi» (7).
Secondo questa impostazione poi, in ogni Paese si riscontra – ed è bene analizzare – una cultura politica relativa ai tre livelli di cui è composto ogni sistema politico: una cultura politica relativa al sistema, una relativa al processo e, infine, una cultura politica riguardante le politiche.
La cultura politica del sistema è data dall’insieme delle tre dimensioni di ogni cultura politica (conoscenze, sentimenti e valutazioni) relative a: 1. le autorità politiche; 2. il regime (ovvero la struttura istituzionale); 3. la nazione. Volendo indagare la cultura politica del sistema in una determinata nazione, bisognerà dunque sondare quanto la popolazione conosce le autorità politiche, le istituzioni, quanto dimostrerà attaccamento e fiducia nei loro confronti o, viceversa, rifiuto e distacco, e quanto li giudicherà positivamente o negativamente.
La cultura del processo, a sua volta, è data dall’insieme delle tre dimensioni di ogni cultura politica (conoscenze, sentimenti e valutazioni) relative al sé come attore politico, agli altri attori politici come partiti, gruppi di pressione e di interessi, alle politiche amministrative e di governo (8).
Nella cultura del processo si introduce un elemento fondamentale per la concezione almondiana della tipologia di cultura politica più favorevole alla democrazia sulla quale è incentrato l’impianto stesso del suo lavoro: il concetto del sé come attore politico. Più i cittadini si riterranno potenzialmente capaci di attivarsi in caso di «storture» del sistema democratico, più il sistema potrà dirsi protetto da instabilità e potenziali derive autoritarie, poiché saranno i cittadini, in ultima analisi, a esercitare un controllo su di esso e ad attivarsi, qualora necessario, per ripristinare lo statu quo. Più in generale, sempre secondo l’impostazione almondiana classica, una democrazia sarà tanto più forte quanto più nel Paese la cultura politica relativa al sistema e al processo saranno caratterizzate da orientamenti prevalentemente positivi. In altre parole, se in un Paese la popolazione mostra tendenzialmente di nutrire fiducia verso la classe politica, verso le strutture politiche, nonché attaccamento e orgoglio verso le istituzioni e sicurezza di sé come potenziale attore politico in grado di attivarsi in caso di necessità, tanto più la democrazia sarà al riparo da pericoli. Al contrario, quando la popolazione manifesta sfiducia e distacco verso la classe politica, scarsa identificazione e attaccamento verso le istituzioni, e non si ritiene competente e in grado di attivarsi politicamente, allora ci si troverà di fronte a un Paese a potenziale rischio di scivolamento verso forme politiche non democratiche. Una concezione non scevra da idealismi che, come ben evidenzieranno diversi autori, tra i quali, particolarmente convincente appare l’analisi di Carole Pateman (9), rappresenterà uno dei limiti e delle ambiguità dell’impostazione teorico-metodologica del lavoro – pur pioneristico – sulla cultura politica.
Ritengo che basare un’analisi sulla cultura politica di un Paese, cercando di prevederne la sua tenuta democratica sulla sola base di inferenze tratte dall’autopercezione dei cittadini, sia un errore.
Più precisamente, la mia ipotesi di lavoro si fonda sulla necessità di ampliare il concetto di cultura politica, evitando di riferirlo solo all’analisi delle categorie soggettive e agli elementi cognitivi, affettivi o valutativi che siano. Prendendo spunto dalla concezione etno-antropologica, ritengo necessario ricomprendervi anche le prassi e le azioni. Non solo perché, come ampiamente noto a qualsiasi ricercatore sociale, nelle interviste gli intervistati possono riferire non tanto o non solo quello che pensano davvero, ma – e qui sta il pericolo – anche quello che ritengono di dovere o di volere dire all’intervistatore. Questo già dovrebbe indurre a una certa cautela nel tentare di interpretare fenomeni complessi, ma c’è soprattutto un altro motivo che mi spinge a rivedere il concetto, ampliandone la sua impostazione originaria: è la convinzione che una cultura, qualsiasi cultura, contenga in sé anche aspetti materiali e non solo cognitivi, come hanno efficacemente dimostrato diverse scuole di ricerca antropologica prima di noi. Secondo le quali, ad esempio, anche il modo di vestire, costruire case e oggetti appartiene alla cultura propria di un popolo. Se prendiamo a riferimento la definizione classica di cultura data dall’antropologo Edward Burnett Tylor in Primitive culture (1871), vediamo che ogni cultura è data da «quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come membro di una società» (10). La produzione di cultura è dunque una conseguenza della vita associata (non un fatto individuale o soggettivo) e contiene aspetti sia materiali che immateriali, le leggi come l’etica, la conoscenza come i comportamenti. Insomma, in questa accezione troviamo un insieme di pratiche, significati, comportamenti, conoscenze e certamente anche simboli che scaturiscono dalla socialità umana nel suo essere storicamente, geograficamente ed economicamente determinata.
Da questa prospettiva, una cultura politica è tutto l’insieme di quanto sopra in relazione alla sfera politica e, più specificatamente, essa comprende le forme giuridiche, politiche e culturali scaturite dalla vita associata in un dato momento storico e in una data società; le credenze e le conoscenze dei cittadini in merito alla sfera politica ovvero i valori, i comportamenti politici/elettorali, gli atteggiamenti, i simboli e gli oggetti, le istituzioni e la legislazione, l’organizzazione e le azioni politiche, nonché le teorie politiche stesse che concorrono a formare le idee, le ideologie, le forme giuridiche e istituzionali, gli atteggiamenti come i sentimenti, le valutazioni come le opzioni.
Peraltro, se non si inserisce la cultura politica nel contesto dal quale scaturisce, essa finirà con l’apparire un concetto volatile, più simile all’opinione pubblica (come metteva in guardia Allum) che non a una variabile in grado di predire la stabilità democratica di un Paese. D’altro canto, sarà lo stesso Almond nel 2005 ad evidenziarne – tra i limiti – proprio le fluttuazioni (11). Una fluttuazione troppo ampia e destabilizzante per essere considerata come variabile indipendente.
Se ci si riferisce all’Italia in particolare, l’aver limitato l’analisi all’autopercezione e non agli effettivi comportamenti osservati o registrati, ha indotto gli autori, nei lontani primi anni ‘60, nell’errore previsionale di ritenere troppo fragile la nostra democrazia per poter durare (12). Forse, se si fosse tenuto conto dell’alta partecipazione al voto (storicamente e stabilmente ben più alta in Italia che negli Stati Uniti, ad esempio), se si fosse seguita con maggiore attenzione l’effettiva partecipazione (e non solo quella riferita nei sondaggi) attraverso le grandi organizzazioni di massa, l’iscrizione a un partito, a un sindacato, a manifestazioni, assemblee, nonché la diffusione di organi d’informazione partigiani, e, non da ultimo, la progressiva inurbanizzazione e scolarizzazione della popolazione, gli autori avrebbero potuto ottenere un quadro più chiaro della realtà in trasformazione del Paese.
Tuttavia, va dato atto a questo studio non solo di aver spostato l’asse dell’analisi dei fenomeni politici dai «governanti» ai «governati», di aver innovato le tecniche d’indagine attraverso l’ampio ricorso alle surveys anche in questo campo, ma, per quello che ci riguarda più precisamente – ovvero l’Italia – esso ha anche registrato alcuni elementi caratteristici della nostra cultura politica che sono ancora attuali quali, in particolare, l’emergere di uno scarso senso civico e di un rapporto difficile, quando non sospettoso, con le istituzioni.
Per decenni, dall’immediato dopoguerra sino agli anni ‘90, fino al crollo del Muro di Berlino e a Mani pulite, i partiti hanno svolto un ruolo cruciale di raccolta, rappresentanza e mediazione degli interessi legittimi delle diverse classi o fasce sociali, svolgendo anche una primaria funzione di socializzazione politica di ampi e diversi fra loro strati della popolazione. Hanno mediato tra la popolazione e le istituzioni cui rappresentavano le loro istanze e necessità. Contribuendo al miglioramento del rapporto tra istituzioni e cittadini. Hanno insomma svolto un ruolo cruciale di produzione, socializzazione e «controllo» della democrazia. Oggi la sfiducia verso i leader politici e i partiti si riversa sulle istituzioni, producendo un distacco e una disaffezione che ci appaiono pericolosi per la tenuta democratica del Paese.
Tuttavia, è bene ricordare come i partiti siano stati visti come centrali ai processi democratici solo per un breve lasso di tempo.
Partiti e democrazia
I partiti, come dicevamo, hanno svolto per tutta la seconda metà del secolo scorso una funzione cruciale di raccolta e rappresentanza degli interessi legittimi di ampie fasce di elettori nonché, tradizionalmente, di intere classi sociali. Una funzione regolatrice e di mediazione tra Stato e cittadini, che oggi sembra venire meno alla luce delle trasformazioni in atto ma alla quale si ritiene di non poter rinunciare senza incorrere in rischi più o meno gravi per la fibra democratica di un Paese. La stessa democrazia interna ai partiti sembra subire un contraccolpo dall’affermazione della leadership, in contrapposizione al rilievo assunto nei decenni passati dall’organizzazione capillare sul territorio, dalle strutture deliberative intermedie e dalla conseguente (non di rado presunta) collegialità delle decisioni.
Il ruolo assunto dai media, la sovraesposizione mediatica dei leader, il contatto diretto consentito dalle nuove tecnologie, oltre che dalla televisione, tra leader ed elettore, contribuiscono a ridurre il peso delle strutture partitiche tradizionalmente intese, facendo emergere al contempo nuove forme di populismo.
Nelle classifiche volte a misurare la fiducia verso le istituzioni, enti/organizzazione/professioni, i partiti si posizionano all’ultimo posto.
Sembra concludersi l’età gloriosa di queste organizzazioni e il nuovo stenta a coagularsi in una realtà intelligibile, lasciando studiosi e opinion leader preoccupati e incerti sul futuro delle nostre democrazie. Tuttavia occorre rammentare come l’avversione per i partiti, lungi dall’essere un fenomeno nuovo, parta in realtà da molto lontano. Da ben prima che questi si affermassero come organizzazioni di massa. Alla loro nascita e prima della loro affermazione questi sono anzi stati temuti e considerati, fino all’‘800, come i più pericolosi nemici della democrazia stessa. Il ruolo dei partiti, la loro fama e credibilità sono stati decisamente altalenanti nel tempo e, contrariamente a quanto si ritiene diffusamente oggi, se preso nel suo insieme, il percorso che ha portato alle attuali democrazie occidentali appare piuttosto influenzato da un’avversione storica verso i partiti. Un’avversione, è questa la tesi dei miei lavori degli ultimi anni, che non scaturisce dagli sprechi e dai costi della politica o, peggio, dalla sua manifesta corruzione, come si tende ad interpretare oggi. Piuttosto, l’avversione precede la loro stessa affermazione, quando venivano sottolineati i pericoli delle fazioni e delle passioni politiche, viste come foriere di divisioni anziché di unità. Già Hobbes, nel De Cive, paventava i rischi che si corrono quando gli uomini si riuniscono in partiti, facendosi Stato dentro lo Stato. Dunque nemici dello Stato (13). Un’avversione, dicevamo, che ha attraversato i secoli e gli oceani.
Sin dall’antica Grecia, l’ideale cui tendere è stato per quasi duemila anni la presunta ricerca dell’unità, della concordia. Un ideale naturalmente disatteso nella pratica, fatta piuttosto di lotte fratricide, guerre sanguinose e battaglie per la successione senza esclusione di colpi. Questa ricerca ideale dell’ecumene è sembrata infatti andare di pari passo con la violenza più truce. Violenza che non si esitava a mettere in atto per sbaragliare avversari, eredi e chiunque potesse intralciare il cammino verso il potere. Naturalmente il vincitore di turno, per cercare di regnare abbastanza a lungo e senza troppi scossoni, aveva buon gioco a riproporre, una volta in sella, il topos della concordia.
L’ideale, tuttavia, doveva avere una sua forza persuasiva irresistibile se ad esso si ricorre – con successo – persino per domare il principe e asservirlo alla superiore volontà della Chiesa. L’unica, come argomentava efficacemente Tommaso D’Aquino, in grado, per volontà divina, di garantire la pace per il bene di tutti.
Nemmeno il tentativo di autogoverno delle città-stato, e quindi dell’introduzione di un principio di bene comune laico, cui si provvede con dei propri rappresentanti eletti, riuscirà ad assolvere a questa funzione. Il periodo verrà anzi ricordato più per le lotte di fazione che per le sue capacità di provvedere agli interessi e alle necessità dei cittadini.
L’Italia conoscerà ancora le lotte tra i guelfi e i ghibellini, conflitti intestini e violenti e saranno proprio le divisioni interne a portare al crollo delle città-repubbliche. Il cui impatto sulla cultura politica europea avrà notevoli ripercussioni per i secoli a venire. I pericoli delle fazioni, delle passioni politiche vengono ulteriormente enfatizzati, se possibile, dalle guerre di religione dei secoli successivi.
Ancora nel ‘700, il dibattito politico inglese ruota intorno ai pericoli paventati delle fazioni, delle passioni politiche, così come si svilupparono nell’Italia medievale. Una volta allontanato il ricordo delle guerre di religione si possono affacciare sulla scena dei timidi tentativi di riconoscere ai partiti l’eventualità di potersi fondare su «principi» e non sugli interessi (cfr. Hume e Burke, per esempio) (14). Ma la Rivoluzione francese non aiuterà l’affermazione del processo, anzi, non farà che ricordare come la divisione sia contraria al bene comune. Persino Rousseau, nel suo Contratto sociale, insisterà su questi temi. E non spira un vento favorevole ai partiti nemmeno nella nuova America, i cui padri fondatori argomentavano contro gli interessi di parte. Lo stesso Alexis De Tocqueville che pure riconosce ai «grandi partiti» la capacità di perseguire l’interesse generale, poi addita i «piccoli partiti» come pericolosi, faziosi, mossi da interessi particolari (15).
Insomma, la storia dei partiti politici ci appare innanzitutto come il resoconto di un’avversione storica. I partiti vengono visti come fazioni, soggetti partigiani, contrari all’unità e al benessere comune. Come i rappresentanti del particolare, dunque persino contrari alla democrazia, praticamente fino all’‘800.
Diversamente da quel che riteniamo oggi, i partiti sono apparsi come nemici della democrazia persino ai padri fondatori delle democrazie occidentali. Abbiamo accennato al caso statunitense. Il parlamentarismo inglese non fu da meno. Ancora ai primi del ‘900, l’avvento dei partiti di massa suscitò in non pochi commentatori la preoccupazione per una crisi di rappresentanza (16), considerato che il governo rappresentativo moderno nacque in condizioni ben diverse, in assenza dei partiti di massa. Si trattava di un sistema basato sulla fiducia personale riconosciuta a singole personalità di spicco locali, che peraltro non si voleva vincolare a mandati imperativi, a decisioni altrui, anche se collegiali, tantomeno se provenienti da un partito. Il parlamentarismo liberale inglese, ispirato a questi principi, era considerato un perfetto modello di governo rappresentativo (nonostante il suffragio universale fosse di là da venire) (17).
Come sappiamo, nel corso del secolo passato, i partiti hanno invece assunto un ruolo ben diverso. Da un lato, «l’aggregazione degli eletti che si riconoscono come portatori delle stesse opinioni (e degli stessi interessi)» porta ai «cosiddetti partiti dei notabili» (18); dall’altro, i mutamenti in atto nella sfera produttiva, economica e sociale, come l’urbanizzazione e l’industrializzazione, portano all’emergere di nuove categorie sociali e professionali, radunano masse fino a quel momento disperse sul territorio, affiorano nuovi problemi e bisogni che vengono intercettati dai partiti di ispirazione socialista, così come gli interessi degli imprenditori pongono sfide nuove ai Lord della Camera Alta. Anche l’offerta politica dunque si riconfigura.
Tuttavia, il percorso che porterà all’affermazione dei partiti resterà accidentato fino ai primi del ‘900. A cavallo dei due secoli avevano incontrato ancora due nemici potentissimi: lo Stato e la Chiesa.
Solo più tardi, il ‘900, l’affermazione e la diffusione del modo di produzione capitalistico, l’organizzazione anche burocratica di weberiana memoria delle nuove società industriali, conferiranno ai partiti una nuova funzione e un nuovo status di rappresentazione politica delle cleavages (fratture sociali) dell’epoca.
Occorre però ricordare che, anche quando i partiti finalmente si affermeranno, raggiungeranno la loro massima espressione non tanto nei regimi democratici, quanto piuttosto nei totalitarismi che attraverseranno l’Europa a partire dai primi anni ‘20 del secolo scorso. Facendosi non tanto o non solo «Stato nello Stato» come temeva Hobbes, bensì incarnandolo direttamente. È in questo contesto che va letta l’avversione (di nuovo) ai partiti anche da parte di figure profondamente democratiche come Simone Weil, Andrè Breton, Albert Camus e altri. La Weil si spingerà fino a scrivere un Manifesto per la soppressione dei partiti politici (19) e, in Italia, Adriano Olivetti scriverà sulla Democrazia senza partiti (20).
Dunque, anche nella fase «gloriosa» dei partiti nelle democrazie post-fasciste europee, i detrattori non tarderanno a farsi sentire.
Il partito ora viene visto come un’organizzazione in cui prevalgono la disciplina, l’ordine di scuderia e l’interesse a discapito delle idee, i valori comuni e – argomento ricorrente – il bene generale. La non appartenenza a un partito viene invece vista come la forma più alta di garanzia contro i mali moderni.
L’Unione sovietica è da poco uscita dallo stalinismo quando Weil scrive che il totalitarismo è il peccato originale dei partiti. Anche se parla sostanzialmente dei Paesi europei, l’influenza culturale e politica di quell’esperienza si percepisce chiaramente. Mentre Adriano Olivetti, nel 1949, dal canto suo, sottolineava che «Il mandato politico nella sua vera essenza è soltanto un atto di fiducia degli uomini in un uomo» e citava un giovane Piero Gobetti per spiegare come (già allora, siamo nel primo dopoguerra) «gli schemi in cui si svolge la vita politica nostra (i partiti) non consen- tono agli uomini sufficiente vitalità […] oggi i partiti sono limitati a formule vaste e imprecise, da cui nulla si può logicamente e chiaramente dedurre» (21).
Dagli anni della politica che propone formule «vaste» – ancorché imprecise – con delle Weltanschauungen omnicomprensive e riconoscibili, alla politica de-ideologizzata, per single issues dei nostri giorni, passerà oltre mezzo secolo. Sufficiente a far sì che ai partiti oggi si rimproveri proprio l’assenza di ciò di cui li si accusava un tempo: l’adesione a una Weltanshauung, ovvero la capacità di offrire una visione d’insieme, una tensione ideale che prescinda dalla gestione spicciola e pragmatica del quotidiano. Quella stessa visione ideale che, nell’immediato dopoguerra, era sembrata tanto astratta e deprecabile al Gobetti.
In realtà, gli anni in cui scrissero Gobetti, Olivetti e anche Simone Weil, sono oggi considerati, almeno nell’Europa occidentale, gli anni «gloriosi» dei partiti di massa, la cui vasta partecipazione – ideale e identitaria – ha contribuito largamente alla nascita e alla vita delle democrazie nei Paesi usciti dai totalitarismi. Anni in cui la fiducia nelle istituzioni non veniva seriamente messa in discussione, in cui la politica manteneva una sua aura di rispettabilità. In cui soprattutto, la politica e i partiti con essa, si occupavano della cura della polis. Se ne occupavano perché quello è il loro mandato in una democrazia. Anche se i partiti, le loro ideologie e le loro culture politiche di fatto si differenziavano sostanzialmente per la classe sociale di riferimento e la difesa degli interessi legittimi di quella classe che si candidavano a rappresentare, la premessa comune al loro lavoro era, appunto, la cura della polis. Ed era un mandato che, nel bene o nel male, riuscivano a svolgere e che i cittadini riconoscevano loro. Non perché i politici di allora fos- sero meno corrotti di oggi – dissento fortemente da questa diffusa interpretazione del fenomeno – ma perché, da un lato, vi erano le condizioni per una maggiore incisività dell’azione politica che doveva farsi necessariamente economica e sociale. Condizioni che oggi si sono assottigliate per la dimensione sempre più sovranazionale dell’economia, della produzione e, anche, in certa misura, della capacità decisionale da parte di una politica di stampo nazionale. E, dall’altro, perché era più chiara la missione, il progetto, l’obiettivo. Le ideologie naturalmente sostenevano e orientavano l’azione; e un’azione mirata a un obiettivo risulta sempre più efficace di una cui manchi la determinazione e la chiarezza del risultato da conseguire.
Oggi si parla tanto della fine delle ideologie. Ecco, non condivido nemmeno questa lettura che ritengo una vulgata senza fondamento. Non si dà nella storia un periodo di vuoto ideologico, di assenza di valori. Non esiste società al mondo che sia sopravvissuta senza un orientamento all’azione. Orientamento che proviene dalla cultura, dai valori e, in ultima analisi, dalle ideologie. Quand’è che si parla, ciclicamente, di fine dei valori, di fine delle ideologie? Quando le società sono in transizione e, soprattutto, quando un’ideologia vince sull’altra in maniera talmente chiara, soverchiante ed egemone, da non essere più nemmeno riconosciuta come tale, come ideologia. Quando viene scambiata come l’unica realtà possibile. Ed è questo il caso attuale.
C’è qualcuno oggi che potrebbe affermare che le grandi ideologie contrapposte del ‘900, il comunismo e il capitalismo, siano entrambe scomparse? No, ovviamente. È solo che il capitalismo è diventato talmente egemone da far sì che non si avverta più così chiaramente come una scelta di parte, ma permea le nostre vite camuffandone i risvolti, i gusti, gli stili di vita, le aspirazioni. Che diamo per scontati, senza avvertirli più come precise scelte di campo.
Le democrazie liberali, le società capitalistiche occidentali semmai, oggi, si trovano sfidate dal fondamentalismo islamico che si è fatto ideologia e progetto politico insieme. Ma al loro interno il capitalismo ha vinto indiscutibilmente. I partiti, anche di diverso orientamento, non ne mettono in discussione la struttura di fondo e presentano ridotti margini di differenziazione e di azione rispetto al passato.
Oggi l’opinione pubblica si spinge a definire i partiti come sostanzialmente corrotti e senza più ideali. Personalmente, nei miei lavori, do un’interpretazione del fenomeno del tutto diversa. Non ritengo affatto che dietro a questo rinnovato antipartitismo si celi un improvviso impeto moralistico da parte di una popolazione che nei decenni ha tranquillamente sopportato una corruzione ben più feroce dell’attuale, un debito pubblico che certo non è il frutto del privilegio dell’auto blu di un manipolo di appartenenti alla «casta», come si usa dire oggi. No, gli italiani hanno sopportato, anche allegramente, ben altro. Pratiche disinvolte nella gestione tanto della cosa pubblica quanto di quella privata, dall’evasione fiscale alle cosiddette «cene eleganti». Si è piuttosto assistito a uno sdoganamento dei peccati sino ad allora inconfessabili del leader carismatico al potere.
Tanta indignazione e insofferenza verso i partiti tradizionali ha prodotto oltre che un ampio dibattito, anche l’emergere di nuovi populismi che, come è loro caratteristica, accompagnano il malcontento verso una politica inadeguata al compito (è capitato con Haider in Austria, con Grillo in Italia, con Trump negli Stati Uniti), senza tuttavia affrontare le ragioni strutturali della crisi politica né di quella economica che ne è alla base.
Come dicevo, nei miei lavori ipotizzo che questa intolleranza nei confronti della politica risieda non tanto o non già nell’insofferenza verso pratiche che a ben vedere sono state tollerate per anni, anche in versioni peggiori delle attuali, quanto piuttosto nella percezione inconsapevole (che non riesce ad arrivare alla coscienza) di una politica nazionale, nata nel secolo scorso e che si sta rivelando drammaticamente inadatta a rispondere alle sfide della società contemporanea. Di cui però, specie in tempi di crisi economica, si avvertono chiaramente gli effetti sulla qualità della vita individuale. Per i quali si torna, confusamente, a incolpare i partiti.
Tutto sommato, date queste considerazioni, la fortuna dei partiti si riduce a nemmeno mezzo secolo di storia.
La crisi delle istituzioni nell’era dei poteri global
Per quanto, come abbiamo visto, i partiti abbiano subìto sin dagli albori della storia politica democratica (e non) un’avversione pressoché imperitura nei secoli, bisogna anche aggiungere che oggi il livello di disaffezione politica tocca sì principalmente i partiti, ma si estende a tutte le istituzioni più in generale. Per capire meglio l’entità della crisi, basti pensare che dal 2012 a oggi solo le forze dell’ordine, il Presidente della Repubblica e la scuola ottengono un tasso di fiducia superiore al 50%, mentre lo Stato totalizza uno scarsissimo 22.4% e, come citato all’inizio, il parlamento e i partiti si posizionano al penultimo e ultimo posto con percentuali irrisorie (rispettivamente 6.9% e 5.6%) (22). Si tratta dunque di una crisi più vasta, che investe uomini e istituzioni insieme. Organizzazioni politiche, sindacali, religiose come finanziarie. È il segno dello smarrimento esistenziale, frutto di un’epoca di transizione complessa, difficile da comprendere, gestire e non subire. A livello individuale come collettivo. Ma è, soprattutto, una crisi di obsolescenza di organismi, istituzioni e meccanismi tipici di un’era che sta via via scomparendo. Il nuovo stenta ad affermarsi e in mezzo al guado restano le spoglie di quelle istituzioni che si rivelano ormai inadeguate a far fronte al mutamento, alle sfide che esso comporta; alle condizioni nuove della vita sociale, individuale, economica e politica delle vecchie democrazie occidentali. Sfide che sono sia esterne alla politica sia interne.
Non solo la globalizzazione ha reso le nostre vite più liquide, lasciando il cittadino globalizzato più solo ad affrontare scelte e decisioni, spesso molto complesse, che una volta ricadevano sullo Stato e che forse lui non si sente in grado di affrontare, come ha efficacemente analizzato Bauman, rendendole dunque più incerte, meno sicure e controllabili; ma ha soprattutto sottratto ai governi degli stati-nazione, per non parlare dei partiti, quel potere di regolamentazione e mediazione tra le esigenze della popolazione, il mercato e le istituzioni che ne hanno rappresentato la caratteristica e la ragion d’essere fino ad oggi. Perché ha minore potere reale di un tempo.
È forse paradossale che le critiche più aspre di eccesso e abuso di potere, di costi eccessivi della politica le vengano rivolte proprio mentre questa si rivela più debole. Come se nell’atteggiamento collettivo ci fosse un’inconsapevole accettazione degli aspetti peggiori del potere purché questo assolva al proprio compito, si riveli in grado di decidere, di occuparsi della vita dei cittadini. Pazienza se aumenta il debito pubblico, pazienza se ci dobbiamo accollare i costi delle cortigiane, della guerra per correnti, dei signori delle tessere. Ma dateci almeno un lavoro, una prospettiva sul futuro in qualche modo rassicurante e non inquietante. Questo sembrano dirci le vicende che hanno attraversato la storia del rapporto tra partiti e cittadini nel nostro Paese. E il problema è che oggi nemmeno i partiti che ottengono larghe maggioranze si sono rivelati in grado di incidere in modo decisivo su questi processi. Al di là della buona o della cattiva fede, al di là della volontà di affrontare i problemi reali del Paese, al di là del modo con il quale pensino di affrontarli e persino al di là delle competenze profuse nel farlo, la realtà è che buona parte delle dinamiche che influenzano i risultati di queste politiche si svolgono altrove.
L’Unione europea ha comportato una cessione di sovranità da parte dei singoli stati-nazione senza tuttavia arrivare a costruire un reale governo europeo, una difesa europea, una politica europea del lavoro e dell’economia, con reale potere decisionale. È un processo rimasto a metà, che ha sottratto potere ai governi nazionali senza restituire molto, in termini di decisionalità e soluzioni dei problemi, ai cittadini che vi abitano. L’Unione europea resta, per gli europei, un’entità sostanzialmente astratta e distante. A ciò si aggiunge, con effetti persino più profondi, un duplice aspetto della globalizzazione: ritmi accelerati dei processi (economici, sociali, culturali come politici), da un lato, e le trasformazioni dell’economia, dall’altro.
Per quanto riguarda le trasformazioni della sfera economica, è evidente che, se si passa da un sistema basato sulla produzione di merci (peraltro a base nazionale) a un sistema sempre più basato sulla finanza (volatile e transnazionale), ovvero al fìnanzcapitalismo, come lo ha definito efficacemente Luciano Gallino (23), i singoli governi nazionali avranno meno possibilità di un tempo di incidere sulle politiche del lavoro, sui contratti, sulle tutele e sulle garanzie dei lavoratori. Perché peraltro, si produrrà anche sempre meno in Occidente e si delocalizzerà sempre più in luoghi dove la forza lavoro ha costi irrisori rispetto agli standard occidentali, in cui, come ha dimostrato Saskia Sassen (24), le multinazionali che decidono dì aprire un impianto negoziano da una posizione di forza con i governi locali le loro condizioni in materia di politiche del lavoro, defìscalizzazione, agevolazioni, persino sicurezza, creando, questa volta sì – altro che i partiti – una sorta di Stato nello Stato.
Dunque non è nemmeno del tutto esatto affermare che il modo di produzione sia cambiato così radicalmente, passando dalla produzione di merci alla produzione di servizi e alla finanza. È che la produzione di merci si è spostata altrove. In Paesi in cui, peraltro, le conquiste democratiche – di là da venire – non sono ancora, per così dire, d’intralcio agli interessi degli investitori.
Visto da una prospettiva occidentale, non solo si produce di meno e aumenta il peso della finanza rispetto all’industria, ma si delocalizza anche. Ovvero, come dicevamo pocanzi, quando si produce, si produce altrove. Ora, a ben vedere, nemmeno il partito meglio intenzionato sarebbe in grado di invertire questa tendenza. In questo percorso di trasformazione economica e sociale, come già accaduto in passato, anche i partiti hanno iniziato, lentamente, ad adeguarsi per adattarsi ai tempi. L’inefficacia e inadeguatezza di cui li si incolpa in fondo sta tutta qui: nella sfasatura tra i loro tempi di reazione e quelli – rapidissimi – delle trasformazioni economiche e sociali in atto. Tra la capacità decisionale e operativa di una multinazionale e quelli, limitati, di un governo nazionale.
Allora, se la globalizzazione ha annullato i confini del mercato, della produzione, del lavoro, il compito della politica, la sua area di azione, quella appunto della cura della res pubblica fatta di diritti, di tutela della persona, di sicurezza, di lavoro, di redistribuzione economica, non può restare confinata dentro il recinto dello stato-nazione. Il primato della politica, l’arte nobile della politica, quella della mediazione tra le parti, tra gli interessi legittimi delle parti, tra società, impresa e Stato, ha bisogno oggi di un orizzonte adeguato alla realtà sovranazionale delle dinamiche economiche, produttive e sociali.
Le sfide della globalizzazione hanno comportato un riassetto dei rapporti di forza tra politica, Stato e mercato, di cui i cittadini subiscono le conseguenze in termini di capacità occupazionale, accesso ai servizi, qualità della vita e per le quali incolpano la politica. Dimostrando come, paradossalmente, mai come in questa fase storica si senta invece il bisogno di un ritorno al primato della politica, una politica sempre più sovranazionale forse, ma in grado di decidere.
FLAMINIA SACCÀ – Docente di Sociologia dei fenomeni politici e presidente del Corso di laurea SPRI – Università della Tuscia.
Note
1 L’articolo si basa su alcuni saggi già pubblicati dall’autrice, in particolare: F. SAccà (2014) «Il concetto di cultura politica. Attualità, limiti e una proposta di ridefinizione», in F. Saccà (a cura di), Culture politiche, democrazia e rappresentanza, FrancoAngeli, Milano, 2014; e F. Saccà, «Culture politiche e partiti in mutamento», in F. Saccà (a cura di), Culture politiche e mutamento nelle società complesse, FrancoAngeli, Milano, 2015.
2 Cfr. G. A. Almond, S. Verba, The Civic Culture. Political attitudes and democracy in five nations, Boston, Little, Brown and Company, 1965 (1963, Princeton University Press), e anche G. Almond, Cultura civica e sviluppo politico, Il Mulino, Bologna, 2005.
3 Si veda ad esempio l’impostazione della Scuola di Francoforte e, su tutti, il testo di M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi Paperbacks, Torino, 1969 (titolo originale: Eclypse of Reason, Oxford University Press, 1947, New York).
4 K.J. Gergen, M.M. Gergen, Psicologia Sociale, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 20 (titolo originale: Social psychology, New York, Springer e Verlag, 1986).
5 G. Almond, Cultura civica e sviluppo politico, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 254.
6 G.A. Almond, G.B. Powell, Politica comparata. Sistema, processi, politiche, Il Mulino, Bologna, 1988, (Comparative politics. A Developmental Approach, Little, Brown, Boston, 1966).
7 G. A. Almond, S. Verba, The Civic Culture. Political attitudes and democracy in five nations. Boston, Little, Brown and Company, 1965 (1963, Princeton University Press), e G. Almond, Cultura civica e sviluppo politico, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 256.
8 Ivi
9 C. Pateman, «The Civic Culture: A Philosophic Critique», in G. A. Almond, S. Verba, (eds.) The Civic Culture Revisited, Sage Publications, London, 1980.
10 E.B. Tylor, Primitive Culture: Researches Into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Art, and Custom, vol 1, J. Murray, 1871.
11 G. Almond, op. cit.
12 G. A. Almond, S. Verba, op. cit.
13 Cfr., a tal proposito, anche: P. Ignazi, Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Laterza, Bari, 2012, pp. 4-6; e R. Katz, P. Mair, «The Ascendancy of the Party in Public Office: Party Organizational Change in Twentieth-Century Democracies», in R. Gunther, J.R. Montero, J. J. Linz (a cura di), Political Parties: Old Concepts and New Challenges, Oxford University Press, Oxford, 2002, pp. 113-135.
14 Per una breve ricostruzione delle altalenanti vicende dei partiti politici, cfr. P. Ignazi, op. cit. soprattutto Introduzione e Primo capitolo.
15 A. De Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1999, cap. II, (titolo originale: De la Démocratie en Amérique, 1835-1840).
16 Cfr. M. Ostrogorsky, La Dèmocratie et l’organisation des partis politiques, Calmann- Lévy, Paris, 1903, passim, 2 volumi, in particolare vol. 1, p. 568.
17 P. Ignazi, op. cit., p. 13.
18 Cfr. ad es. Hitler, il fascismo e la lettura che ne diedero Michels ed Emilio Gentile.
19 S. Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, Roma, 2012, con una prefazione di André Breton (edizione originale: Note sur le suppression général des parties poliiques, Edition Gallimard, Paris, 1957).
20 A. Olivetti, Democrazia senza partiti, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2013 (prima edizione 1949).
21 Ivi, p.25
22 Demos, Rapporto annuale gli italiani e lo Stato, dicembre 2012, http://www.demos.it/a00796.php
23 L. Gallino, Finanzcapitalismo. La società del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011.
24 S. Sassen, Territory, Authority, Rights: From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, 2008 (1st ed. 2006); S. Sassen, A Sociology of Globalization (Contemporary Society Series), W.W. Norton, 2006; S. Sassen, (2010), The re-assembling of territory, authority and right, Keynote speech, XVII IsA World Congress, Goteburgh, Sweden, July, http://www.isa-sociology.org/sociotube/