Diritti umani: un’agenda politica in uso nel mondo intero

Al termine del XVIII secolo, il numero di dichiarazioni formali che affermavano i diritti naturali dell’uomo aumentò sensibilmente in svariate nazioni. Ciascuna delle raccomandazioni esaltava il concetto di universalità di tali diritti e auspicava così il progresso dell’intera umanità. A partire dal 1770, i testi parvero promuovere scontri rivoluzionari che scossero diversi Paesi continentali dell’Europa e dell’America. Quest’ultima, liberatasi del giogo coloniale a seguito di un conflitto che in Europa fu osservato e commentato con estrema attenzione, fu inizialmente attraversata dal disordine politico. Incoraggiati da questo esempio, altri Stati europei vollero in seguito portare avanti una propria rivoluzione: Irlanda, Olanda, Svizzera, poi Francia, consecutivamente o in parallelo, misero in discussione l’ordine politico tradizionale che le aveva governate fino a quel momento. Alcuni di quei movimenti fallirono mentre altri ebbero successo e rappresentarono, a loro volta, un modello e una fonte di speranza per tutti quei popoli che volevano maggiore accesso alla libertà politica e all’uguaglianza sociale. Le diverse dichiarazioni formali dei diritti prodotte, pur se non seguite da riforme politiche nei rispettivi Paesi, ebbero un impatto globale. Tradotte e diffuse ampiamente in tutto il mondo occidentale, la concisione e il riassunto di quelle idee promosse dalle dichiarazioni dimostravano di aver efficacemente inoltrato il messaggio rivoluzionario fino agli angoli più remoti del continente europeo.

L’efficacia politica di queste dichiarazioni dei diritti sollevò interrogativi su una forma completamente nuova di politica e sul suo significato ideologico. La proclamazione dei diritti umani, superando i confini, funse da piattaforma ideologica per la maggior parte dei movimenti di emancipazione che nacquero in Occidente nel corso del XIX secolo. Tuttavia, tali dichiarazioni restarono valide per lungo tempo solo su un piano teorico e spesso ci sono voluti decenni prima che fossero tradotte in pratica. Un secolo dopo, per effetto di una contaminazione ritardata, risulteranno di nuovo piattaforma politica per i diversi movimenti di liberazione nazionale in varie nazioni extraeuropee.

I Paesi colonizzati hanno effettivamente tratto vantaggio dall’universalità dei principi proclamati per affrancarsi dalla dominazione dei loro padroni europei, che di quei principi erano stati gli inconsapevoli inventori. In seguito alle atrocità perpetrate durante il secondo conflitto mondiale, il concetto di diritti umani fu rivitalizzato su scala globale. Ispirato senza alcun dubbio dai primi testi comparsi a partire dalla fine del ‘700, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 innescò una politica proattiva che favorì la promozione di tali diritti su scala universale. L’estensione delle conquiste dal campo politico a quello civile, fino alle sfide economiche e sociali vissute dalle varie popolazioni mondiali, ha consentito di espandere notevolmente la definizione di diritti umani e provocato lo sviluppo di una legislazione specifica in ogni nazione, implementando finalmente quei principi solennemente dichiarati.

Ciò nonostante, a partire dalla seconda metà del ‘900, i diritti umani hanno incontrato innumerevoli ostacoli mano a mano che si diffondevano in tutto il globo. Il processo di civilizzazione innescatosi al di fuori delle democrazie europee e occidentali, culla dei diritti umani, trasformò la loro diffusione in una sfida crescente, dal momento che molti altri Paesi li consideravano simbolo di una morsa culturale e spirituale e del dominio politico imposto dagli ex colonizzatori.

Il riconoscimento dei diritti umani da parte di ogni singola nazione può essere acquisito solo mediante un’efficace globalizzazione dei loro principi, in particolare attraverso la trasformazione da teoria puramente legale ad adattamento morbido e progressivo, in un mondo che è decisamente pluralista e aperto.

Tre testi simbolici: 1776, 1789, 1948.

Il progresso dei diritti umani

In Europa e Nord America, alla fine del XVIII secolo, venne alla luce una vera e propria ondata di testi che trattavano nel dettaglio la questione dei diritti umani. Questo genere letterario, che si sforzava di essere costituzionale e legale, ebbe origine nelle varie colonie americane durante la loro marcia verso l’indipendenza e prosperò nel mondo occidentale negli anni immediatamente successivi. Oltre ai testi provenienti da ogni singola colonia, il più conosciuto dei quali è la Carta dei diritti della Virginia, risalente al 1776, troviamo la versione collegiale della Dichiarazione   di indipendenza americana nello stesso anno, seguita dall’adozione della Carta dei diritti (emendamenti 1-10) della Costituzione americana, nel 1791.

Nel frattempo, l’Assemblea costituente francese fu libera di redigere la propria proclamazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini nel periodo particolarmente turbolento dell’estate 1789. La Rivoluzione francese creò le condizioni per due opportunità di ri-edizione della Carta, nel 1793 e ancora nel 1795. Altre nazioni seguirono l’esempio: i belgi con la loro Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini della popolazione Franchimontois, nel settembre del medesimo anno; la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo sociale, a Ginevra, sempre nel 1793; e varie dichiarazioni di diritti e costituzioni delle repubbliche italiana, batava ed elvetica, che stavano per costituirsi tali dopo le guerre napoleoniche (1797-1798). Il processo proseguì nel secolo successivo in Francia con il preambolo della Costituzione francese, edita nel 1848.

Seguì un lungo periodo di inattività, nel corso del quale i testi dichiaratori non furono considerati così vitali da quelle nazioni che andavano formandosi. L’ideologia nazionalista aveva la precedenza rispetto alla promozione universale dei diritti umani. Così fu fino a quando le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale reputarono necessario definire le politiche su scala globale, sull’onda della tragedia dell’Olocausto, che rappresentò la fase culminante del nazionalismo e delle sue conseguenze omicide. Queste politiche ebbero inizio nel 1948 al Trocadero di Parigi, con la proclamazione formale della Dichiarazione universale dei diritti umani, la quale divenne la nuova carta delle appena nate Nazioni Unite.

Diritti universali

Contrariamente alla Carta dei diritti inglese del 1689, che disponeva come gli antichi diritti e libertà fossero esclusivamente appannaggio degli uomini inglesi, i testi del 1776, 1789 e 1848 affermavano tutti il principio dell’uguaglianza, dell’universalità e dei diritti naturali degli uomini in quanto esseri umani, indipendentemente dalla loro affiliazione nazionale.

La Dichiarazione di indipendenza americana, del 4 luglio 1776, afferma nel secondo paragrafo: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789) afferma nel suo primo articolo: «Gli uomini nascono e restano liberi e con pari diritti». Mentre la Dichiarazione universale dei diritti umani (10 dicembre 1948) proclama: «Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo… proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni».

La questione dell’origine

Il ruolo pionieristico degli americani

Il ruolo rilevante degli anglosassoni nella creazione e nell’implementazione della teoria relativa ai diritti umani nei secoli XVII e XVIII viene oggi riconosciuta dall’intera comunità degli storici. Ispirati dalle riflessioni filosofiche dei pensatori dell’epoca e attingendo dalle conseguenze della loro esperienza nella traversata atlantica, in fuga dalle persecuzioni religiose subite nella loro terra natale, gli americani incarnano sia il ruolo di pionieri sia quello di esempio ammirato e copiato dal resto del mondo. In sostanza, furono i primi a dichiarare e attuare soluzioni politiche radicalmente diverse rispetto a quelle adottate dai vecchi regimi, il cui scopo era ribadire il loro isolamento e la loro grande diversità religiosa e sociale. Tuttavia, il precedente fissato dall’America non esime i politologi dall’indagare sulle idee alle origini dei nuovi principi politici implementati all’epoca. Essendo stati precedentemente importati dall’Europa, è solo grazie a un intenso scambio e a un’influenza intellettuale, modulata dal vecchio ai nuovi mondi, che è stato possibile specificare, codificare e alla fine mettere in pratica i diritti umani dapprima nella politica americana e dopo in quella delle nazioni europee.

Di origine religiosa?

Dalla fine del XVIII secolo, i pensatori della politica si sono regolarmente scontrati in merito all’identificazione delle radici intellettuali dei diritti umani. Alcuni hanno appoggiato l’idea di un’origine specificatamente religiosa, sulla scorta delle rivoluzioni ecclesiastiche e teologiche innescate dai riformatori del XVI secolo. Altri hanno propeso per un ruolo preminente della secolarizzazione e del pensiero individuale portato avanti dai filosofi a partire dalla rivoluzione cartesiana fino all’epoca dell’Illuminismo europeo. Queste varie interpretazioni erano certamente note esplicative, ma in qualche modo anche motivazioni molto ideologiche che hanno macchiato l’autoproclamata universalità. Quindi, gli obiettivi ideologici, impliciti di quei Paesi che hanno promosso i diritti umani mediante un palese proselitismo, sono successivamente diventati estremamente draconiani davanti a ogni ostacolo che intralciasse la divulgazione di quei principi al resto del mondo.

La Riforma protestante, fonte dei diritti individuali

I pensatori liberali o reazionari che nel XIX secolo rappresentavano l’opinione corrente volevano individuare le radici religiose alla base delle rivoluzioni politiche in corso all’epoca o di quelle già verificatesi; produssero le dichiarazioni dei diritti dell’uomo e un nuovo impianto giuridico che venne adottato dal mondo moderno. In Francia, il fatto di identificare l’azione della Riforma protestante con quella della Rivoluzione, in una sorta di abbinamento ideologico, divenne prassi comune all’interno della storiografia del XIX secolo.

Ognuno era alla ricerca della chiave religiosa e teologica per scardinare le problematiche poste dall’arrivo del modernismo, e queste furono le successive conseguenze: democrazia, pluralismo e secolarizzazione progressiva della società. L’equazione tra Riforma e modernismo poteva essere interpretata in due modi opposti, a seconda del grado di apprezzamento dei pensatori rispetto all’evoluzione della società nella loro epoca. Quelli che rivendicavano l’eredità del 1789 consideravano generalmente la Riforma il punto di partenza della lunga e tortuosa marcia verso l’avvento della moderna libertà. Valeva per gli intellettuali liberali, spesso protestanti o filo-protestanti (da Benjamin Constant a Edgar Quintet, Francois Guizot, Jules Michelet e Alexis de Tocqueville), per gli storici e i teologi protestanti francesi e per i loro alleati politici, come anche per i repubblicani dal XIX fino all’inizio del XX secolo.

Al contrario, quelli che si opponevano all’introduzione e alla semplificazione delle idee dell’Illuminismo nel modello politico moderno, vedevano la Riforma come primo atto rivoluzionario, innescante una reazione a catena che avrebbe condotto il Paese alla perdita di tutto ciò che fino ad allora ne aveva rappresentato la spina dorsale e ne aveva garantito l’unità e l’identità. Fu il caso di intellettuali reazionari e anti-protestanti, da Joseph de Maitre a Charles Maurras.

Tuttavia, l’equazione Riforma/Rivoluzione fu di frequente violata da alcuni dei maggiori storici repubblicani e patrioti (giacobini), che all’epoca spostarono l’enfasi sulle origini marcatamente francesi e filosofiche degli ideali e dei principi rivoluzionari. Il fatto che un’inchiesta tedesca (Georg Jellinek e il suo contemporaneo Max Weberat) abbia rivalutato il contributo da parte del protestantesimo (nella sua forma calviniana o semi-calviniana), fu ben accolto dai protestanti francesi ma non fu di buon auspicio per i francesi, secondo i quali questo evento (la Rivoluzione) era stato un atto eroico il cui merito esclusivo era da attribuire alla nazione in quanto tale.

Di origine filosofica o secolare?

Un’altra scuola di pensiero ha sostanzialmente respinto in maniera radicale qualsiasi forma di influenza religiosa per la genesi della teoria dei diritti naturali. Secondo questi intellettuali, fu anzi proprio il processo di separazione dallo stretto pensiero religioso a consentire lo sviluppo di un’ideologia secolare e indipendente dei diritti umani, i quali poi divennero privilegio per tutta l’umanità, a prescindere dalla religione o dai costumi. Tali autori sostengono che nel XVIII secolo si sia verificata una rivoluzione culturale e mentale riguardante l’apprendimento dell’individuo. Questo nuovo stato della mente fu promosso nella società intera attraverso diversi canali: i romanzi a difesa della sorte dell’individuo (Jean-Jacques Rousseau e Richardson), la battaglia dei filosofi per l’abolizione della tortura (Voltaire), la libertà religiosa e l’avvento delle libertà individuali (Condorcet). Questo clima culturale avrebbe permesso l’evoluzione di nuovi concetti politici e sociali come i diritti naturali dell’uomo nella società. L’Illuminismo europeo sarebbe dunque risultato strumentale per il progresso dell’autonomia individuale. Persone come Hugo Grotius e John Locke, passando da Jean-Jacques Burlamaqui fino a Rousseau, le differenti teorie politiche del Contratto sociale e i nuovi trattati sull’istruzione collocarono in prima linea i sentimenti dell’individuo, e contribuirono alla diffusa consapevolezza della sacralità dell’essere umano.

Quali che siano le origini dei diritti umani, cioè di natura religiosa oppure filosofica, i ricercatori concordano su un fatto: essi sono sostanzialmente nati nell’Occidente e si sono affermati per via di una graduale secolarizzazione delle società cristiane.

Implementazione di queste dichiarazioni: un processo in evoluzione

Un’implementazione a lungo rimandata

Malgrado la comune aspirazione all’universalità, le dichiarazioni americana e francese, rispettivamente del 1776 e del 1789, non generarono un’implementazione generale di quei diritti per ogni singolo individuo all’interno della propria popolazione. Certo, permisero di frenare i limiti alla libertà individuale, per cui i primi atti civili seguiti alla Rivoluzione francese misero significativamente all’angolo i confini dell’autonomia personale. L’abolizione delle «lettres de cachet» e della discriminazione religiosa, l’introduzione del matrimonio civile, il diritto al divorzio, il notevole abbassamento dell’età del consenso, la fine dei diritti e dei privilegi automatici riconosciuti al primogenito, l’uguaglianza tra maschio e femmina nelle eredità e la fine del paternalismo assoluto furono tutte iniziative in grado di rimuovere consuetudini e pratiche che avevano notevolmente limitato la libertà dell’individuo. Tuttavia, i nuovi diritti acquisiti non contemplavano ancora alcuna protezione per i bambini, i malati di mente, gli schiavi, la libertà per i neri, per certe minoranze religiose e, occasionalmente ma significativamente, per le donne.

Le dichiarazioni dei diritti, risalenti al XVIII secolo, contenevano sostanzialmente i cosiddetti diritti civili e politici, che inizialmente trovarono applicazione solo per gli esseri umani di genere maschile, politicamente ed economicamente liberi. Tali diritti, dopo essere stati estesi a ogni singola persona, sono stati riconosciuti come prima generazione dei diritti umani. Vi erano certamente riferimenti a diritti economici e sociali all’interno delle dichiarazioni francesi di fine XVIII e di prima parte del XIX secolo (il diritto al lavoro del 1793 e quello al welfare del 1848), ma di rado vennero implementati. In realtà, quelli economici rientrarono nell’ambito di applicazione dei diritti umani solamente in simultanea al miglioramento delle leggi nazionali relative alla protezione economica e sociale dei più deboli.

Il risultato della mobilitazione interna

Fu essenzialmente dopo il termine della Seconda guerra mondiale che questi nuovi diritti (al lavoro, allo sciopero, all’istruzione e alla sicurezza sociale) furono integrati massicciamente nei differenti impianti giuridici. Per questo sono chiamati diritti di seconda generazione. Da allora sono state definite nuove forme di diritti, i quali sono fonte di continuo dibattito sia a livello di singoli Stati sia a livello internazionale e che tuttavia ancora non sono stati tutti recepiti. Per esempio, è possibile trovare tutte le modalità di attestazione per il riconoscimento di tali diritti: ambientale, allo sviluppo, all’autodeterminazione, il diritto alla diversità, per le minoranze, alla pace, ecc. Dai tempi della Carta delle Nazioni Unite (1945) e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), i diritti umani sono stati estesi e codificati, e sono sorti meccanismi internazionali per vegliare sulla loro applicazione.

Nel 1966, l’ONU adottò un patto internazionale relativo ai diritti politici e civili, e un altro che riguardava invece quelli economici, sociali e culturali. L’anno seguente, una commissione del medesimo organismo creò un meccanismo di indagine da utilizzare all’interno dei singoli Stati membri, per individuare le violazioni dei diritti umani.

Il primo congresso internazionale di istituzioni nazionali per la promozione e la protezione dei diritti umani è stato organizzato nel 1991, a Parigi, sotto l’egida dell’ONU, dalla Commissione consultiva nazionale sui diritti umani (CNCDH). Due anni dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito un programma d’azione denominato «Vienna». Tale programma ha attribuito un ruolo significativo allo sviluppo democratico, economico e sociale, elementi considerati tutti integrali   ai diritti umani. La dichiarazione prodotta ha suscitato la formazione di un’alta Commissione dell’ONU sui diritti umani e ha stabilito che tutti gli Stati firmatari creassero istituzioni proprie, volte a garantire il rispetto di tali diritti a livello nazionale. Nel 2006, questa Commissione è stata sostituita dal Consiglio per i diritti umani.

A seguito della firma di trattati internazionali riguardanti i diritti umani, sono stati inoltre creati degli organismi a livello trans-nazionale. Tali organismi sono generalmente basati sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Per esempio, la Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, più recentemente denominata Convenzione europea per i diritti umani, è un trattato sottoscritto dagli Stati membri del Consiglio d’Europa (1950-53). Lo scopo di questo trattato è salvaguardare i diritti umani e le libertà fondamentali attraverso la mediazione dei regolamenti presenti nei normali impianti giudiziari. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa venne così istituito contestualmente alla Corte europea sui diritti umani. Quest’ultima, fondata a Strasburgo nel 1959, ha la responsabilità di garantire l’aderenza alla Convenzione da parte degli Stati firmatari. La Convenzione si è evoluta con il passare del tempo e diversi protocolli hanno consentito una sua rimodulazione.

Un’universalità spesso contestata

Oltre ai ritardi legati alla loro effettiva implementazione nelle società dell’intero globo, la definizione in sé di diritti umani ha provocato diffidenza e controversie che ancora oggi non sono state risolte, per cui sono stati prodotti molti testi aggiuntivi a livello nazionale. Alcuni Paesi, o gruppi di nazioni, hanno talvolta avvertito l’esigenza di chiarire o comunque integrare la Dichiarazione del 1948. Ma esistono sfide più profonde che hanno addirittura messo in discussione la rilevanza del termine «universale» nel contesto dei diritti umani. Queste accuse sono diventate manifeste nella fase di declino del mondo occidentale e del contemporaneo emergere del resto del globo. La resistenza ai diritti umani è stato il tratto caratteristico di un’emancipazione volontaria contro quelle che sono state percepite le direttive della cultura occidentale.

Alcune nazioni, agendo sulla base di un modello politico radicalmente diverso rispetto a quello dei Paesi occidentali, hanno cercato di promuovere determinati tipi di diritti a danno di altri. Nel periodo della cosiddetta Guerra fredda, è sorta un’aspra polemica in merito alla definizione dello scopo da attribuire a questi fondamentali diritti secondo l’interpretazione dell’ONU. Alla definizione occidentale, che sottolinea i diritti umani sulla base delle libertà civiche e politiche, si è contrapposta per lungo tempo la visione dei Paesi socialisti, per i quali l’enfasi andava attribuita alla necessità di soddisfare i diritti economici, sociali e culturali. In Paesi come la Cina e la Corea del Nord, il tema dei diritti umani è tuttora motivo di contesa, perché teoricamente subordinati allo sviluppo dei diritti economici rispetto alla salvaguardia di quelli individuali e politici, sebbene venga loro regolarmente richiesto di attuarli. Nelle nazioni sopra citate, i diritti umani sono spesso stati presentati come moderna invenzione occidentale.

Alcuni Stati denunciano come l’implementazione dei diritti umani porti benefici solo ai cosiddetti Paesi occidentali e non al resto del mondo. Altri addirittura li considerano frutto di pregiudizi nei confronti delle peculiarità religiose e culturali, e accusano l’imposizione di un singolo modello neo-coloniale e globalizzato, che si afferma grazie all’assoggettamento economico e culturale di altre distinte nazioni. Certe sfere culturali hanno quindi tentato di districarsi e sottrarsi a regolamenti internazionali che considerano eccessivamente restrittivi e in conflitto con la propria cultura, proponendo versioni contestualizzate dei diritti dell’uomo. La resistenza all’espansione globale dei regolamenti conosciuti è stata talvolta e successivamente giustificata dai concetti storico-politici, che hanno determinato lo scontro tra civiltà, quale capitolo inevitabile nella storia dell’umanità.

Certe organizzazioni transnazionali hanno, quindi, inteso rispondere con proprie dichiarazioni sui diritti umani. L’Organizzazione dell’unità africana (OAU) ha prodotto una Carta africana sui diritti umani e dei popoli (1981), nella quale, a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, aggiunge altri diritti che aveva ritenuto fossero stati marginalizzati, come quello sull’autodeterminazione dei popoli o l’obbligo da parte degli Stati membri di combattere contro «ogni forma di sfruttamento economico straniero».

Anche l’organizzazione della Conferenza islamica (nota dal 2011 come Organizzazione della cooperazione islamica) ha prodotto una propria Dichiarazione sui diritti umani (1990), che proclama l’islam quale «religione naturale dell’uomo» (articolo 10). Queste varie dispute hanno raggiunto il culmine nella fase immediatamente successiva ai drammatici eventi dell’11 settembre 2001. Pare tuttavia evidente come, alla luce della massiccia inversione di tendenza da un punto di vista politico (la caduta del comunismo alla fine degli anni ’80 e la più recente primavera araba), negli ultimi due decenni, in molti Paesi, la teoria dell’universalità dei diritti umani abbia acquisito nuovo impulso proprio all’interno di quelle società che sembravano resistervi in maniera ostinata. Questo ritorno alla grazia non esime la società umana da una rinnovata riflessione sull’essenza del grande concetto rappresentato dai diritti umani. Perché la loro universalità sia effettivamente accettata da tutti, occorre interrogarsi sulla loro storia e giustificazione, affinché la reputazione di quei principi non sia più sospesa per sospetto di imperialismo, elemento che ne ha ostacolato la diffusione a livello mondiale.

Il nuovo corso

Abbiamo visto che, dal XVIII al XXI secolo, il numero dei diritti umani riconosciuti come tali è aumentato in maniera enorme. Dalla prima alla terza generazione di diritti (secondo alcuni si può già parlare di quarta generazione) il catalogo si è molto ampliato. Questa crescita quasi esponenziale dimostra che i confini dei diritti umani restano quanto mai mutevoli e dipendono dal momento e dal luogo, e che la definizione precisa di ciò che essi implicano continuerà ad alimentare notevoli discussioni. Tale dibattito indebolisce in ogni epoca l’autoproclamata universalità dei diritti umani, che possono quindi assumere le sembianze di un dogma e non quelle di un vero e proprio dono razionale.

Davanti a questa escalation, il rischio è quello di accettare la relatività di certi diritti rispetto ad altri. Ciò può determinare ulteriori pericoli di conflitto tra diritti diversi. In ultima analisi, la descritta situazione rende ancor più complesso attuare la missione di vegliare e salvaguardare tali diritti (in particolare per quei Paesi che possono contare su entrate pubbliche di modesta entità).

L’universalità dei diritti umani viene frequentemente messa in dubbio anche da chi evoca uguaglianza tra culture, anche per quelle che non soddisferebbero i criteri occidentali di rispetto per l’individuo. Qualcuno addirittura accusa i diritti umani di essere una forma di religione civile e straniera, imposta al resto del mondo da un Occidente ipersecolarizzato e ipermaterialistico. Va detto che l’uso di una terminologia forte, con connotazioni religiose («universale o «diritti sacri»), può aver legittimamente disturbato quelli che non collocano il sacro all’interno dell’individuo in quanto tale, ma piuttosto nella(e) propria(e) divinità o nella forza soprannaturale che essi riconoscono.

Pare chiaro che l’unico modo per risolvere questa contesa sia sforzarsi di secolarizzare il concetto stesso di diritti umani. Per riuscirci occorre studiarne la storia e avviare una riflessione sulle loro fondamenta filosofiche. È tempo di fare riferimento a un famoso testo storico sui diritti umani: essi sono il prodotto di un contesto ben preciso; senza alcun dubbio hanno la loro importanza, ma dovrebbero essere valutati come testimonianza culturale di un tempo andato. Per poterli considerare universali, devono conformarsi a tre condizioni: essere naturali, uguali per tutti e applicabili a chiunque. Non si tratta di contrapporre diritti umani a diritto divino o a quelli del mondo animale. Quelli di cui abbiamo parlato devono potersi sviluppare in un contesto politico secolare e hanno bisogno di essere consolidati dalla partecipazione comune di tutti alla loro implementazione.

La secolarizzazione dei diritti umani è in atto: si tratta di liberarsi della loro connotazione semi-religiosa, dell’apparenza di una moralità umana onnicomprensiva, che in passato è stata necessaria in Occidente, ma che oggi rappresenta un ostacolo alla loro diffusione nell’intero pianeta. Occorre creare una raccolta essenziale di normative legali applicabile a chiunque, senza eccezioni, in virtù di trattati o di accordi internazionali. In molte nazioni, le traduzioni giuridiche e/o costituzionali sono già state approvate e in alcune coalizioni esse stabiliscono la condizione in base alla quale nuovi Paesi si uniscono a entità plurinazionali, pensiamo a quelli che aspirano a far parte dell’Unione europea. Lo sviluppo del rispetto per i diritti umani è un processo che necessita una continua implementazione piuttosto che una «verità» esclusiva non uniformemente riconosciuta, che solo i Paesi più avanzati avrebbero il ruolo di concedere al resto del mondo.

VALENTINE ZUBER – Directeur d’etudes Section des Sciences Religieuses – École Pretique des’Hautes Études – Paris.

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