La difficile condizione della minoranza russofona in Lettonia

Tra pochi mesi si apriranno ufficialmente in Lettonia le celebrazioni per il centenario dell’indipendenza dal secolare dominio russo. Eppure, con il 2018 oramai alle porte e la storia del secolo scorso consegnata di fatto agli archivi, l’ex Repubblica sovietica non sembra abbia smesso del tutto di fare i conti con i fantasmi del suo passato. Piccolo gioiello sul Mar Baltico, culla di cultura e civiltà dove la democrazia e le libertà hanno trionfato sulle discriminazioni e sui soprusi che avevano segnato il regime sovietico (di cui per diversi decenni ha fatto parte), la Lettonia si trova costretta ancora oggi a gestire una questione che si trascina da decenni e che fatica a trovare una soluzione: quella cioè dei cosiddetti «non cittadini» di lingua russa, immigrati nel Paese dopo il 1940, che, all’atto dell’inipendenza, non hanno ottenuto la cittadinanza lettone. Inoltre, avendo perso la loro precedente cittadinanza – quella sovietica – a seguito della disgregazione dell’URSS, non risultano essere cittadini nemmeno di un altro paese.

L’origine della questione

Nel corso del Novecento, la Lettonia ha saputo resistere con forza ai numerosi e violenti tentativi di russificazione, messi in atto prima e dopo la seconda guerra mondiale, ma continua tuttavia a pagarne le conseguenze ancora oggi.

Quando nel 1918 l’impero zarista si dissolse sotto i colpi dei rivoluzionari bolscevichi, il nazionalismo lettone – che aveva cominciato a risvegliarsi alla fine dell’Ottocento – risultò determinante nel conflitto conclusosi due anni dopo con il trattato di Riga e il riconoscimento della piena indipendenza della Lettonia. Indipendenza, tuttavia, che sarebbe stata presto nuovamente persa, con l’occupazione nel 1940 da parte delle truppe di Stalin. Così il Paese baltico si ritrovò ancora una volta sotto il controllo dell’odiato regime sovietico. E ciò fino al 1991, quando il Paese riconquistò la piena autonomia.

All’epoca dell’invasione staliniana della Lettonia, i russi lì residenti erano poco meno del 10 per cento. L’occupazione favorì l’allargamento di questa comunità, che Mosca incoraggiava per rafforzare il proprio controllo nella regione e diluire nello stesso tempo l’omogeneità etnica lettone. Tendenza che proseguì anche in seguito alla morte di Stalin, tanto che, dopo la caduta del muro di Berlino, i russi costituivano oramai una minoranza molto consistente.

 

All’indomani della disgregazione dell’urss però, la legislazione sulla cittadinanza varata dal governo lettone riconobbe lo ius sanguinis solo ai discendenti dei residenti nel Paese al 16 giugno 1940 (data, cioè, dell’occupazione sovietica, 51 anni prima). Per effetto di questa normativa, 715.000 persone (ovvero circa tre quarti dell’intera comunità russa e di fatto un terzo della popolazione totale residente) precipitarono nella condizione di «nepilsoni» o «alieni», ovvero una categoria di residenti priva di diritti politici e di gran parte dei diritti economici, sociali e culturali. Una situazione che permane ancora oggi, anche se – soprattutto a seguito delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa e dell’Ocse e poi dell’ingresso nel 2004 della Lettonia nell’Unione europea – è stato avviato un lento processo di naturalizzazione. Processo che si sta traducendo in una graduale riduzione del numero dei «non cittadini», per quanto, ad oggi, essi rimangono ancora numerosi.

Gli «alieni» e la non cittadinanza lettone

In termini pratici, i non cittadini sono riconosciuti come «soggetti residenti permanenti» ma, essendo privi della nazionalità lettone, i loro documenti riportano semplicemente la dicitura nepilsonis o aliens. Alieni, che in Lettonia costituiscono il 12 per cento della popolazione totale. Su quasi 2 milioni di abitanti, i non cittadini di origine russa sono 200 mila, quelli di origine bielorussa 40 mila e quelli ucraini 30 mila.

Una situazione comune anche all’Estonia, ma è la Lettonia il paese baltico con il numero più alto di «non cittadini» sul suo territorio.

Sul piano dei diritti, la differenza maggiore con i titolari di un passaporto lettone risiede nel fatto che i non cittadini non possono votare, né alle elezioni per il rinnovo del Parlamento, né a quelle amministrative ed europee e nemmeno alle municipali. Non possono esercitare determinate professioni (in particolare quelle legate a incarichi di sicurezza nazionale), non possono appartenere a forze dell’ordine, polizia o vigili del fuoco, e neanche diventare giudici. I non cittadini, inoltre, per acquistare una casa devono prima ottenere un permesso dal Comune di residenza. Garantiti invece a tutti il diritto all’assistenza sanitaria e quello all’istruzione, nonché la protezione del loro Paese di residenza quando vivono o viaggiano all’estero.

«Bisogna distinguere tra una discriminazione derivante dalle leggi ufficiali e una discriminazione proveniente dalle leggi non scritte», spiega Miroslav Mitrofanov, ex giornalista e leader di Latvijas Krievu Savieniba (lks), uno dei partiti che rap- presenta la minoranza russofona. «Chi ha origini russe, ad esempio, difficilmente può ricoprire incarichi prestigiosi nelle università o rivestire un ruolo dirigenziale nel settore pubblico. Se scorriamo gli elenchi del personale dei ministeri lettoni, solo il 10 per cento dei cognomi è di origini non lettoni».

Secondo uno studio pubblicato dall’«European Network on Statelessness», rete di organizzazioni non governative che studia il fenomeno di chi risulta privo di nazionalità, in Lettonia le generazioni russe vecchia e giovane sono profondamente divise. Analizzando i dati anagrafici dei non cittadini salta infatti subito all’occhio come gli esclusi dalla cittadinanza siano proprio le persone più avanti con l’età, al di sopra dei 45-50 anni.

Dal 1995, chiunque può ottenere la cittadinanza superando un test di lingua e cultura lettone. «Ma l’esame è molto difficile», spiega Miroslav Mitrofanov.

«Nell’Unione europea solo in Danimarca i requisiti per superare il test di lingua sono più alti». Il lettone è una lingua molto complicata e molto diversa rispetto alle lingue slave, a cui appartiene il russo. Ci sono state, negli anni, alcune proposte   di semplificazione, ma nessuna si è poi realizzata. «Sono soprattutto le persone più anziane e quelle meno istruite ad essere penalizzate», continua Mitrofanov.

«Io sono russo, ma faccio eccezione perché ho frequentato scuole e università di alto livello. Ma conosco ad esempio un ex poliziotto, che guidava i mezzi della polizia e che ha perso il lavoro perché non ha superato il test. Per rimanere in servizio era richiesta la cittadinanza lettone. Ha tentato l’esame ben 17 volte, ma senza successo», racconta Mitrofanov.

Per i bambini nati in Lettonia, invece, dal 2013, è possibile ottenere la cittadinanza al momento della nascita purché uno dei due genitori ne faccia esplicita richiesta. Eppure non tutti, al momento, si avvalgono di questa facoltà. «Per conoscere con precisione le motivazioni di questa scelta occorrerebbe condurre un sondaggio tra i non cittadini e anche ricerche specifiche sul perché le famiglie decidano di non richiedere la cittadinanza per il neonato. Il discorso andrebbe approfondito; ad ogni modo, le ragioni possono essere di vario tipo: ignoranza, autoesclusione, protesta silenziosa contro la politica dello Stato. O, ancora, i genitori potrebbero volersi riservare la possibilità di richiedere la cittadinanza ad altri Stati successivamente».

Sempre dal 2013 inoltre, fino al compimento del 15mo anno di età del minore uno dei due genitori non cittadini può richiedere la cittadinanza per i figli. Tra i 15 e i 18 anni d’età, invece, la richiesta può essere fatta direttamente dal giovane. Per i bambini «alieni» che hanno affrontato in lingua lettone più della metà del programma scolastico è, oltretutto, previsto l’esonero dal processo di naturalizzazione.

Misure, queste, che dimostrerebbero la volontà del governo di rendere lo status di «alieno» solo temporaneo e avviarlo verso una soluzione definitiva. Negli ultimi mesi, il presidente lettone Raimonds Vējonis ha proposto la modifica della norma- tiva vigente in favore dell’attribuzione automatica della cittadinanza lettone ad ogni nato sul territorio della Repubblica, anche in assenza di richiesta da parte   dei genitori non cittadini. Una soluzione caldeggiata e sostenuta anche dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dall’Ocse. A seguito delle misure adottate dal governo, comunque, il numero dei non cittadini è sceso dal 29 per cento del 1995 al 12 per cento del 2015; inoltre, 142 mila persone hanno acquisito la cittadinanza grazie al processo di naturalizzazione.

Alla base della questione: la lingua russa

Il primo ostacolo che gli «alieni» si trovano ad affrontare per ottenere la cittadinanza è, appunto, quello linguistico. In generale, il 26 per cento della popolazione lettone si identifica come russa, ma a utilizzare il russo come lingua madre è anche una percentuale più alta, tra il 34-36 per cento.

In Lettonia la lingua ufficiale è, però, unicamente il lettone, anche se lo Stato garantisce protezione alle minoranze linguistiche finanziando scuole il cui programma è svolto in russo, polacco, ebraico, bielorusso, ucraino, estone e lituano. Nel 2012 si è tenuto un referendum popolare per modificare la costituzione e riconoscere il russo come seconda lingua ufficiale. A vincere è stato il «no» con il 74,8 per cento delle preferenze, anche se va detto che a votare erano soltanto i cittadini e non anche gli «alieni».

Il tentativo di inclusione del governo, però, sembra che stia andando verso una maggiore integrazione linguistica. «Già nel 2014 era stato proposto di cambiare il sistema scolastico e obbligare anche le scuole frequentate dalle minoranze russofone ad utilizzare solo il lettone», racconta Mitrofanov. Ma dopo l’inizio del conflitto in Ucraina e l’occupazione russa della Crimea, il governo ha fatto marcia indietro per il timore di provocare la minoranza russa mentre era in corso un conflitto tra est e ovest. «All’inizio del marzo 2017 il governo ha di fatto proibito agli studenti delle scuole frequentate dalle minoranze di utilizzare il russo insieme con il lettone durante gli esami. Per cui, d’ora in poi, sarà ammesso solo il lettone», dichiara Mitrofanov.

Una grave conseguenza della discriminazione dei non cittadini russi è, secondo il rappresentante di lks, la fuga di giovani all’estero. Se il processo di migrazione era iniziato già dieci anni fa, oggi con le politiche messe in campo dall’Unione europea il trend è ancora più evidente, con sempre più ragazzi che preferiscono partire per avere maggiori opportunità per il futuro. «Qui, se la tua famiglia non è facoltosa, non hai possibilità di ottenere un buon lavoro, una carriera o un trattamento parificato a quello dei lettoni», chiosa Mitrofanov.

La questione religiosa

La religione non costituisce, invece, motivo particolare di discriminazione. Secondo un rapporto redatto nel 2015 da «Freedom House», la libertà religiosa in Lettonia è generalmente rispettata. Nel Paese si contano all’incirca 30 gruppi religiosi; fra loro, i più numerosi sono i cattolici (22,7 per cento), i luterani (19,6 per cento) e gli ortodossi (15,3 per cento). I non cittadini russofoni aderiscono principalmente alla religione ortodossa e al pentecostalismo protestante.

La libertà religiosa – così come quella di pensiero e di coscienza – e la separazione tra lo Stato e la Chiesa sono garantite dall’articolo 99 della Costituzione. Benché il governo non richieda ai gruppi religiosi di registrarsi, la legge riconosce un certo numero di diritti e privilegi soltanto a quelli registrati, incluso il riconoscimento della personalità giuridica, che permette di possedere delle proprietà, di condurre operazioni finanziarie e di concedere benefici fiscali ai donatori. In particolare, otto gruppi religiosi – luterani, cattolici, ortodossi, vecchi credenti, battisti, metodisti, avventisti del settimo giorno ed ebrei – godono di speciali privilegi, fra i quali il diritto di insegnare religione nelle scuole pubbliche. Gli otto gruppi sono inoltre gli unici a sedere nel Consiglio Ecclesiastico, un organismo consultivo presieduto dal Primo Ministro, che si riunisce periodicamente per discutere e fornire raccomandazioni su questioni di carattere religioso.

«Lo Stato ha stipulato degli accordi con la Chiesa ortodossa di Lettonia e con i vecchi credenti (movimento che si separò dalla Chiesa ortodossa russa nella metà del Seicento), così come con altre religioni presenti», spiega Valdis Teraudkalns, docente presso la Facoltà di teologia e storia delle religioni all’Università della Lettonia di Riga. «È uno stereotipo, e soprattutto un errore, definire la Chiesa ortodossa in Lettonia una Chiesa russa. Dagli anni quaranta del XIX secolo, quando si diffuse un movimento di conversione di massa dal luteranesimo alla Chiesa ortodossa, nacquero anche delle parrocchie di ortodossi lettoni».

I rapporti tra i capi delle principali confessioni cristiane (luterana, cattolica e ortodossa) sono generalmente buoni e non si registrano attacchi particolari contro la Chiesa ortodossa perché considerata in qualche modo legata alla Russia di Putin.

«La situazione è in effetti complessa: la Chiesa ortodossa da un lato fa parte del patriarcato di Mosca, che è influenzato dal presidente russo e dalla sua ideologia; dall’altro, però, il clero ortodosso in Lettonia è abbastanza libero di adattarsi al paese e alla politica locale», commenta Teraudkalns.

Ha fatto discutere – scatenando la dura reazione da parte dell’ambasciata russa   in Lettonia – quanto accaduto ad Andrei Kurayev, protodiacono della Chiesa ortodossa russa, lo scorso novembre. L’alto prelato era partito dalla Russia per partecipare a un incontro religioso che si sarebbe dovuto tenere in una nota biblioteca a Riga. All’aeroporto, però, le autorità lettoni gli hanno negato l’accesso nel Paese, in quanto inserito in una lista di personalità non gradite.

«Andrei Kurayev non è un liberale, anche se in effetti è spesso critico verso la sua chiesa e il suo paese, la Russia. Ma anche molti leader politici lettoni non sono liberali. Quello che dicono alcuni esponenti dell’Associazione Nazionale lettone – una forza di destra – è molto simile a quello che dice il regime di Putin. Quindi questo episodio è ben lontano dall’essere un attacco contro la Chiesa ortodossa. Si tratta di uno dei tipici casi esagerati di esibizionismo da guerra fredda, dove ognuno tenta di prevalere sull’altro», conclude Teraudkalns.

Le ragioni alla base di questo isolato episodio rimangono tuttora oscure.

Discriminazione o autoesclusione?

La questione dello stato di esclusione lamentato dalla minoranza russofona resta, tuttavia, parzialmente controversa. Una parte dei cittadini lettoni ritiene, infatti, che non si tratti di reale discriminazione. Se è innegabile che numerosi russi vivano ai margini della società, secondo un’opinione piuttosto diffusa le ragioni non sarebbero tanto da rintracciare nella presenza di ostacoli concreti che impediscono l’integrazione tra le due comunità, quanto piuttosto da ricercare guardando alle differenze culturali, ai pregiudizi mentali di lettoni da un lato e russofoni dall’altro, che finiscono spesso per sfociare in una vera e propria forma di autoesclusione. Sigita Struberga, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università della Lettonia di Riga, è tra i sostenitori di quest’ultima teoria, sviluppata compiutamente in un saggio pubblicato nel 2016 all’interno del rapporto «La sicurezza della società. Il dilemma inclusione- esclusione, un ritratto della minoranza russofona in Lettonia»(1). Lo studio, finanziato con fondi dell’Unione europea, analizza la condizione della comunità russofona nel Paese all’indomani della guerra in Ucraina e dopo l’occupazione russa della Crimea. Nei Paesi Baltici si temeva, infatti, che lo scontro tra Russia e Occidente potesse avere delle ripercussioni sulla sicurezza interna. Si temeva cioè che, essendo le minoranze russofone molto ampie, Putin avrebbe potuto tentare di sfruttare il loro eventuale malcontento a proprio favore e ripetere quanto accaduto in Ucraina.

«Le organizzazioni non governative che difendono la tradizione e la cultura della minoranza russofona sono profondamente legate alla Russia. Ma la loro abituale retorica non fa altro che allontanare la comunità russa dalla società civile lettone, spingendola all’auto-isolamento e alla riluttanza verso un’integrazione completa, facendo leva in particolare sui valori della “madrepatria”», scrive Sigita Struberga. I temi in agenda di Ong e partiti russofoni attivi in Lettonia ruotano tutti intorno alla custodia della memoria storica, alla protezione delle scuole russe, alla diffu- sione della lingua russa e alla difesa degli usi e costumi tradizionali. Ma facendo continuamente leva sulle diversità e sfruttando il pregiudizio dei russi nei confronti dei lettoni che li emarginerebbero, si ottiene un risultato opposto a quello che tali Ong dicono di perseguire. Non l’inclusione, ma al contrario l’esclusione sempre più profonda della comunità russa.

 

SOPHIE TAVERNESE – Giornalista. Contributor di East Journal e La Stampa.

 

NOTE

1 S. strubergA. 2016, Non-governmental Organizations: source for inclusion or exclusion?, in Societal security. Inclusion-exclusion dilemma. A portrait of the Russian-speaking community in Latvia, Zinatne Publishers, Riga, 2016, pp. 95-123

 

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