Una vittoria che ci ha scaraventati in quello che il quotidiano britannico The Guardian ha definito un mondo post-truth. La «post-verità» (etichetta di nuovo conio, interessante e suggestiva), che ha accompagnato l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, è stata alimentata da varie componenti e differenti fattori, alcuni molto concreti e altri virtuali ma, come ampiamente evidente da tempo, la barriera tra le due dimensioni si è parecchio affievolita, e proprio i secondi sono in grado di produrre in politica conseguenze, appunto, inattese e in grado di rivoluzionare degli scenari reputati prevedibili.

La retorica e lo stile argomentativo – e, specialmente, comunicativo – di Trump hanno giocato un ruolo di sicura rilevanza nella crescita costante del suo consenso   nei vari momenti e stadi che hanno preceduto le elezioni presidenziali, fino alla vittoria finale debitrice anche del sistema peculiarmente statunitense dei «Grandi elettori» (avendo infatti ottenuto 2 milioni 800 mila voti popolari in meno della sua malcapitata competitor Hillary Clinton). Accanto all’identificazione estremamente efficace dello stratificarsi e consolidarsi di una «questione sociale» che ha colpito l’elettorato bianco e una quota significativa del ceto medio (la white working class) legato all’agricoltura e alla manifattura (colpito da talune dinamiche derivanti dai processi di globalizzazione e mondializzazione dell’economia), cui il trumpismo ha offerto un vessillo esacerbato e tutta una serie di parole d’ordine, e accanto alla disponibilità finanziaria del tycoon, sicuramente hanno giocato un ruolo consistente il piano della comunicazione e quello dell’immaginario. L’uno e l’altro, non per caso, già ampiamente «nelle corde» e oggetto degli interessi e delle attività professionali di Trump, che costituisce un caso eclatante nel repertorio contemporaneo dei populismi mediatici.

«Il presidente è un prodotto», diceva Don Draper nel celebre serial dedicato al decennio ruggente della pubblicità Mad Men; e, già dagli anni Cinquanta, il marketing applicato alla politica diviene una prassi sempre più diffusa (almeno nel campo repubblicano). Ci possiamo quindi (e legittimamente) domandare se anche «The Donald» rappresenti un «prodotto» della comunicazione. E la risposta, a nostro giudizio, è che questo è vero – se lo è – solamente in parte. Nel senso che, da un lato, Trump è un «facitore» e un produttore (un maker a 360 gradi) di comunicazione in prima persona; un «comunicatore» diretto e immediato, un notevole conoscitore di numerose logiche mediali e dei meccanismi di funzionamento delle comunicazioni di massa e della cultura popolare. E, dall’altro, è una prototipica incarnazione delle culture del narcisismo (1) evocate e scandagliate, agli albori degli anni Ottanta del Secolo breve, in un testo famoso da Christopher Lasch; e, quindi, il presidente Usa è pure un figlio (o, in questo senso, appunto anche un «prodotto») della performing society e dei suoi paradigmi comportamentali, un self-made man che ricorda «warholianamente» un ready-made, e presenta varie, marcatissime, sfaccettature di quella che potremmo etichettare come «egopolitica». Forse anche – da taluni punti di vista una specie di «bambino mai davvero cresciuto», che si è presentato nelle vesti del restauratore della figura («lacaniana») del Padre, ad usum delle richieste del suo elettorato. Come ha evidenziato lo scienziato cognitivo e studioso di comunicazione politica George Lakoff (2), il frame del «padre severo» rappresenta un pilastro identitario e di forma mentis della politi- ca conservatrice americana, e qui, osservando la condotta morale ed esistenziale del presidente Trump (almeno prima dell’elezione), pare di cogliere una stridente contraddizione e antinomia; che, però e in verità, si configura piuttosto come un caratteristico «paradosso postmoderno» (e post-razionalità politica illuministica o, se si preferisce, per ricorrere al concetto attualmente in voga, giustappunto «post-verità»).

In termini comunicativi, Trump ha identificato il nodo di addensamento e sedimentazione del desiderio di riscossa e rivincita degli elettori delle aree geografiche centrali del Paese (la Deep America), che si sentivano parte della middle class, e il cui impoverimento – reale o percepito, i due livelli, nuovamente, si sovrappongono – non afferisce unicamente alla sfera economica. Ma anche, come noto, a quella simbolica e dello status, con una competizione, «di lunga durata», che li oppone alle minoranze avvertite, per l’oscillazione del pendolo demografico a loro favore, come le protagoniste di un’operazione di «spossessamento» dell’egemonia e della sovranità ai danni dell’ «uomo bianco» – un piano sul quale il reaganismo seppe abilmente costruire parte della propria narrazione. L’identificazione con Trump da parte di questi cittadini-elettori è stata, tipicamente, di carattere personale, secondo il pattern e il modello dei processi di personalizzazione della politica che continuano a rivelarsi dominanti.

E questo transfert politico, in un contesto di forte spinta anti-sistemica e di riorganizzazione dei cleavages anche intorno alla nuova dicotomia tra «popolo» ed «élite», è stato ulteriormente potenziato e agevolato dalla sua candidatura da «outsider» (non gradito all’establishment interno) nelle primarie del Partito repubblicano. Una formazione politica che, nel corso di questi anni, sotto l’influsso di movimenti come i «tea party» e, più recentemente, della alt-right (l’alternative right, importantissima sotto il profilo della creazione di un clima d’opinione pro-Trump, soprattutto nella blogosfera), ha svolto una funzione di «apprendista stregone», vellicando e suscitando lo scatenamento di svariati animal spirits di matrice xenofoba, quando non direttamente razzista, e alimentando un contesto di insofferenza e fastidio nei confronti delle diversità culturali e di genere, che hanno trovato espressione anche nelle forme di «odio assoluto» imperanti in certi settori del web. Gli strategist e i consiglieri trumpiani sono stati, così, anche bene attenti a stilare un programma elettorale che si differenziasse in maniera vistosa rispetto alla «tradizione» recente del Partito repubblicano, e ne prendesse le distanze in chiave populistica. Nel suo programma ufficiale, Trump aveva in comune con il partito dell’Elefantino unicamente la strenua difesa del diritto all’acquisto di armi e alla loro libera circolazione (la famosa-famigerata interpretazione del Secondo emendamento), mentre divergeva radicalmente sulla politica estera (con toni di riscoperta dell’isolazionismo) e, in particolar modo, su quella economica (perorando un approccio di tipo protezionistico e la reindustrializzazione delle aree della nazione che hanno subito massicci fenomeni di delocalizzazione produttiva).

Donald Trump è, a oggi, una delle manifestazioni più impressionanti (e vincenti) della comunicazione e del format retorico e argomentativo del populismo, perché esso, come suggeriscono alcuni studiosi (tra cui gli italiani Giuliano Bobba e Guido Legnante (3)), può venire appunto considerato alla stregua di uno stile comunicativo. Quella trumpiana, nello specifico, appare anche come una versione marcatamente di destra di ciò che Ernesto Laclau (che la ricolloca, tuttavia, con una precisa scelta di adesione su un versante di sinistra) ha definito la «ragione populista» (4). Il populismo semplifica lo spazio politico, surrogando e sostituendo un’intera sequenza di concetti e un campo complesso di differenze all’insegna di coppie oppositive secche e manichee.

E risemantizza, in special modo, le parole collegate all’ambito linguistico e concettuale delle emozioni negative – dalla paura all’avversione – generando uno storytelling fortemente ansiogeno, che si risolve spesso all’insegna della dicotomia «noi vs. loro». Esistono, in proposito, una comunicazione e una semantica populiste di tipo «orizzontale» (edificate sull’esclusione «identitaria» di chi è differente), e una comunicazione e una semantica di genere «verticale», le quali individuano come obiettivo polemico, oltre che le organizzazioni sovranazionali e transnazionali responsabili della «sottrazione di sovranità ai danni del popolo», anche il governo e la «casta» dei politici, un bersaglio che, naturalmente, risulta molto congruente per homines novi riguardo la politica, quali lo stesso Trump. Gli studiosi che lavorano sulla categorizzazione della comunicazione populista la caratterizzano sulla base di quattro elementi di fondo: lo stile (un linguaggio estremamente semplificato); l’ideologia (fondata sul richiamo legittimante alla «gente comune»); la retorica (all’insegna di uno storytelling imperniato sull’individuazione di un nemico comune che minaccia l’esistenza del popolo, composto, giustappunto, da «uomini della strada» e ordinary people); l’organizzazione (che invoca   il pattern della «democrazia diretta»). Elementi ai quali va aggiunto il processo di costruzione dell’attesa di un leader salvifico, la sola figura in grado di riportare le lancette dell’orologio all’indietro, «quando si stava meglio», poiché vari ambiti della comunicazione populista tornano con insistenza ai temi dell’idealizzazione e della nostalgia del passato. 

Trump ha vinto aggredendo frontalmente (e demolendo), a colpi di iperboli, esagerazioni e con una cifra demagogica, le fino ad adesso durature convenzioni del politicamente corretto, convertendolo in un sistema linguistico-valoriale criticabile non soltanto da destra, secondo quell’attitudine taboo-breaking (innanzitutto dal punto di vista semiologico) che costituisce uno dei punti di forza e di maggiore impatto – e riuscita – della famiglia delle «nuove destre» di inizio terzo millennio. Uno «sdoganamento totale» del populismo che, nella sua versione soft, è entrato difatti persino all’interno del dibattito e del discorso pubblico mainstream.

Un dato di fatto che presenta una natura probabilmente irreversibile, e con il quale la politica democratica si troverà a dovere fare (molto duramente) i conti per gli anni a venire. Perché con l’elezione di Trump il populismo mediatico ha segnato un punto di non ritorno.

 

MASSIMILIANO PANARARI – Insegna Campaigning e organizzazione del consenso all’Università Luiss Guido Carli di Roma e Marketing politico alla Luiss School of Government.

 

NOTE

1 Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano, 2001.

2 George Lakoff, Non pensare all’elefante!, Fusi orari, Roma, 2006.

3 I due politologi sono fra i contributori del volume di Aa. Vv., Populist Political Communication in Europe. A cross national analysis of twenty seven European countries, Routledge, London, 2016.

4 Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2008.

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