Il tema del pluralismo confessionale si pone con forza in ogni società multiculturale e multireligiosa. Tuttavia vi sono sistemi politici che si limitano a registrarlo o a subirlo come uno dei prezzi da pagare ai processi di modernizzazione, globalizzazione e secolarizzazione; altri che, al contrario, lo assumono come un valore da affermare e tradurre in specifiche policy.
La differenza è notevole e ci consente di tracciare una mappa dell’Europa che distingue diverse intensità e differenti modelli di pluralismo. È evidente, ad esempio, la distanza tra il modello inglese – confessionale nella forma, ma fortemente orientato al riconoscimento delle diverse comunità di fede dall’altra – e quello francese, tradizionalmente legato a un modello di laicità che non implica alcuno specifico riconoscimento delle diverse confessioni.
Quanto all’Italia, si colloca in una posizione particolare, che unisce uno specifico riconoscimento della Chiesa cattolica alla solenne affermazione del principio di uguaglianza fra tutte le confessioni religiose. Secondo l’articolo 7, infatti, «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». La distinzione di ordinamenti tra i due soggetti «laicizza» l’impianto dei rapporti tra i due soggetti; inoltre, affermando all’articolo 8 che «tutte le confessioni sono egualmente libere di fronte alla legge», la Costituzione garantisce il principio della libertà religiosa e, quindi, implicitamente riconosce la realtà del pluralismo religioso. Una norma ribadita all’articolo 19, nel quale si afferma che «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».
Se i principi generali risultano chiari, lo sono assai meno gli strumenti applicativi. Nel caso dell’articolo 7, infatti, il principio di «indipendenza e sovranità» è consolidato nel riferimento al Concordato del 1984; quanto all’uguaglianza di fronte alla legge delle «confessioni diverse dalla cattolica» si esprime attraverso «intese» con le loro rappresentanze, le cui modalità di attuazione restano ancora oggi largamente indeterminate.
I valori «pluralisti» contenuti nei primi commi degli articoli 7 e 8, in altre parole, sono bilanciati da un combinato di strumenti giuridici che, da una parte, confermano un rapporto particolare tra lo Stato e la Chiesa cattolica e, dall’altra, indicano una specifica forma di riconoscimento di altre comunità di fede. La questione, quanto mai aperta in sede politica e tra i giuristi, è quali siano le condizioni che rendono possibile e auspicabile la stipula di un’intesa: la consistenza numerica di una comunità? Il suo radicamento? La sua storia? La sua autorevolezza? Criteri sempre opinabili e controversi che, nei fatti, hanno prodotto un’interpretazione restrittiva della norma ed è stata applicata per un numero limitato di comunità di fede.
Nulla si muove, ad esempio, rispetto all’intesa con la comunità islamica, la cui consistenza ormai sfiora i due milioni di membri.
Nel frattempo, ancora oggi, resta in vigore la legge sui «culti ammessi», sia pure ripetutamente e drasticamente emendata dalla Corte costituzionale.
Siamo così posti al paradosso di un pluralismo «reale» al quale non corrisponde un pluralismo «legale» in grado di riconoscerlo e tutelarlo nell’applicazione pratica dei diritti in materia di libertà religiosa. In pochi anni l’Italia sta scoprendo un «nuovo pluralismo religioso» dove, in un paese in cui pure vige una solidissima «fedeltà confessionale» alla Chiesa cattolica, crescono rapidamente nuove presenze religiose. Elaborando i dati del CESNUR e combinandoli con quelli del Dossier Idos – Confronti (2016) – possiamo ricavare il dato complessivo di circa 5,5 milioni di residenti che fanno esplicito riferimento a un’appartenenza confessionale diversa dalla cattolica. La debolezza del «pluralismo legale» svaluta la risorsa «sociale» costituita dalla presenza e dall’azione di varie comunità di fede. È un dato ormai assodato che l’immigrazione è stato il fattore che ha maggiormente inciso nella pluralizzazione della scena religiosa nazionale: non solo per l’ovvia e ben studiata presenza islamica, ma anche – e tra le altre – per la rilevanza della comunità cristiana ortodossa, il radicamento di quella sikh e il consolidamento di quella induista. A queste comunità, il cui baricentro ricade nettamente sulla componente degli immigrati, se ne aggiungono altre in cui registriamo un equilibrio tra nazionali e stranieri: evangelici e buddhisti in primo luogo, ma vari indicatori attestano crescenti presenze di immigrati anche tra i testimoni di Geova e i mormoni. Pluralismo, quindi, come elemento specifico della religiosità degli immigrati, che produce effetti importanti sul corpo dell’intera società italiana.
Ma l’attualità e la rilevanza delle religioni «degli immigrati» risiede nel fatto che le loro comunità di fede si qualificano sempre più spesso come importanti luoghi di socialità ed empowerment: spesso è nella moschea, nella chiesa «etnica», nel gurdwara o nel tempio che si apprende l’italiano e si pongono le basi per avviare il processo di integrazione dei migranti. Così come, sempre in questi luoghi, si esprimono importanti dinamiche intergenerazionali che riflettono diverse sensibilità e modi di concepire il percorso di inserimento nella società italiana ed europea. Infine, in un tempo che ancora risente della crisi economica, sono le comunità di fede a garantire una sorta di welfare informale che ha consentito a molti immigrati di proseguire, sia pure con difficoltà, nel proprio percorso di inserimento.
Per molti aspetti, proprio la religiosità degli immigrati ha contribuito in misura consistente a delineare quel quadro post-secolare che sembra essere una delle caratteristiche dell’Italia e dell’Europa di oggi. Se vari indicatori smentiscono la profezia di un’accelerazione dei processi di secolarizzazione delle società occidentali e riportano le religioni nello spazio pubblico europeo, in buona parte questa inversione di tendenza si deve proprio all’impatto sociale di una religiosità degli immigrati nettamente più intensa e visibile di quella dei nazionali: pensiamo alla crescita di luoghi di culto più o meno formali nelle periferie metropolitane così come nei piccoli centri; al dibattito prorompente sul «velo islamico» e gli altri simboli religiosi; all’azione sociale delle comu- nità religiose – immigrati e nazionali – a sostegno dell’accoglienza, dell’integrazione e del dialogo interculturale; ma anche – ed è il lato oscuro e inquietante di questo prisma alla consistenza e alla distruttività di espressioni religiose estreme e radicalizzate.
Qualità del pluralismo
Ma oltre un problema di «quantità» di pluralismo applicato nella realtà italiana, vi è una questione relativa alla sua qualità. In questa prospettiva che individua una varietà di pluralismi e di strumenti politici tesi a riconoscere le diverse componenti culturali e religiose attive all’interno di una comunità politica, dovremo ammettere che esistono – semplificando – un pluralismo «buono» e uno «cattivo»: quest’ultimo è quello che si limita a prendere atto di una varietà di soggetti culturali e religiosi presenti e attivi all’interno della società civile. In questo senso è un pluralismo statico che, nelle sue espressioni deteriori, si consolida come giustapposizione di comunità tendenzialmente chiuse in se stesse, che hanno relazioni deboli le une con le altre e una scarsa capacità di presenza sulla scena pubblica. È il pluralismo dei ghetti, di tante banlieue e di tante periferie frammentate in comunitarismi spesso implosivi e distruttivi.
È evidente che il pluralismo «buono» ha altre caratteristiche.
Innanzitutto è dialogico, tende cioè a promuovere il confronto tra i diversi soggetti culturali e religiosi presenti nella società civile; inoltre, favorisce la loro partecipazione al discorso pubblico, a quel particolare dialogo tra soggetti intermedi e istituzioni, tipico di ogni democrazia complessa. L’agenda di questo dialogo è molto ampia e va, ad esempio, dai temi sociali a quelli della bioetica. La partecipazione delle comunità di fede al discorso pubblico non nega né limita il principio di laicità di relazione che abbiamo richiamato: legittima la presenza e il contributo delle diverse comunità di fede nello spazio pubblico, difatti, ma nel quadro di quel regime di separazione tra lo Stato e le confessioni religiose che costituisce la più alta garanzia di libertà e di pluralismo religioso per ogni comunità attraversata da differenze etniche, confessionali, culturali. In questo contesto assume un particolare rilievo la dimensione civile del dialogo interreligioso: mi riferisco a una specifica agenda di ciò che convenzionalmente definiamo «dialogo» tra le comunità di fede, centrata sui temi della cittadinanza attiva e della coesione sociale. In un’epoca che sempre più convintamente possiamo definire post-secolare, infatti, le comunità di fede si rivelano attori importanti della società; i processi migratori accentuano la tradizione pluralista di alcuni paesi o – in realtà come quella italiana – le attribuiscono una rilevanza sociale mai sperimentata. In questa prospettiva che rafforza le società multiculturali e multireligiose, il riconoscimento delle comunità di fede da parte delle istituzioni è la premessa per una fruttuosa collaborazione in diversi ambiti sociali quali la scuola, i quartieri, i luoghi della produzione, le carceri.
Un secondo aggettivo del pluralismo «buono» è educante. Una relazione tra soggetti diversi cresce e si consolida nella conoscenza delle rispettive tradizioni, del patrimonio culturale e dogmatico di cui ciascuno è portatore. Con ogni evidenza la scuola dovrebbe svolgere un ruolo di primissimo piano, promovendo competenze e conoscenze di universi religiosi a noi sempre più prossimi. Come ampiamente noto, però, a questo riguardo permane un’ipoteca che di fatto riconduce ogni possibile insegnamento in materia religiosa all’interno di una materia – l’IRC – affidato a docenti nominati dalle autorità diocesane che, nonostante l’evoluzione subita negli ultimi anni, si configura come confessionale. Ne consegue che il ricco dibattito di questi anni non ha approdato a nulla e, a fronte di una crescente domanda di informazione sulle religioni, la scuola italiana resta legata a un modello tradizionale che per altro evidenzia più di qualche debolezza.
In questa prospettiva «educational», un discorso analogo a quello che facciamo per la scuola si deve proporre per il sistema della comunicazione che resta – anch’esso – legato ad un paradigma mono-religioso e rinuncia a documentare la varietà e la molteplicità delle testimonianze di fede che si esprimono nel paese. Il terzo e ultimo aggettivo con il quale vorrei definire il pluralismo è dialettico. Talvolta, infatti, scommettendo sulle capacità delle tecniche di mediazione sociale interne a ogni sistema politico, si persegue un’opzione forzosamente irenica della convivenza tra sog- getti portatori di culture e istanze anche estremamente diversificate al loro interno.
Questa prospettiva non mi pare attuale né, al fondo, auspicabile. La forza di una comunità politica non è nella sua omogeneità, ma nella capacità di assumere e gestire la complessità derivata dalle differenze che si esprimono al suo interno. Diversità che si riferiscono alle differenti confessioni religiose ma anche – ed è un dato da considerare con sempre maggiore attenzione – all’interno di ogni singola comunità di fede. Affermare un pluralismo dialettico significa anche riconoscerne la dinamicità: i soggetti del pluralismo non sono corpi fissi in se stessi, immutabili nel tempo e nei diversi contesti sociali. Sia pure con molte difficoltà, abbiamo iniziato a cogliere questo dato in riferimento alla comunità islamica: ai decisori politici – ma anche agli amministratori e agli attori sociali – dovrebbero risultare evidenti le fratture che l’attraversano e, a partire da questa consapevolezza, definire le loro strategie di riconoscimento e governance di questa specifica componente della scena religiosa nazionale. Ciò avviene solo parzialmente e l’omologazione delle diverse correnti islamiche in un unico paradigma di comprensione costituisce uno dei limiti principali dell’iniziativa politica in materia di libertà religiosa. Non un qualsiasi pluralismo, ma solo quello costruito attorno a pratiche e politiche del dialogo, della conoscenza e della dialettica con i diversi e tra i diversi soggetti coinvolti. Un pluralismo dinamico, che non rinuncia alle differenze, ma tende a convogliarle all’interno di un sistema condiviso di norme, riferimenti e di valori. Per dirla con un apologo della tradizione sufi, il pluralismo di quei viandanti che, camminando nel deserto, trovano una moneta preziosa e iniziano a litigare – anche molto vivacemente – su come spenderla.
PAOLO NASO – Professore di Scienza politica presso l’Università La Sapienza di Roma.