Le persone di buona volontà, che per anni parlano della pace e della possibilità di dialogo fra le religioni, conoscono momenti in cui devono fare i conti con la realtà, riuscire a non farsi influenzare dalle violenze che si vedono ovunque e non deviare dalla propria convinzione e dalla propria strada del dialogo e della pace. Penso che questa sia una sfida di tutte le religioni e di tutte le fedi. A volte, dico che è un paradosso incluso nella stessa rivelazione divina quando una persona, talmente convinta e impressionata dall’incontro che ha avuto con il divino, sente immediatamente il bisogno di andare a comunicarlo agli altri, per farli partecipare a questa sua rivelazione, a questa sua verità. Talvolta, accade che, trascinata con entusiasmo da questa sua verità o rivelazione, senta il bisogno non solo di comunicarla agli altri, ma anche di imporla con la forza. È un paradosso, un peccato originale di tutte le religioni.
Abramo padre di ebrei e musulmani
Una strada che stiamo percorrendo da tempo con i miei amici islamici e con altri credenti di Firenze, in collaborazione con diversi movimenti mondiali negli Stati Uniti, in Canada e in tutti i paesi d’Europa, è quella della lotta condivisa fra ebrei e musulmani contro l’antisemitismo e l’islamofobia, fenomeni che purtroppo colpiscono la società umana e quella occidentale in particolare. Quindi non siamo soli e nemmeno pochi: è una sfida da condividere e da vincere.
Al di là del fenomeno religioso, che rischia a volte, se non troppo spesso, di scivolare in una posizione violenta e aggressiva, quasi in contraddizione con la propria rivelazione religiosa come l’incontro con il divino che, per forza, dev’essere ed è un incontro di pace, armonia e tranquillità, volevo soffermarmi brevemente anche sul rapporto particolare fra l’ebraismo e l’islam. Proprio in questi giorni, diamo lettura in sinagoga dei capitoli che parlano della storia e del cammino di Abramo, definito padre di tante nazioni, fonte di benedizione. I commentatori medievali aggiungono: «Dio ha detto ad Abramo: “E tu sarai di benedizione, perché fin qua le benedizioni potevano partire da me, cioè da Dio verso l’umano, ma a partire dalla tua attitudine verso le persone, l’umanità potrà anche essere benedetta l’una dall’altra. Tu potrai essere ricordato come fonte di benedizione per gli altri esseri umani”» (vedi Gn 23:2,3).
La grande arte che non abbiamo ancora imparato è quella di essere ognuno fonte di benedizione per l’altro. Una straordinaria visione attraversa questi due versetti: la benedizione non proviene solo dall’alto verso l’uomo, ma anche da un uomo verso l’altro suo simile. Penso che, malgrado qualche differenza di narrazione e di prospettiva, entrambe le religioni, ebraica e islamica, riconoscano se stesse nella genealogia di Abramo, conoscitore del Dio unico, dal quale siamo nati e verso il quale stiamo camminando.
Riconoscersi nell’unico Creatore
Per onestà intellettuale, non posso dire che non ci siano mai state discussioni: a volte, nel dialogo interreligioso, trovo che dobbiamo perfezionare un po’ la nostra metodologia, senza nascondere le difficoltà emerse o le visioni diverse, perché facciamo parte di un gruppo, di una storia e quindi è normale avere narrazioni, punti di vista differenti ed è bene parlarne. Lasciando da parte queste diversità sulle posizioni di base, cioè il riconoscimento della religione islamica, di una collettività, una umma, che si riconosce in un Dio unico che ha creato il mondo e verso il quale dobbiamo camminare e prostrarci, per la maggior parte dei pensatori e dei legislatori ebrei, dalla nascita dell’islam fino ai giorni nostri, non c’è ombra di dubbio che la religione islamica nasca da una visione pura e profonda del Creatore, e non può in nessun modo essere messa in dubbio l’attitudine dei musulmani verso l’Altissimo. Per quanto riguarda l’ebraismo, l’islam è un amico di strada verso il messaggio biblico, che si riconosce in un Dio unico, Creatore del mondo, che non può essere rappresentato in nessun modo e va quindi rispettato attraverso i suoi detti, le sue parole, le sue mitzvot, i suoi comandamenti.
Un breve excursus dentro le problematiche ebraiche. Il mondo ebraico cerca fin dall’antichità di stare attento a non offrire molte occasioni per mescolarsi troppo fra le nazioni. I maestri del passato hanno voluto stabilire che è bene mangiare insieme con persone di altra fede, però, magari, bere vino insieme può dare adito a promiscuità quasi pericolose, come i matrimoni, quindi hanno cercato di proibire di consumare il vino insieme. Due sono i motivi: il primo è la promiscuità; il secondo, il fatto che tale bevanda possa essere usata in qualche forma di idolatria ed essere dedicata a una divinità estranea alla visione monoteista. In quanto strumento di idolatria, non va consumato.
Con l’arrivo dell’islam, iniziano queste discussioni: il vino prodotto da un islamico che status ha? Entra nella categoria di bevanda che non bisogna bere perché va evitato qualsiasi contatto con la dimensione idolatra? E tutti concordano che non ci sia ombra di dubbio: quel vino non è da bere nella promiscuità, ma va bene per commerciare, quindi è ammesso. Non è solo teoria filosofica il fatto che l’islam ci accomuna per il Dio unico ma anche pratica, che per noi è importante. Siccome la religione islamica è una religione sorella della visione monoteista ebraica, questo problema non sussiste.
E, ancora di più, è accaduto durante le guerre dell’‘800. Nel conflitto tra russi e turchi, a un certo punto alcuni soldati ebrei dell’esercito russo hanno cercato un luogo per pregare. C’era una moschea che era stata profanata durante la guerra e venne offerto loro questo spazio già pronto, sacro. Il rabbino ashkenazita domandò ai soldati ebrei: «Possiamo pregare in uno spazio dedicato a un’altra religione?». La risposta fu un «sì» convinto, perché la religione islamica non ha nessun elemento di idolatria, quindi è concesso pregare in una moschea. Capirete che questo ha avuto una grande importanza, se vogliamo fare della sociologia, per la coabitazione pacifica fra ebrei e musulmani nei paesi islamici. Religiosamente parlando, non ho alcun problema a pregare in un luogo sacro islamico.
Voglio supporre che, in qualche modo, complessivamente il mondo ebraico fosse visto nella stessa maniera da quello islamico, fatto di credenti in un Dio unico e degni di rispetto. Al di là delle diversità che ci possono essere fra una religione e l’altra, fra la pratica di un rito e l’altro, nelle grandi questioni del percorso religioso, di una vita etica nel contesto di fede, fra il mondo ebraico e quello islamico ci sono veramente pochissime differenze. Questo ci rassicura nella battaglia e nella sfida che dobbiamo affrontare, purtroppo in contesti vari in Europa e fuori, e dire «no» a certe tendenze più violente che cercano le differenze per distinguersi.
È importante intrepretare, insegnare, omologare la propria visione e convinzione religiosa in termini di collaborazione e amore verso gli esseri umani, di pace e dialogo, invece di avere un’altra lettura fatta di confronto, di differenziazione e odio.
Tutte le religioni in varie epoche, hanno dovuto confrontarsi con queste problematiche e noi, testimoni viventi del nostro tempo e delle nostre religioni, dobbiamo fare delle scelte. Quale lettura vogliamo dare alle nostre stesse credenze: un Dio di amore e collaborazione o di odio e confronto?
Cinque mitzvot comuni
Per non finire con parole astratte, riporterò una lista di mitzvot, di atti religiosi, che si devono compiere nella religione ebraica e islamica, cinque dei famosi mitzvot dell’islam per far vedere quanto siano simili a quelli che ci sono nell’ebraismo. Il primo è la testimonianza, quando il fedele islamico è chiamato a pronunciare in nome di Dio, a riconoscere la sua autorità e la profezia di Maometto; noi, nel mondo ebraico, abbiamo il famoso Shemà Israel, ascolta Israele, in cui si dice che Dio è unico: quindi è la stessa dichiarazione. Il secondo è il digiuno: è vero che l’islam ha scelto di digiunare molto più di quanto sia consuetudine nel mondo ebraico, però almeno un giorno all’anno, durante il Kippur, per 25 ore non si mangia e non si beve, al fine di espiare i propri peccati. La tsedaqah, in ebraico, è il dovere ripetuto nella Bibbia di pensare agli orfani, alle vedove, ai più poveri e bisognosi, per permettere loro di rivivere della nostra ricchezza e delle tsedaqah, le offerte che di continuo facciamo tutte le mattine durante la preghiera, per ricordarci degli altri. Poi c’è la preghiera: nel mondo ebraico antico c’era chi riteneva che occorresse pregare cinque volte al giorno, poi la frequenza è stata ridotta a tre, comunque l’obbligo di pregare è identico a quello presente nell’islam. Infine, il pellegrinaggio, noi tutti conosciamo quello verso la Mecca, l’ultimo dei quali non è finito molto bene, per questo porgiamo le condoglianze a chi ha sacrificato la propria vita per farlo. Anche nel mondo ebraico il pellegrinaggio verso Gerusalemme è da effettuare almeno una volta nella vita.
Credo che la lista possa allungarsi in vari settori. Quindi colgo con estremo favore l’opportunità di questo spazio per ribadire la fratellanza e direi, soprattutto, un sentimento e atteggiamento che ultimamente mi occupa molto: l’umiltà. Per poter dialogare, sentire la posizione dell’altro, venire incontro all’altro e ascoltare, bisogna imparare a essere umili, perché solo l’umiltà ci dà la vera dimensione della nostra vita rispetto al Signore, ma anche rispetto alla vita stessa. Il dolore dell’altro ci permette di essere ciò che siamo chiamati a essere, di ascoltare gli altri e cercare di diventare per loro una benedizione.
JOSEPH LEVI – Rabbino capo della comunità ebraica di Firenze
*Registrazione trascritta, non rivista dall’autore.